Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

lunedì 26 dicembre 2011

L'orologio del Comune di Marradi

e la sua suoneria,
detta naja
di Claudio Mercatali




La naglia, o naja in romagnolo, è la campana dell’ orologio del Comune. La parola è l’abbreviazione di “sonaglia” o “sonaja”, cioè di suoneria. Da tanto tempo, per tre volte al giorno, la naja diffonde il suo suono a doppia tonalità, che consiste in una trentina di rintocchi rapidi. Secondo l’orario classico, la prima “sonaja” è al mattino, alle sette, poi c’è quella di mezzogiorno e ancora alle sette e mezzo della sera. Però questi orari non sono sempre stati gli stessi e si dice che un tempo, a fine Ottocento, ci fosse una naja anche alle quattro di mattina, per svegliare chi doveva recarsi al lavoro all’alba.

I trenta rintocchi a “din don” della naja erano provocati da due martelletti azionati dal meccanismo dell’orologio della torre, che scandisce il tempo a Marradi da alcuni secoli. A parte la naja, i rintocchi dell’orologio, quelli delle ore, hanno una successione particolare, di sei in sei e in pratica ogni sei ore ricominciano da capo. Così alle sei si sentono sei colpi ma alle sette uno solo e alle otto due e così via. Un suono più tintinnante segna i quarti d’ora. A mezzogiorno la naja entra in azione e suona anche la campana del monastero della Domenicane e il “campanone” della chiesa arcipretale. Nell’Ottocento questa suoneria segnava la fine dell’orario di lavoro mattutino e l’inizio della pausa pranzo.

Per consuetudine il tutto avveniva un po’ prima del mezzogiorno vero, come per concedere un piccolo sconto sull’orario di lavoro. All’una l’orologio batte un colpo solo, e perciò nel dialetto romagnolo di Marradi le ore tredici sono “e bòt”, il rintocco, il botto. Tutte queste cose chi è di Marradi le sa già e quindi andiamo avanti. Intanto è bene chiarire che gli orologi del Comune sono stati diversi, e furono sostituiti via via che diventavano vecchi. Ecco la successione degli interventi a partire dal 1583.


GLI OROLOGI DEL COMUNE 
DI MARRADI
Da: Antichi orologi da torre
in Mugello e val di Sieve

Si sanno tante cose degli orologi del Comune, perché lo studioso Renzo Giorgetti alcuni anni orsono svolse uno studio accurato su documenti dell’Archivio. Ecco un riassunto delle sue ricerche:  
  • Nel dicembre 1583 il Capitano di Marradi stanziò 16 lire “per acconciare l’oriolo”.
  • Nei documenti del Seicento ci sono tante delibere di spesa per la manutenzione
  • Nel 1736 l’orologio fu rotto dal “temperatore” ossia dall’addetto alla carica, che fu licenziato.
  • Nel 1776 “l’orologiaro” Giuseppe Baggiacchi di Firenze costruì un nuovo orologio.
  • Dal 1835 al 1851 L’orologiaio Agostino Fabroni curò l’orologio e caricò la naja.
  • Nel 1891 si cambiò l’orologio. Il nuovo, con la naja che conosciamo, fu costruito dalla ditta Isidoro Sommaruga di Milano e costò mille lire (lo stipendio di un anno per due operai). 

    Per i più svariati motivi, nella storia di Marradi i Fabroni non mancano mai. Dal verbale del Consiglio comunale del 31.08.1867 apprendiamo che il Comune chiese all’ orologiaio Luigi Fabroni di ridurre la suoneria a sei per sei (come oggi) e di indicare i quarti con dei rintocchi di tono diverso. L’orologiaio provò e riprovò questa modifica ma dovette rinunciare, perché il meccanismo era vecchio e difettoso. Si accontentò di far fare all’ orologio un solo tocco per indicare la mezz’ora.

    Per avere il rintocco ai quarti d’ora era necessario un nuovo orologio ma il Consiglio comunale nel 1867 non lo comprò:

    “… considerato che le attuali ristrettezze di bilancio del Comune non permettono di acquistare un orologio da torre a quarti..”

