Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

sabato 26 novembre 2011

Un trekking con le ciaspole a Casetta di Tiara

Il 30 gennaio 2011 con 80cm di neve
di Atanasio Kostis

Le ciaspole




Le ciaspole, o racchette da neve, sono degli attrezzi che permettono di camminare su un manto nevoso senza affondare. Un tempo erano delle specie di racchette da tennis legate sotto le scarpe, ma oggi sono più tecnologiche e hanno l'aspetto mostrato qui accanto.
Diciamo subito che il cammino sulla neve non è né semplice né riposante, perché gli attrezzi legati sotto ai piedi impongono un certo tipo di andatura e il necessario bagaglio dei trekking invernali pesa. Questa che segue è la descrizione di un percorso lungo diversi chilometri fatto da cinque amici di Marradi esperti in questo tipo di escursioni. Per chi non ha presente i luoghi si può dire che siamo sul crinale dell'appennino, spesso oltre i 1000m di quota. I cinque sono: Elmo Camporesi, Ermanno Cavina, Atanasio Kostis (Aki), Luciano Maurizi, Elio Pritoni

A fianco: La partenza 
dalla Sambuca


Il veterinario Aki ci dice che:

"Si parte dal Passo della Sambuca alle 8.30 e dopo 500m in prossimità di un cartello segnaletico in legno, in cui è disegnata una carta approssimativa, si gira a destra lungo le pendici del versante nord dell’Altello per ritornare sulla forestale.


 



















La carta con il percorso (in giallo)

Si prosegue per 1 km fino ad un bivio, e si gira a sinistra in direzione di Pian dell' Aiara. Nei giorni scorsi qui è tirato un vento gelido che ha rivestito i rami degli alberi con dei manicotti di ghiaccio. Il paesaggio è fantastico.

A fianco: 
gli alberi gelati vicino
a Pian dell'Aiara.



Clicca sulle foto per ingrandire





  


Fino a qui il sentiero è pianeggiante, poi scende per 800m e si arriva ad un rifugio modesto denominato Cà di Cicci, che si vede qui accanto. Il rifugio è semplicemente un vecchio capanno di pastori che ci riparerebbe ben poco in caso di bisogno, ma non ci serve. Comincia a nevicare.
 Dopo un 1km si giunge a Pian della Aiara, di qui si scende per 1,5km tenendo la sinistra fino al torrente Rovigo. Pian dell' Aiara è una casa distrutta, del tutto isolata. Chi abitava qui d' inverno rimaneva bloccato per settimane intere.



   Pian dell'Aiara 


Si costeggia a destra il torrente per 1km fino al podere la Lastra, dopo poco si arriva al Molinaccio da qui si risale per 400m lungo un sentiero molto ripido e si arriva alla Casetta di Tiara alle 13. Il raggiungimento della meta è un evento di cui si può gioire, però in questo genere di escursioni il traguardo è solo a metà della fatica. Insomma adesso dobbiamo percorrere altrettanti chilometri per tornare alle automobili.

 
Felici 
alla meta



Quando nevica la visibilità è ridotta, la via da seguire non è facile da individuare in quanto i segnali bianchi e rossi non sono visibili poiché coperti dal ghiaccio. Per chi non è pratico di montagna camminare con le ciaspole con 70-80 cm di neve fresca non è uno scherzo!
Prima la neve non tiene e si affonda ad ogni passo, poi la fatica dopo 4-5 ore comincia a farsi sentire, infine si calcola male il tempo necessario per il percorso che varia a seconda del tipo di neve (empiricamente un passo con neve sopra al ginocchio corrisponde a circa tre passi senza neve)








A sinistra: scende la sera e sale la nebbia vicino alla località La Faina

 


Si parte dalla Casetta (646m), si sale progressivamente per arrivare dopo 3km alla località denominata La Faina 1044m. Da qui si prosegue per altri 2km con una serie di saliscendi per arrivare al bivio per Pian dell'Aiara (si chiude l’anello ). Da ora in poi il percorso è il medesimo del mattino fino alla Sambuca .