    I quarti furono introdotti nel 1891, quando venne cambiato tutto il meccanismo. L’orologio di oggi non è quello del 1891, perché è stato sostituito da pochi anni con uno elettrico che però riproduce fedelmente il suono di quello vecchio. Quando c’era il congegno meccanico del 1891 ogni giorno l’orologiaio Roberto Benazzi saliva sulla torre del Comune a caricarlo e questa era un’abitudine caratteristica ma anche scomoda. Prima di lui questo compito era stato dell’orologiaio Pio Graziani. Il meccanismo era della Ditta Isidoro Sommaruga, che era una manifattura famosa nell’ Ottocento e i suoi orologi si trovano in molte torri comunali, un po’ in tutta Italia. Questo meccanismo era più complicato di quello del 1776, e dalle delibere del Consiglio comunale si apprende che il 28 febbraio 1894 l’addetto alla carica scrisse questa lettera al Comune:

    “… Il sottoscritto Cappelli Silvio, moderatore dell’orologio pubblico, espone il maggior servizio prestato dopo l’acquisto del nuovo orologio e chiede un aumento del compenso da 40 a 100 lire annue …” Il Consiglio rispose di no (5 favorevoli e 7 contrari) ma concesse un aumento fino a 80 lire. La vecchia naja e l’orologio meccanico del 1891 sono conservati in una stanza delle ex scuole elementari, inutilizzati ma intatti.

    Un orologio della ditta Sommaruga simile al nostro è a Lanciano (Chieti) dove è stato sistemato nel museo cittadino in questo modo.
    I grossi contrappesi di pietra ci sono anche nell’orologio di Marradi, ma sono quattro, perché appunto il quarto serve per caricare la naja..

    LA GARANZIA DELL’OROLOGIO 
    DEL COMUNE DEL 1776
    Io infrascritto, avendo venduto al prezzo stabilito al Magistrato di Marradi un orologio da torre e postolo convenientemente nella nuova torre del Comune, in virtù di ciò prometto e mi obbligo che qualora detto orologio venisse a soffrire, nel corso di anni tre, qualunque alterazione e difetto dell’ arte, di raggiustarlo a tutte mie spese e di rimetterlo nello stato in cui di presente si ritrova e ciò sotto l’obbligo della mia propria persona, eredi e beni e beni de’ miei eredi, presenti e futuri, e che così sia fatto.

    Io Giuseppe Baggiacchi, orologiaio, tutto ciò affermo, 
    In Dei nomine, amen  11 giugno 1776

    lunedì 19 dicembre 2011

    La Badia

    Breve storia 
    del monastero
    di S.Reparata al Salto 
    o nelle Alpi
    di Giuseppe Matulli

    La Badia in una cartolina
    degli anni Trenta

    Non è possibile delineare in poche righe le vicende della "Badia", non solo per la loro complessità o per mancanza di documenti, ma soprattutto perché la storia del territorio marradese a partire dal X secolo è fin dagli inizi quasi esclusivamente storia di Castiglionchio e storia della "Badia" , anzi più del Monastero che del Castello; queste brevi note cercheranno di mettere a fuoco solo alcuni aspetti legati all'Abbazia e al territorio circostante.
    Dunque S.Reparata al Salto o nelle Alpi (salto = luogo boscoso e atto al pascolo) solo più tardi denominata Badia del Borgo di Marradi, nasce nell' XI secolo quasi contemporaneamente agli altri monasteri di S.Maria a Crespino, di S.Giovanni di Acerreta e di S.Barnaba di Gamogna a testimonianza di una forte ripresa di spiritualità e di esigenza di riforma religiosa che caratterizzò il secolo (anche se rimane comunque singolare come nel nostro territorio toscano nascano quasi contemporaneamente ben quattro monasteri).

     

    S.Giovanni Gualberto,
    pittura del Maestro di Marradi.


    I Vallombrosani 
    e i Camaldolesi

    I primi due monasteri, come testimonia un decreto del 25 novembre del 1112 entrarono ufficialmente a far parte della Congregazione Vallombrosana fondata da S.Giovanni Gualberto, mentre il monastero di Valle Acerreta con l'eremo di Gamogna furono fondati direttamente da S.Pier Damiani ed appartennero alla Congregazione Camaldolese.
    L'agiografia vallombrosana pone S.Reparata fra le badie fondate direttamente da S.Giovanni Gualberto, il promotore dell'ordine vallombrosano, ma si tratta sicuramente di una leggenda di cui si comprendono bene i motivi. In realtà documenti attestanti la presenza di un monastero fanno riferimento a date certamente anteriori all'epoca nella quale il santo avrebbe fondato S.Reparata. Infatti un documento del 1045 recita testualmente: "Allora ricevette nel suo ordine un altro monastero di Romagna, il cui nome era S.Reparata". Se S.Gualberto "ricevette" significa che il monastero già esisteva e probabilmente era appartenuto fino ad allora all' Ordine Benedettino.
    Scrivono comunque gli storiografi della Congregazione Vallombrosana che si ignora dove il Santo, giunto nel nostro territorio dalla Toscana, abbia scelto la sua prima dimora: " ... dicono alcuni che cominciò nella terra di Marradi, là dove al presente è la chiesa di S.Lorenzo e quivi vogliono costruisse un ospedale per i pellegrini e che a quei tempi (1036) non vi era né il castello né la terra di Marradi e che ivi vi ridusse molta gente ed il Santo allora si rifugiò al Borgo".

    Le donazioni

    D'altronde al 1036 risale sicuramente la prima donazione al monastero: essa indica (il documento è molto importante) che nel 1036 S.Reparata era un monastero già ben organizzato ed esistente da tempo. Le donazioni al monastero comunque continuarono numerose nei secoli seguenti così come numerose risultano le cessioni enfiteutiche da parte del monastero verso altri monasteri (S.Giovanni d'Acerreta, S.Barnaba di Gamogna, S.Maria di Crespino) e privati.
    Alcuni di questi atti sarebbero degni di citazione in quanto attestano della considerevole ricchezza economica del nostro monastero e nel contempo rappresentano documenti singolari e preziosi di storia locale.

    • In una donazione del 1165 Benno e Ligarda sua moglie donano la sesta parte del monastero e Chiesa di S.Lorenzo con tutte le sue appartenenze di cimitero e sepoltura. Il documento è stilato nella chiesa di S.Lorenzo posta in villa Marciana.
    • Il primo maggio 1223 un atto attesta la vendita di due pezzi di terra posti in Marciana fatta da Pagano Pagani all'abate di S.Reparata.
    • Il 30 novembre 1270 vede la vendita di un pezzo di terra posta in Marciana in favore dell'abate di S.Reparata. L'atto è redatto nella piazza di Marradi e il 23 marzo 1306 abbiamo un'altra vendita di terra posta in Marciana all'abate di S.Reparata. L'atto è redatto nella chiesa di S.Lorenzo in Marradi.

    Da questi documenti si ricava chiaramente come fino a tutto il 1330 il nostro paese fosse diviso in due parti ben distinte: alla destra del fiume Lamone, Marradi, alla sinistra del fiume, Marciana. Solo nel tardo 1300 le due parti divennero un tutto unico con il nome di Marradi, permanendo a tutt'oggi il toponimo Marcianella a conferma dell'antica distinzione. Il Monastero poté comunque prosperare nei secoli vedendo accrescere il suo prestigio al punto che libere collettività sai assoggettavano volontariamente per partecipare alla sicurezza conferita da quel valido patronato. E non solo libere comunità ma numerose furono anche le Chiese soggette al patronato del Monastero: S.Maria a Crespino, S.Lorenzo in Marradi, S.Cassiano in Petrosola, S.Eufemia, S.Martino, S. Pietro e S. Matteo in Vezzano.

    I beni e gli abati

    Nel XII secolo i possessi della Badia si estendevano anche verso Imola e verso Faenza e il monastero fruiva addirittura di una salina posta nel territorio di Cervia e donata all'abate nel 1213. Sappiamo infine che nel 1726 gli affittuari in territorio marradese del monastero di S.Reparata erano ancora ben 98 e che l'ultimo abate risale al 1762. In seguito la Badia fu amministrata per qualche tempo da Vallombrosa, poi soppressa affidandone i beni ad un abate di Governo e con tale sistema fu retta fino alla soppressione che risale al 1808.
    Poco si sa degli abati succedutisi alla guida dell'abbazia di S.Reparata benché don Guiducci, abate nel 1638, abbia fra l'altro prodotto un "Catalogo degli Abati del monastero di S.Reparata del Borgo di Marradi". Quivi di ciascun abate vengono riportati il nome, il luogo d'origine, oltre alla data di insediamento, ma eccezionalmente di un abate, Taddeo Adimari, è riportata una biografia. Noi sappiamo che questo guidò il monastero dal 1485 al 1517 e che fu l'ultimo degli abati nominati a vita, ma appare evidente che la motivazione che ha spinto il biografo a fare per lui eccezione risiede in altro. E' in effetti singolare e importante per Marradi è la vita e l'opera di questo uomo tanto che merita di essere brevemente ricordata.