A destra: siamo di nuovo nel bosco
degli alberi ghiacciati vicino a Pian della Aiara




Il tempo impiegato dalla Casetta di Tiara alla Sambuca è stato di h 4,30 inoltre dalle ore 16 fino alle ore 18,30 sono state usate le lampade frontali, in totale 9ore!


Alcuni consigli pratici: per prima cosa chi vuole cimentarsi in escursioni invernali deve essere allenato, deve avere un equipaggiamento adeguato (lampada frontale, telo termico, accendino, diavolina, vestiti di ricambio, scarponi, giacca a vento, mantella, copricapo ecc.) viveri ad alta energia (frutta secca, cioccolato fondente, torrone), un minimo di pronto soccorso e soprattutto liquidi caldi (d’inverno oltre al sudore con la respirazione si perdono liquidi) occorre bere non quando arriva la sete (tardi!) ma poco e spesso. Non bere alcool (subito si ha una sensazione di caldo in realtà il corpo disperde calore perché l’alcool è un vasodilatatore) infine prima di partire controllare sempre il meteo! Se non conoscete i luoghi fatevi accompagnare da un esperto.

domenica 20 novembre 2011

L'allevamento domestico del baco da seta

Il ricordo di Leonora Ceroni Calderoni
detta Isea - Marradi, 20 ottobre 2002.
di Luisa Calderoni

Isea

“Prima di parlare del baco da seta è bene parlare di cosa si nutriva e cioè del gelso. Il podere in cui vivevo, “la Casa” di Sant’ Adriano, era pianeggiante e in un terreno che costeggiava il fiume, c’erano due file di gelsi lunghe circa 400 metri.
L’ultimo allevamento del baco da seta nel nostro podere risale al 1944 perché in luglio ci fu il passaggio del “Fronte”, i nostri campi furono distrutti da bombe e cannoneggiamenti e furono poi usati come campo di aviazione dagli “Alleati”.
Io nel 1944 avevo 17 anni. Ricordo bene le piante di gelso che dovevano essere state messe a dimora ai primi del ‘900: infatti la corteccia era molto liscia e non rugosa come quella di un albero vecchio. Il tronco era lungo circa due metri e a quell’altezza era stato potato per far nascere altri rami più teneri le cui fronde, crescendo ad ombrello, erano facili da sfogliare.

... ricordo bene le piante di gelso ...

Il gelso è fortemente legato alla storia della mia famiglia perché nel 1925, quando io non ero ancora nata, mio padre che stava sfogliando il gelso per nutrire i bachi da seta, cadde dall’albero rompendosi entrambe le braccia.
Poiché la proprietaria del podere aveva stipulato un’assicurazione specifica a favore di chi si fosse infortunato cadendo da un gelso, mio padre ebbe un risarcimento di 2.350 lire.
I primi ricordi dell’allevamento domestico del baco da seta risalgono alla mia infanzia. Allora i bachi li vedevo solo quando erano già grandi ma non sapevo niente della loro provenienza.

... Il gelso è fortemente legato
alla storia della mia famiglia ...
                                                                                                 La famiglia Ceroni negli anni Venti e la proprietaria, con l'ombrellino.

Poi scoprì che alla fine di aprile, puntualmente, come tutti gli anni che seguirono, al nostro podere arrivava un pacchetto grande circa 20cm per 10 e alto 5 cm. Era indirizzato alla nostra famiglia ma il mittente non era scritto in italiano…
La mia mamma, sorridendo, mi spiegava che conteneva le piccole uova dei bachi da seta che venivano da un paese molto lontano. Mentre lei apriva la scatola io ero molto attenta a guardare tutto: dentro il pacchetto c’era un piccolo sacchettino bianco di stoffa molto leggera e poi c’erano due telaini fatti con la medesima stoffa. Sia il sacchetto, sia il telaino avevano dei piccoli fori grandi come una capocchia di spillo.