    L'abate Taddeo Adimari

    Nato intorno al 1445 dalla nobile famiglia degli Adimari, Taddeo condivide l'infanzia con Lorenzo il Magnifico che, proprio dalla nonna di lui ricevette i primi elementi di istruzione. Vestì l'abito servita nel Convento della Santissima Annunziata e successivamente prese i voti sacerdotali senza tralasciare peraltro di addottorarsi in teologia e di dedicarsi alla predicazione.
    Negli anni della maturità la sua amicizia col Magnifico si ruppe quando l'Adimari assunse una posizione decisamente antimedicea e per questo fu mandato in esilio. Al 1479 risale una lettera di Taddeo al Magnifico in cui egli confusamente confessa di aver sbagliato e se ne dispiace invocando con accorati accenti la grazia di rivedere la "dolce patria". Nulla sappiamo dell'accoglimento della supplica. Nel 1484 o 85 si ritirò a S.Reparata della quale fu abate fino al 1517. Il grande merito dell' Adimari è quello di essere stato committente delle opere pittoriche del Maestro di Marradi, cinque tavole che rappresentano "I Santi Antonio abate, Sebastiano e Lucia", la "Madonna della Misericordia", "S.Giovanni Gualberto", la "Madonna col Bambino e i Santi" corredata da un paliotto con l'immagine di S.Reparata che esprimono fra l'altro gli influssi del Botticelli, del Ghirlandaio e del Perugino ad indicare quanto composita, ma colta e preziosa, sia l'arte del Maestro.

    Un potente 
    e riservato Monastero

    Potenza economica, prestigio culturale e artistico, come questi brevi appunti hanno cercato di dimostrare, per almeno sette secoli queste furono senz'altro le prerogative del Monastero. Ma la spiritualità espressa, il fervore religioso dimostrato e suscitato attorno a sé, quelle peculiarità, cioè: che dovrebbero essere proprie di un centro monastico, a che grado si espressero? E inoltre, quale fu la vita del monastero in relazione agli eventi politici generali o locali anche drammatici che riguardano il nostro territorio? Lo stesso già citato abate Taddeo Adimari, autore di un libro di ricordi, si preoccupò quasi esclusivamente dei titoli di possesso dei beni. Possiamo ritenere che le cospicue donazioni ricevute nel corso dei secoli significassero esplicitamente che la badia di S.Reparata era considerata centro di preghiere e di suffragio. Possiamo ritenere che la scarsa incidenza cronachistica sulla Badia delle vicende locali significhi realmente che il Monastero, per il prestigio religioso di cui godeva, sia sempre rimasto indenne da riflessi sconvolgenti e quindi degni di essere annoverati.
    Quasi certamente il monastero non svolgeva cura d'anime, sicuramente non gli abati. Ma rimane comunque questa constatazione che non appaga la nostra curiosità e costituisce un problema aperto, anche se da sempre cronaca e storia poco si sono occupate di spiritualità e fervore religioso o perché dati come scontate espressione di un centro religioso, o perché ritenuti non interessanti un lavoro di ricerca, o perché non facilmente misurabili e valutabili per il pregiudizio per il quale la storia è la storia di possessi, di confini che cambiano, di personalità che si alternano nel tempo ecc ecc

    martedì 13 dicembre 2011

    I marchesi di Val dla Meda

    Un’antica famiglia 
    di nobili che amavano 
    stare a Marradi
    di Claudio Mercatali





                                                                La fattoria

    Chi erano i Marchesi di Val dla Meda? La domanda è semplice, ma la risposta è difficile, perché chi ha abitato nella valle della Badia del Borgo chiama tuttora questi vecchi proprietari “i marchìs” e il cognome se lo ricordano in pochi. E’ una specie di dimenticanza collettiva, dovuta al fatto che il titolo nobiliare, anziché accompagnarsi al nome e al cognome, si sovrappose. Però qualcuno si ricorda che erano i marchesi Matteucci, nobili di Pescia, in provincia di Pistoia.
    Dalle notizie fornite dalla famiglia e dall'anagrafe del comune di Marradi sappiamo che il marchese Giulio Cesare Matteucci, di Pescia, ebbe in dote la fattoria dalla moglie Fidalma Matulli, una ricca marradese. Fra i due deve esserci stato un amore a prima vista, perché Fidalma, nata nel 1858, sposò il marchese a diciannove anni, nel luglio 1877, e nacque un figlio l'anno dopo. Dunque il marchese Matteucci per questo matrimonio rimase legato a Marradi, ma non gli dispiacque, si interessò alla vita del paese, e nel 1898 fece anche il consigliere comunale.
    Ora non andremo tanto indietro nel tempo e ci bastano le notizie degli ultimi cento anni. Il marchese Felice Matteucci de Nobili, figlio di Giulio Cesare, nacque a Firenze l’8 maggio 1878. La sua prima moglie si chiamava Lavinia Rossi De Gasperis e poi, rimasto vedovo nel 1924, si sposò con Irma Signorini. Nei primi anni Venti fu anche assessore del Comune.