Il podere La Casa

La mamma, con delicatezza, avvolgeva il sacchettino in una stoffa bianca, si apriva la sottoveste e poneva il sacchettino tra i seni dicendomi: ”Ora, con il calore del mio corpo, le uova si schiuderanno e nasceranno i bachi … poi vedrai come diventeranno grandi!”
Io ero preoccupata perché avevo paura che i bachi invadessero il corpo di mia madre!
Noi a “ La Casa” avevamo una stanza apposita per l’allevamento dei bachi e la chiamavamo “la bigattaia” (2), la bigatéra in romagnolo. Qui mia mamma teneva il fuoco acceso perché i futuri bachi avevano bisogno di tepore. Dopo pochi giorni la mamma mi chiamò perché i bachi stavano nascendo e una volta aperto il sacchetto vidi dei puntini neri che si muovevano tra le altre uova ancora chiuse. Mia mamma mise su di loro due piccole foglie di gelso mentre teneva pronti in grembo i due telaini bianchi. In poco tempo le foglie di gelso si ricoprirono di punti neri e così avvenne il primo trasloco dei bachi: questa operazione continuò finché tutte le uova non si furono dischiuse.
Poi cominciò la fase della vera nutrizione. All’inizio le foglie di gelso venivano arrotolate e tagliate sottili come dei tagliolini e il pasto veniva dato due volte al giorno.
Tutte le mattine i bachi salivano sulle foglie sempre più grandi perché, affamati come erano, erano molto svelti a salire e man mano che crescevano venivano trasferiti in stuoie sempre più grandi. I bachi in effetti crescevano a vista d’occhio!
Dopo sette giorni dalla nascita i bachi facevano la prima muta, smettevano di mangiare e si addormentavano. Al loro risveglio li coprivamo di foglie e li trasferivamo su nuovi telai grandi circa un metro quadrato, sostenuti da aste di legno sul cui fondo si stendeva una carta speciale che diventava la nuova lettiera dei bachi. Gli escrementi che venivano eliminati erano pieni di pellicine lasciate dai bachi in muta. Nei giorni che passavano dalla prima alla seconda muta, i bachi aumentavano di peso e di grandezza e non riuscivano più a stare nei telai: allora si preparava un’ impalcatura che aveva quattro montanti da inserire in quattro basi di legno.

... allora si preparava un'impalcatura ...


Nei pali portanti c’erano dei fori distanti una decina di centimetri in cui si inserivano dei pioli su cui si appoggiavano le stuoie fatte di foglie di bambù intrecciate. Le stuoie potevano essere alzate o abbassate a seconda della temperatura perché se era caldo occorreva allontanarle mentre se faceva freddo venivano avvicinate.
Ogni impalcatura poteva sostenere cinque o si stuoie così grandi che per muoverle bisognava essere almeno in quattro.
Alla seconda muta i bachi erano già nelle stuoie e il lavoro aumentava perché le stuoie piene di escrementi dovevano essere ripulite e lasciate asciugare bene prima di rimettervi i bachi.

... alla seconda muta i bachi
erano già nelle stuoie ...


A fianco: L'allevamento dei bachi fatto per esperimento alle scuole medie di Marradi negli anni Sessanta.

Si riconoscono Marta Scalini (a sinistra), Matilde Nati  e Otello .

Anche per raccogliere le foglie di gelso c’erano le ore adatte perché non dovevano essere bagnate: al mattino c’era la rugiada e in pieno giorno faceva troppo caldo e le foglie, stando nei sacchi di iuta, ribollivano e non erano adatte ai bachi. L’ora giusta per raccogliere il gelso era un’ora prima del calar del sole.
Dalla seconda alla terza muta c’era il massimo del lavoro. Si sgombrava la cucina trasferendo ciò che serviva per mangiare in un capanno all’esterno e venivano costruite altre due impalcature. Anche tenere puliti i bachi era un lavoro lungo e faticoso perché li dovevamo raccogliere con una “ panara” (1) di legno e poi li distribuivamo con cura sulle stuoie pulite coperte di foglie di gelso tritate a macchina.
Per me raccoglierli era un po’ fastidioso perché i bachi avevano delle ventose con cui si attaccavano alle dita. Nel frattempo gli uomini andavano a raccogliere dei rami di ginestre che poi disponevano al sole ad asciugare.

... gli uomini andavano a raccogliere
dei rami di ginestre ...


Al centro della foto: i rami di ginestra con i bachi bianchi attaccati

Al quarantesimo giorno di vita il corpo del baco cominciava a riempirsi di seta liquida, il baco diventava color ocra trasparente e alcuni di loro cominciavano a secernere la bavetta e io mi divertivo a tirare quel filino quasi invisibile. Quando la prima stuoia di ginestre era pronta cominciavamo a trasferire delicatamente i bachi sui rami stando attenti che fossero distanziati tra di loro e a non ucciderli perché morendo i bachi avrebbero sporcato gli altri bozzoli. I bachi si distribuivano sui rami e cominciavano a costruire il bozzolo. Io li guardavo incuriosita vedendo che erano molto indaffarati ad agganciare la bava alla ginestra affinché il bozzolo non cadesse dal ramo. Attraverso il bozzolo ancora trasparente osservavo il baco che muoveva la testa mentre dalla bocca gli usciva il filo di seta. Non mi ricordo quanti giorni passassero prima della raccolta dei bozzoli, era la mamma che stabiliva il giorno in cui si dovevano raccogliere deponendoli in grandi cesti di vimini. Dopo c’era la scelta e la pulizia dei bozzoli, si toglieva la seta superflua detta “spelaia” (3) e si scartavano i bozzoli macchiati e i “doppioni” (4).
I bozzoli scelti venivano portati alla Filanda Guadagni di Marradi mentre tutti gli attrezzi usati venivano riposti in soffitta ma non c’era tempo per ripulire i telai e le stuoie perché il grano era maturo e pronto per essere falciato.
Un giorno io salii in solaio e vidi che sul muro c’erano tante farfalle bianche uscite da alcuni bozzoli attraverso un piccolo foro. Capii così che dal bozzolo usciva una farfalla che prima di morire deponeva su di sé le uova per dar vita a dei nuovi bachi…”


Il libretto di lavoro di una filandaia e una matassina 
di seta della filanda Guadagni Nati Vespignani.

Note:
1) la panara era una grossa paletta di legno, che serviva a togliere il pane dal forno
2) il baco da seta era chiamato bigatto da cui bigattaia, locale per l'allevamento del baco da seta.
3) la spelaia o bavella era la prima seta secreta dal baco per fissarsi al cosiddetto “bosco”. Veniva raccolta e filata dai contadini formando una seta di bassa qualità
4) il “doppione” era il bozzolo doppio prodotto da due bachi che formano un unico bozzolo contenente due crisalidi. Il doppione era costituito da bava di seta doppi da cui si ricavava il preziosissimo shantung, tessuto ricco di nodi, fiammature e imperfezioni.

lunedì 14 novembre 2011

1629 I proverbi raccolti da Orlando Pescetti

Leggiamo qualche detto di un marradese
di quattro secoli fa.
di Claudio Mercatali




Orlando Pescetti nacque a Marradi nel 1556 e morì a Verona nel 1622 o 1624. Oggi qui in paese questo cognome non c’è più, ma nei vecchi documenti del Settecento e dell’Ottocento compaiono diversi marradesi che si chiamavano così, perché questa fu un’antica famiglia di notai e scritturali. C’è anche una via intitolata ad Orlando e, com’è noto, è il tratto di strada che va dalla Chiesa arcipretale all’Asilo.
Il nostro uomo era un professore, erudito e letterato di un certo valore. Tutte le sue biografie dicono che scrisse la tragedia Giulio Cesare, che forse ispirò Shakespeare nell’ opera che porta lo stesso nome. Non è il caso di leggere ora questo scritto, perché secondo il gusto letterario odierno le tragedie e le commedie del Seicento sono quasi sempre pesanti e sgradevoli e per giunta questa è anche modesta. Però si può dare una scorsa ai Proverbi Italiani, che Pescetti raccolse in un grosso volume di 286 pagine, edito e ristampato diverse volte, perché ebbe un certo successo. Useremo l’elegante edizione veneziana del 1629, di cui qui accanto si vede la prima pagina. Il libro è organizzato per temi. Leggiamo:

  • Il chiedere
Chi non cerca non trova, chi non domanda non ha.
Quando tu vedi il lupo non cercare le sue pedate.

  • Il certo
E’ meglio il poco oggi che il molto domani.