    Gli aneddoti sono tanti e gustosi. Quelli che seguono vengono dai ricordi della gente e si raccontano in paese con tante varianti:
    La prima cosa che dicono gli anziani che si ricordano di lui è che il marchese Felice spesso andava a Firenze o a Pescia e al ritorno, prima di arrivare, mandava un telegramma perché i suoi contadini venissero a prenderlo con la portantina e loro, obbedienti, scendevano in paese. Però non sapevano mai di preciso né l’ora né il giorno di arrivo e nell’attesa erano autorizzati ad albergare nel suo palazzo degli Archiroli.
    La strada non c’era e il marchese non se la sentiva di andare a cavallo lungo la mulattiera dissestata fino alla fattoria, e quindi la portantina era una necessità e non una pretesa. Da Marradi a Val dla Meda ci sono circa 8 km in salita e ogni tanto c’era una tappa. I portantini facevano sosta lungo la via nei poderi della fattoria, soprattutto a Campo Davanti e a Trebbo, dove si rinfrancavano con qualche bicchiere di vino. Così dopo circa tre o quattro ore la comitiva arrivava a destinazione.

    Il palazzo in primo piano, agli Archiroli,
     dal 1958 di proprietà Catani - Gamberi, 
    era dei marchesi Matteucci.


    Un altro ricordo molto vivo è che il marchese Felice aveva un labbro leporino, e per coprirlo portava barba e baffi. Secondo una vecchia credenza popolare marradese chi ha il labbro leporino ha anche “la voja dla levre” cioè è un po’ nottambulo.
    Naturalmente questo non è vero, però di lui si ricordano le ricche cene e il piacere di tirar tardi nelle fresche notti estive di Val dla Meda. Nonostante i suoi quarti di nobiltà aveva un modo di fare semplice e non disdegnava la compagnia della gente di campagna. Diverse persone a Marradi dicono che nei giorni di fiera non era difficile incontrarlo con una decina dei suoi in giro per le méscite del paese e poi alla trattoria.

    Scherzava volentieri, per piacer suo e per passare il tempo:
    • Un giorno mandò un contadino a fare un po’ di bracconaggio, perché non mancasse la carne fresca, ma di nascosto lo fece seguire da un altro dei suoi travestito da guardiacaccia, perché lo sorprendesse e gli sequestrasse la selvaggina. Così il contadino cacciatore, tornato a mani vuote, fu sgridato e prese dell’ingenuo. Però il giorno dopo trovò l’arrosto a tavola.
    • Don Domenico Nati, parroco della chiesa di Santa Maria ad nives, nel paesino di Albero, detto don Mengone dai suoi parrocchiani, nei festivi saliva a Val dla Meda per dire messa. A volte partiva il sabato e pernottava alla fattoria, per giocare a carte con il marchese a veglia. Una domenica, avendo alzato il gomito un po’ troppo la sera prima, durante la predica fece confusione e parlò anche della cricca di coppe e il marchese non mancò poi di prenderlo in giro, con un certo numero di battute sul chianti, il sangiovese e il vin santo.
    • La fattoria non aveva vigne e perciò il vino lo mandava a prendere a Marradi. Una volta si accorse che un suo contadino ne aveva bevuto un po’ strada facendo e aveva allungato con l’acqua il vino di un fiasco. Costui per qualche giorno, alla fattoria, dovette bere un bicchiere del vino annacquato finché non lo finì.
    • Gigione era ormai vecchio e vedeva poco. La passione per la caccia gli era rimasta e d’autunno andava volentieri al capanno. Il marchese fece appendere a un ramo una ciabatta legata con un filo e il vecchio cacciatore vedendola ciondolare sparò più volte perché l’aveva scambiata per un tordo.

    Di queste storielle un po’ leggendarie ce ne sarebbero altre, ma queste sono sufficienti per definire il personaggio. Il marchese aveva quattro figlie e un figlio, Giulio Cesare, come il nonno. Le quattro figlie, le marchesine, come qualcuno le chiama ancora oggi, negli anni Trenta soggiornavano spesso al palazzo degli Archiroli e Nicoletta Marianna (1930), la più piccola, andava a scuola a Marradi. Rosanna (1915) Maria Luisa (1918) e Maria Rosaria (1920) erano già ragazze e quando il marchese non le lasciava uscire la sera, facevano finta di dare retta ma poi saltavano dalla finestra del retro per andare un po’ in giro per il paese o in campagna.
    Dall’anagrafe del Comune di Marradi risulta che la famiglia è stata residente a Val dla Meda fino al 6 ottobre 1941. Cesare Matteucci, l’ultimo marchese, nacque a Pescia nel l916. Si dice che alla fine degli anni Quaranta sia stato vittima di un imbroglio, perché un suo conoscente lo convinse a prestargli una forte somma da investire in America, a Kansas city, dove diceva di avere dei crediti e delle possibilità di guadagno, che però non furono tali.
    Per questo e per diversi altri motivi di famiglia la fattoria fu venduta. Però la nostalgia evidentemente si fece sentire, perché dopo qualche anno Cesare ricomprò una parte della proprietà, ma dopo poco tempo fu costretto a rivenderla. Da allora il marchese e le sue sorelle non si sono più visti qui in paese.