  • Il chiaro e il manifesto

E’ ben cieco chi non vede il Sole.
Mostrare a uno il morto sulla bara.
E’ come la predica del pievan Arlotto, che una parte non l’intese lui, una gli uditori, e una terza né l’uno né l’altro.   

Via Pescetti (Jum Maré)  
prima dei bombardamenti del 1944. 
  • Il conoscere
E’ più conosciuto che l'ortica al tatto.
Non ogni uccello conosce il buon grano.
A pignatta che bolle non si accosta la gatta.


  • La contentezza
Sempre stenta chi non si accontenta.
Casa per abitare e vin per bere, terra quanta se ne può vedere.
La bella non vuol me, la brutta non voglio io, tristo a me, che farò io?


 Pescetti è piacevole quando si dilunga un po’ e si lascia andare. Così si scopre che la sua prosa è facile e a volte anche un po’ boccaccesca:

  • Il guardarsi
Guardati da alchimista povero, da medico ammalato, da subìta collera, da matto attizzato, da huomo deliberato, da femmina disperata, da odio di signori, da compagnia di traditori, da huomo, che non parla, da can, che non abbaia, da giuocar danari, da praticar con ladri, da ostaria nuova, da puttana vecchia ... da opinion di giudici, da dubitation di medici ... da serva ritornata e da furor di popolo.


  • Il cercare
Tre cose si cercano che non si vorrebbero trovare: se i calcagni sien rotti, se il cesso sia lordo, se la moglie sia puttana.


Il libro dei Proverbi va avanti di questo passo per tante pagine, e a scorrerle si incontrano delle massime gustose. Eccone dieci, selezionate qua e là: 



La Luna non si cura dell’abbaiar dei cani.
Raglio d’asino non va in cielo.
Chi dà e ritoglie il diavolo lo ricoglie.
Chi dona all’indegno due volte perde.
Chi dorme non pecca.
La buona roba non fu mai cara.
Non si è esperto aratore se qualche volta non si fa un solco torto.
Gli errori dei medici sono coperti dalla terra, quelli dei ricchi dai denari.
Se un nasce gallina convien che razzoli.
La notte è madre dei consigli.

L’ultimo proverbio del libro è il classico “vendere la pelle dell’orso prima di averlo preso”. Il significato sarebbe chiaro, ma Pescetti ci racconta un storiella che secondo lui avrebbe dato origine al detto:

“Diede un hoste da mangiare a tre giovani che haveano deliberato di andare a caccia di un terribile Orso che in quella contrada facea gran danni, avendo essi promesso che preso che avesser l’Orso, e venduta la pelle, il soddisfarebbono intieramente. I giovani andati, subito che vider l’Orso, la diedero a gambe. Uno si salvò sopra a un albero e l’altro che avea miglior gambe, si trasse in sicuro e il terzo fu raggiunto dall’orso e, come vide di non poter scampare, si gettò in terra con la faccia in giù e si finse morto, sapendo che l’Orso quando crede che l’animale che gl’ha preso sia morto, non gli dà più noia. L’Orso, per chiarirsi se egli era veramente morto, accostatogli il viso nell’una delle tempie, si ingegnava di voltarlo sottosopra, per vedere se alitava. Poiché si era affaticato un pezzo indarno, finalmente credendolo veramente morto se n’andò. Ora disceso quel che sull’albero era salito e raggiunto il compagno domandò che cosa la bestia gli avesse detto nell’orecchio mentre egli era disteso in terra, e lui rispose: egli mi ha detto questo consiglio, che io non debba più vender pelle d’orso se prima non l’ho preso”.