    Val della Meda nella carta 
    del Catasto Leopoldino (1833). 
    La strada passava sotto la casa.


    I principali poderi della fattoria erano: Lischeta, il Poggiolo, L’Eremo e l’Ermetto, Trebbo Val Cutirano, Sambuco, Campo davanti, il Casetto, Vasculla. Il nome esatto del sito è "Val dla Méda", dal latino meto = mietere, o da meta (romagnolo méda) = mucchio, covone. La trasposizione in italiano è Val della Mèta. Nelle vecchie carte c’è sempre “meda” e non “meta”.

    Fonti Vox populi, vox Dei. Gli aneddoti vengono dai ricordi di Carlo Catani, Giuseppe Gurioli, Ezio della Costa, Franco di Valcuccia, Gino di Lischeta, Silvano di Piansieve. Le notizie sono state gentilmente fornite da Carmelita Maltagliati, figlia di Nicoletta Marianna Matteucci, che ora abita a Montecatini Terme, e dal dr.Sapo Matteucci, figlio di Cesare, che ha ereditato il titolo di marchese e abita a Roma.

    NOTA
    Il dr. Sapo Matteucci, oltre al titolo di marchese, deve aver ereditato dai suoi antenati anche una buona dose di spirito, almeno a giudicare dalla recensione del suo ultimo libro: "C'era una vodka" fatta da Antonio Genna, il quale ci dice che il libro è:

    Una “fenomenologia dello spirito” ecco cos’è “C’era una vodka – Un’educazione spirituale da 0° a 60° " (Editori Laterza), scritto da Sapo (Saporoso) Matteucci, già giornalista per “Il Globo” e “Bell’ Italia” ed attualmente direttore responsabile di “Vivaverdi”, rivista della Società Italiana Autori Editori. Il volume è di difficile classificazione, a metà tra un diario autobiografico di esperienze personali legate all’alcool ed un saggio sulla cultura dello spirito.
    Il volume è suddiviso in sezioni, in base al grado alcolico:
    “Gli spiritosi (da 0° a 11°)” gli “Gli spiritati (da 16° a 40°)”, gli “Gli spiriti magni (da 40° a 60°)” per tornare indietro con “Gli spiriti divini (da 12° a 16°)”.
    L’amore dell’autore per il buon bere parte dall’età giovanile sulla spiaggia di Viareggio, alla scoperta della “bottiglietta a forma di grosso punto esclamativo rosso alla rovescia” (il Campari soda).
    Da quel momento si intrecciano ricordi e drink, illustrati con le apposite ricette (ingredienti, modalità di preparazione e consigli dell’esperto): Sapo ricorda il primo Daiquiri per dimenticare le sue pene d’amore, o il brandy a cui lo iniziò – ingannandolo – il nonno, ottimo bevitore di cognac ...

    Un volume da degustare con molta calma e moderazione, così come i drink ed i vini descritti. E' dedicato a “chi pensa che l’alcool non è certo terapeutico, ma senza sarebbe anche peggio”.

    mercoledì 7 dicembre 2011

    I mercatini di Natale a Marradi


    Una tradizione nordica
    interpretata in modo originale



    I mercatini di natale sono di tradizione nordica, specialmente tedesca. Però da dieci anni si fanno anche a Marradi, nelle prime tre domeniche di dicembre. I mercatini marradesi, con il tempo hanno subito un' evoluzione e hanno assunto delle caratteristiche proprie. Qui da noi non piace la semplice rassegna delle bancarelle con gli addobbi natalizi e la gente gradisce una certa sceneggiatura di contesto, con intrattenimenti, personaggi e anche qualcosa da fare. Che cosa c'è nei mercatini marradesi? Giriamo un po' e vediamo:







    Questo è il mercatino del 4 dicembre 2011. Si entra da un cancellino ornato e si incontra subito il banchetto del vin brulé. Bene, perché oggi è freddo.







    Sopra: E' l'una e il ristorante all'aperto, sotto il Mercato Coperto, è pieno. Si mangia polenta e salsiccia, un classico in queste occasioni.