Le illustrazioni sono prese dall'edizione originale del 1629

martedì 8 novembre 2011

Dieci anni

dal consolidamento
della torre del Castellone

di Marco Cappelli


Mi fa piacere, a dieci anni dai lavori di restauro, presentare una sintesi degli studi e degli interventi che hanno arrestato il degrado e, probabilmente, il crollo della torre del “Castellone”, un monumento che da più di un millennio è parte fondamentale del panorama di Marradi e di gran parte dell’alta valle del Lamone.
Al termine dei lavori fu pubblicato, con patrocinio del Comune di Marradi, un libro – Il “Castellone” La storia e il consolidamento statico della Rocca di Castiglionchio - la parte storica fu curata da Fulvia Rivola, il consolidamento statico da Paolo Scalini e Marco Cappelli, presentazione di Giuseppe Matulli. La nota e i disegni che seguono sono tratti da questo libro e dalla tesi di laurea di Enea Nannini e Marco Cappelli.
L’esame della struttura muraria del mastio della fortezza di Marradi, eseguito prima dell’intervento di consolidamento del 2001, ci ha consentito di scoprire una torre che in origine aveva all’interno dei solai in legno poggianti su travi orizzontali. Nel corso dei secoli, probabilmente a seguito di distruzioni causate da eventi sismici o eventi bellici, i solai lignei sono stati sostituiti da volte di pietra.
Queste modifiche però non sono state accompagnate dall’esecuzione di opere capaci di assorbire le spinte orizzontale delle volte. Non furono infatti edificati contrafforti nelle pareti verticali ne inserite catene nella compagine muraria.

Per realizzare le volte furono costruite delle pareti interne di appoggio che hanno ingrossato i muri perimetrali ma questo accorgimento non è stato sufficiente a contrastare le nuove forze, in particolare la spinta della volta maggiore, quella della copertura.   
In termini più tecnici: un sistema statico pesante è stato trasformato in un sistema statico spingente senza la realizzazione delle dovute controspinte orizzontali.
Questa situazione di non equilibrio, tra le forze in gioco nelle strutture, ha causato nel tempo una rotazione rigida dei muri di spalla con conseguente depressione e parziale crollo delle volte. L’evoluzione delle fessure e delle deformazioni evidenziava uno stato di tensioni che in molti punti aveva superato il limite di resistenza delle pietre e, in alcune zone delle pareti si stava verificando l’espulsione di materiale lapideo evento che, normalmente, preannuncia il collasso di tutto l’edificio.  


 












In altre parole le condizioni di fatiscenza del mastio erano talmente avanzate e i margini di resistenza così ridotti che, prima dei lavori di risanamento statico, la torre poteva crollare in qualsiasi momento.
I calcoli statici hanno confermato questo stato di equilibrio estremamente labile con la risultante delle forze R che cadeva al limite esterno della base delle pareti di spalla (vedi schema delle spinte). 

 



Clicca sulle immagini 
se le vuoi ingrandire




Per salvare il monumento pertanto era necessario, in primo luogo, eliminare la spinta delle volte sulle murature perimetrali, affidando la funzione portante a solai in legno. Con tale operazione si riequilibravano le forze nelle murature e nelle fondazioni e si è ripristinava il sistema strutturale originario della torre.
Importantissima, inoltre, per la salvaguardia delle murature era la costruzione di una copertura con un idoneo sistema di smaltimento delle acque piovane.

Uno dei principali problemi da risolvere, per il consolidamento della torre, è stato quello di portare tutta la struttura nelle condizioni di resistere ai turbamenti dovuti ai lavori di restauro che avrebbero potuto causare il crollo di grosse masse murarie oramai prossime al distacco.
Per contenere cautelativamente le pareti della torre, è stato studiato un sistema di cerchiatura misto costituito da travi di legno e tiranti metallici con interposto un assito di ripartizione. Si è progettato inoltre un solido piano di appoggio in struttura di acciaio, indipendente dai muri della torre, sul quale posare i ponteggi di facciata. Questo piano a fine lavori è stato lasciato in opera e ora costituisce un interessante balcone panoramico su Marradi, Biforco e l’alta valle del Lamone.
Completata, con la centinatura delle volte e i puntellamenti interni, la messa in sicurezza del monumento si poteva procedere ai lavori di sottofondazione, ricostruzione dei basamenti murari e passare alla demolizione e ricostruzione dei paramenti più deteriorati con il metodo cuci e scuci.
In questa operazione si è sempre cercato di rendere riconoscibili le parti aggiunte da quelle antiche in modo che, come insegna la moderna dottrina del restauro, l’osservatore attento non possa essere ingannato.
A questo punto con la costruzione in legno dei due solai interni e della copertura, il sistema statico originario dell’ antica torre veniva ripristinato e i lavori di restauro potevano dirsi conclusi.*
I finanziamenti non furono sufficienti per il consolidamento dello sperone in pietra, alto circa 7 metri, posto a ponente, nella zona d’angolo del recinto più elevato del castello. Questo pezzo di muraglia, ancora visibile al centro della foto (gennaio 2002), da alcuni anni purtroppo è crollato.