    A destra: E' freddo, facciamo una sosta allo scaldamani prima di andare avanti.




    Il vin brulé che abbiamo preso all'entrata ha già finito il suo effetto. Ce ne vuole un'altro: assaggiamo la ricetta di Giuseppe Paganini, che usa la Cagnina, un vino dolce di cui abbiamo detto nell'articolo sulla Sagra delle Castagne (vedi in questo Blog nel mese di ottobre).


    Clicca sulle immagini
    se le vuoi ingrandire




    Gli addobbi natalizi non mancano di certo: ecco qui sopra il banco del negozio Fiorilla e qui a sinistra quello di Tiziana Fiorentini.


     Fantasisti e giocolieri, assieme agli immancabili cantori di gospel ci fanno compagnia.











    Qui sopra a sinistra: Usciamo dalla porta in cima al percorso e passeggiamo fino al lago dell'Annunziata. Finiremo il giro più tardi.

     Sono appena le cinque e siamo già a sera. Il tempo è volato. Rientriamo dalla porta del mercatino, che ora è illuminata e facciamo il percorso inverso per tornare da dove siamo venuti.























    E' cambiata aria, non è più freddo come prima. Oppure ci siamo acclimatati, o l'atmosfera natalizia con le luci della sera ci ha coinvolti e non ci fa sentire il freddo.


    Ripercorriamo il paese senza accorgercene, il Babbo Natale davanti alla chiesa delle Domenicane sembra salutarci ... arrivederci a domenica prossima!


    venerdì 2 dicembre 2011

    Eravam in 30 e 30 siamo tornati…



    Un tuffo nelle bellezze di Roma
         e nelle “delizie” del Parlamento.


    In trenta siam partiti da Marradi martedì 29, non per una semplice gita ma per una “ full immersion” nella magica Roma.

    Niente cori sul pullman ma, composti ed educati, siamo arrivati nel cuore dell’Urbe e appena scesi una prima scissione: 17 ( che brutto numero!!!) alle Scuderie del Quirinale ad ammirare Lippi e Botticelli, e 13 al Vaticano, nei luoghi della Fede.

    17 alle Stalle…13 alle Stelle!

    Inutile dire che la scrivente faceva parte del secondo nobilissimo gruppo.

    Non so bene dei 17 tornati tutti entusiasti, ma noi 13, dopo aver subito la perdita di 3 “aventiniani” che son andati per i fatti loro, suscitando non pochi pettegolezzi nel viaggio di ritorno, ci siamo diretti verso il cuore della Cristianità. Ma poiché la carne è debole in particolare quella dei piedi, non abbiamo resistito alla tentazione di un tourist-bus su cui ci siamo appollaiati comodamente per una visita aerea della città e del suo melmoso traffico. Poi via dentro San Pietro annichiliti da tanto sfarzo e dalla sontuosità dei marmi, degli ori, degli stucchi e subito dopo, per ritrovare una dimensione più umana e terrena, una bella goduriosa “ Happy hour”con tanto di frizzantino e stuzzichini.



    Riunita la truppa davanti al “Palazzaccio” con vista da urlo su Tevere e Cupolone, siam partiti alla volta di Ciampino “ by night” verso la pappa calda e santa dell’Istituto della Madonna del Carmine, un’enorme piovra multi tentacolare con infinite camere e infiniti terrificanti corridoi…avete presente il film “ Shining”, e gira di qua e scendi di là, c’è stato chi di prima mattina, inseguendo l’odore del caffè, è finito anche nei misteriosi sotterranei, dove uno stuolo di preti di bianco vestiti e ben cantanti assisteva ad una criptica messa.

    Poi colazione con i classici pane burro e marmellata e tragico caffè cicoriato che nemmeno nel Burundi.

    Ore 8 e 30 spaccate partenza per Roma e subito inchiodati nel Raccordo Anulare, che certo merita una visitina essendo così spesso citato nelle rubriche al traffico dedicate. Dal mare di auto ammassate sembrava quasi di poter udire il levarsi di un coro di imprecazioni non ben definite ma noi, tutti eccitati, pensavamo a ben altre esternazioni che ci attendevano a Montecitorio, luogo, questo sì, istituzionalmente deputato alle esternazioni più o meno ortodosse.