* In accordo con l’Amministrazione Comunale che ha finanziato il restauro il gruppo di lavoro era così composto:
Arch. Enea Nannini: capogruppo e progettazione architettonica; Arch. Marco Cappelli referente dell’Amministrazione Comunale e progettazione architettonica; Arch. Paolo Scalini: coordinamento generale dell’opera, progettazione strutturale, Direzione lavori e coordinamento in materia di sicurezza durante l’esecuzione dei lavori; Ing. Roberto Rossi: coordinamento in materia di sicurezza durante la progettazione. I lavori furono eseguiti dall’impresa edile La Serra Costruzioni dei Fratelli Mercatali S.n.c.



mercoledì 2 novembre 2011

I liquori aromatici


Alla riscoperta di alcune
vecchie ricette
di Claudio Mercatali




IL LIQUORE AL BASILICO
La pianta regale degli antichi greci

Il Basilico è una pianta originaria del Medio Oriente che si è diffusa in Italia e nel sud della Francia. Il nome deriva dal greco basilikos, che vuol dire "del re", attribuito per la sua bontà come erba aromatica. Vive un anno e fiorisce in estate a partire da giugno. Qui da noi non è spontanea e si deve seminare, meglio se in vasi, all' inizio della primavera. E' odorosa, serve in cucina per tante ricette e si dice che tenga lontane le zanzare. Per questo molti la coltivano in vasi che tengono sul davanzale. Le essenze del basilico sono solubili in alcol e quindi dalle foglie, per infusione, si può ottenere un gradevole liquore. La ricetta classica è questa: mezzo litro di alcol, mezzo litro d'acqua, mezzo chilo di zucchero, venticinque foglie di basilico, una buccia di limone. Le foglie e la buccia di limone vanno messi in infusione nell'alcol puro per quindici giorni in un vaso sigillato, da girare sotto sopra una volta ogni tanto. L'acqua e lo zucchero si aggiungono dopo.


IL LIQUORE DI MORE
Una dolce bevanda dal frutto del rovo

Il rovo è un arbusto che fiorisce da giugno a settembre e dà fiori rosa o bianchi. Le more sono falsi frutti formati da numerose drupe con tanti semini (i veri frutti), molto ricchi di acqua (85%) che contengono Vitamina A e C. Secondo una tradizione popolare, le more non andrebbero raccolte dopo 29 settembre, S.Michele arcangelo, perché in tale giorno il demonio, che venne sconfitto dall'angelo, ci sputa sopra. Il sapere popolare ha spesso un fondo di verità e infatti succede che la maturazione in autunno favorisce la concentrazione nel frutto di sostanze sgradevoli. Le essenze delle more si sciolgono bene in alcol e quindi per infusione si può ottenere un gustoso liquore. La ricetta classica è questa: 250g di more, 1 etto di zucchero, alcol quanto basta per affogare le more, una punta di vaniglia.
Mettiamo in infusione per quindici giorni in un vaso chiuso da scuotere ogni tanto. Dopo l'infusione filtriamo con un panno o una calza di nylon. Sciogliamo 50g di zucchero in un bicchiere d'acqua calda e versiamo nel liquido filtrato. Perché così poca acqua? Perché le more fresche la contengono già in origine, in gran quantità. Se il liquore ottenuto è troppo alcolico si può diluire dopo un assaggio.


IL LIQUORE CON I NOCCIOLI DI CILIEGIA
Una ricetta antica


Questa particolarissima ricetta è ben descritta in questo articolo tratto da un quotidiano del 1893. Leggiamo. Per fare una prova basta una bottiglietta da succo di frutta (ha un volume di 125ml). Avvolgiamo 50 noccioli in un panno, rompiamoli con un martello, mettiamoli nella bottiglia e riempiamo con la grappa. Il liquore è pronto dopo un mese e quasi di sicuro sarà amaro e poco gradevole. Per correggere il sapore si può aggiungere zucchero, in una misura che dipende dal nostro palato e dal tipo di grappa usato per l'infusione. Se si vuole un liquore ancora più dolce si può usare questa ricetta: 100ml di grappa, 50g di noccioli tritati, di ciliegia, 35g dì zucchero, 25g di acqua.


IL LIQUORE CON LA LIQUIRIZIA
Un estratto alcolico con i "tabu"

La liquirizia fa parte del genere Glycyrrhiza, che comprende 18 specie di piante perenni, a fioritura estiva. E' un' erba resistente al gelo, e cresce bene in terreni calcarei e argillosi, acidi, come potrebbero essere i castagneti. Sviluppa un grosso rizoma sotterraneo da cui si estendono stoloni e radici, che nelle piante del nostro territorio arrivano a un metro di lunghezza. Della liquirizia si usano le radici di piante di tre o quattro anni, raccolte in autunno ed essiccate. Le persone esperte la riconosco facilmente fra le tante erbe del sottobosco dei castagneti, e la  radice appunto ha un leggero sapore di liquirizia, che si sente se si tiene in bocca per un po'. Noi ora useremo la liquirizia pura, raffinata, quella in cubetti neri, che una volta si chiamava "tabù". Gli ingredienti per fare circa mezzo chilo di liquore sono questi: 25grammi di liquirizia pura a pezzettini, 150 grammi di acqua oligominerale, 150 grammi di zucchero, 125 ml di alcool a 90°.
Sciogliamo a bagnomaria la liquirizia in 75g d'acqua. Agitiamo di tanto in tanto fino allo scioglimento completo (che richiede 20 minuti) e poi lasciamo raffreddare. Sciogliamo lo zucchero nei rimanenti 75g d'acqua calda. Quando la miscela di liquirizia e quella di zucchero sono fredde le riuniamo in un unico recipiente e aggiungiamo l'alcool. Chiudiamo e lasciamo riposare per qualche giorno prima di consumare.


IL PRUGNINO
Il liquore più amato a Marradi

Il liquore di prugna è un tipico super alcolico della nostra zona. Un tempo era il liquore di chi aveva pochi soldi e non si poteva permettere il cognac. Quasi tutti i baristi lo preparavano in settembre quando maturano le prugne del rovo, che sono delle bacche blu di sapore sgradevolissimo. Sembra impossibile che da una bacca così aspra si possa ottenere un liquore dal sapore così delicato. La ricetta classica è questa: si mette un chilo di bacche intere in un litro di alcol puro, per quaranta giorni. Poi si filtra e si mette momentaneamente da parte l'alcol. Alle bacche si aggiunge un litro di buon vino rosso e si lascia a riposo per quindici giorni. Poi si filtra, si aggiungono 400g di zucchero, meglio se sciolti almeno in parte in un po' d'acqua calda e si mescola il vino zuccherato con l'alcol messo da parte. Con queste proporzioni si ottiene un liquore a circa 45° e quindi molto forte.




Qualche notizia 
sul pruno selvatico

Il Prunus spinosus è un arbusto a crescita lenta, alto due o tre metri. Il fogliame in autunno diventa giallo-bruno. I fiori si sviluppano molto prima delle foglie, in primavera. Emanano odore di miele e producono molto nettare. I frutti sono piccole drupe blu, sferiche, aspre perché ricche di tannino e acido malico. Fruttificano da settembre a ottobre, rimangono a lungo sui rami, e  uccelli, lepri e volpi le mangiano volentieri. Il legno è duro, con alburno rossastro e duramen rosso-bruno. Un tempo si usava per fabbricare bastoni da passeggio. E’ un arbusto abbastanza longevo e vive in media 60-70 anni. Si credeva che piantandolo davanti a casa, proteggesse dal fuoco e dai fulmini.


  



NOTA
Ricordate l'olio di iperico preparato il 21 giugno scorso e descritto nell'articolo "Gli oli balsamici"? E' quello mostrato qui accanto, rosso e pronto per l'uso.