    Salterò ulteriori descrizioni della città perché il fatto più memorabile della giornata è stato il nostro” affaccio” sull’elegantissimo emiciclo del Parlamento. Di nuovo allineati, azzimati e ben incravattati, abbiamo varcato in religioso silenzio il portone insonorizzato che ci ha catapultato sul catino del più famoso emiciclo d’Italia. Dante, immaginando l’imbuto dell’Inferno, i suoi gironi e le bolge, non era stato così realistico rispetto allo spettacolo che ci siamo trovati di fronte: un’atmosfera cupa, un “aere “ pesante, legni scuri, scranni brulicanti di onorevoli distratti, sbracati e rumorosissimi, chi col giornale, chi col computer, molti al telefono con i vari i- pod, i-pad, ma tutti rigorosamente disattenti rispetto all’oratore di turno. Assiso sulla sedia più nobile Buttiglione dirigeva la poco nobile assemblea mentre al di sotto di lui la fila degli scranni destinati ai ministri era desolatamente vuota, libera dal peso delle pregiatissime terga dei ministri.

    Abbiamo subito compreso che le porte insonorizzate, più che ad impedire improbabili disturbi esterni, servivano a contenere il brusio dell’onorevole massa che ora, a detta della commessa che ci accompagnava, dopo il “responsabile” ritiro del nostro ultimo dittatore parlamentare è molto più tranquilla, tanto che, aggiungo io, può anche concedersi un pisolino…

    Un sentimento comune di disgusto è calato su tutti noi, ci siamo sentiti delle nullità, dei burattini manovrati dai nostri politici, e forte si è radicato ancor di più in noi un sentimento di impotenza verso la “Casta” e i suoi innumerevoli privilegi, sentimento che nemmeno le bellezze che Roma ci ha così generosamente elargito, son riuscite a dissolvere.

                                                                                             
                                                                                      Luisa Calderoni

    giovedì 1 dicembre 2011

    Francesco Cappelli racconta ...

    La dichiarazione di guerra


    Francesco Cappelli
    nel 1936


    “Il 10 Giugno 1940, avevo allora 9 anni e mezzo, ci fu la Dichiarazione di Guerra.
    Quel giorno ci fu l’Adunata fascista in Piazza Le Scalelle e anche noi Balilla andammo inquadrati ad ascoltare ciò che il Duce avrebbe annunciato.
    Molti conoscevano già il significato dell’Adunata ma l’entusiasmo era grande in tutti, grandi e piccoli. Fu installata una radio sul terrazzo del Credito Romagnolo ed in religioso silenzio ascoltammo la voce tonante del Duce che annunciava la dichiarazione di guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il suo dire fu breve e schietto, sicuro, molti lo acclamarono, tanti, troppi applaudirono sia in Piazza Venezia a Roma sia in ogni piazza d’Italia, compresa la nostra.

    La folla in piazza Venezia, a Roma


    Quando a sera ognuno rientrò nelle proprie case, mia mamma disse: “Ora daranno una tessera a ciascuno di noi.” Subito non capì il significato e lo scopo di questa tessera ma negli anni successivi tutto divenne chiaro: la tessera dava diritto a 200 grammi di pane nero o giallo a testa, poca carne, poco zucchero, poca pasta.
    In poco tempo dai banchi dei bar sparirono cioccolata, caffè, biscotti, e tutto fu razionato in modo impressionante. Ci consolavamo con la frutta di stagione e con quella che nasceva spontanea nei dintorni. Ciò che mangiavamo più spesso era la carruba, la carabola per noi ragazzi, quella che oggi danno ai cavalli o ai somari e che non ho più visto mangiare da nessuno.


    Clicca sulle foto 
    per ingrandirle

    ... la tessera dava diritto
    a 200g di pane nero ...

    A destra:
    La dichiarazione di guerra


    Allora io non sapevo né conoscevo il significato della parola guerra ma gli eventi che seguirono me lo fecero capire chiaramente.

    I “tecnici”, i vari profeti del momento dicevano:” Questa sarà una guerra lampo, durerà al massimo qualche settimana, massimo qualche mese…”
    Il risultato fu molto diverso: oltre 5 anni di guerra, una vittoria certa trasformata in una sonante sconfitta, lutti, distruzioni, morti in quasi tutte le famiglie, case e fabbriche distrutte…

    Le carrube




    La carta annonaria individuale per pane e generi da minestra, detta "tessera", era un foglio che dava diritto a un certo numero di prelievi di generi alimentari.


    A causa della guerra la mia casa, posta in prossimità della Chiesa di San Lorenzo, crollò quando i Tedeschi in ritirata da Marradi minarono il Ponte Grande e per avere una casa vera, dopo essere passato per una serie di alloggi di fortuna, ho dovuto aspettare 20 anni".




    Il mucchio di macerie oltre il ponte di ferro è quello che rimase 
    della casa di Francesco


    Fonti Notizie e documenti forniti dall'autore, stesura in collaborazione con Luisa Calderoni