Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

martedì 27 novembre 2012

Dino com'era ... 2a parte


Dino nei  ricordi
di Michele Campana.
di Luisa Calderoni



Nel 1955, nel 70° anniversario della nascita di Dino Campana, il Club Sportivo Culturale di Marradi pubblica un giornale a numero unico titolato semplicemente “ 20 agosto “. Qui troviamo trascritti i testi di una serie di conferenze dedicate alla vita e all’opera del poeta che si erano tenute nel corso dell’anno precedente volute dal CSC in collaborazione con il “Comitato per le Onoranze a Campana”.
Tra i tanti scritti, ci aiuta a capire qualcosa di più di Dino, del suo carattere e dell’aspetto fisico, un articolo firmato da Michele Campana, omonimo di Dino e di lui coetaneo. Nell’articolo Dino è descritto in varie fasi della vita, la fanciullezza a Marradi, il periodo scolastico faentino, il periodo fiorentino. L’oratore ricorda Dino con grande partecipazione emotiva e con vivezza di particolari certo non disgiunte da una nostalgica tristezza per quegli anni felici…

I ricordi di Michele Campana

“ Sento che questa sera, dinnanzi a voi, che siete accorsi così numerosi. non certo per la mia modesta eloquenza, ma per rendere onore alla grande poesia di Dino Campana, io devo parlare soltanto col cuore . E ciò per due motivi.
Non è senza commozione che ho rivisto, dopo tanti anni, questo ridente e laborioso paese della Val di Lamone, a cui mi legano tanti ricordi della mia adolescenza.
Se pure nato nella vicina Modigliana, mi son sempre ritenuto un po’ marradese. La mia famiglia è oriunda di Marradi. I miei nonni vissero a lungo nel Conventaccio e mio zio Pietro ebbe bottega, fin quasi allo scoppio della prima guerra mondiale, proprio sul Ponte, non troppo lontano dalla casa abitata dai maestri Campana. E’ quindi spiegabile che io, venendo a Marradi, ospite dei nonni e dello zio, conoscessi Dino Campana e fin da bimbo mi legassi a lui, con un’amicizia che si prolungò negli anni.
Il secondo motivo per cui debbo parlare col cuore è che, venendo qui, ogni strada, ogni angolo del paese mi hanno parlato di lui; ed il l’ho rivisto come se fosse ancora vivo e operante.

Era un bel bambino, con una faccia tonda, paffuta , rosea, circondata da una massa di capelli biondi, con due occhi grandi e penetranti di un grigio che toccava il celeste dei laghi; ed un naso un po’ caparbio, un po’ all’insù, che lasciava scoperte le due narici. Tale si mantenne fino ai vent’anni, crescendo di media statura, di larghe spalle, di petto saldo, forte. Era vivacissimo, irrequieto, non stava mai fermo; sembrava che avesse l’argento vivo, o il fuoco, nel sangue; e menava volentieri le mani senza risparmio.”

... era un bel bambino, 
con una faccia tonda, paffuta ...

Sotto: la classe 3a elementare del 1894. 
Il maestro è Torquato Campana, lo zio di Dino.
Inizia l’ adolescenza e Dino va a studiare a Faenza….

“All’età di 12 anni, nell’ottobre del 1897, fummo tutti e due inviati a studiare nel Collegio dei Salesiani a Faenza. Eravamo nati nello stesso anno: io l’8 gennaio, lui il 20 agosto. Frequentammo per tre anni le stesse classi, dalla terza ginnasiale alla licenza. Allora nel Ginnasio si incominciava a prendere conoscenza dei grandi poeti italiani, prima la “Gerusalemme Liberata” del Tasso e poi “L’Orlando Furioso” dell’Ariosto.

I due libri ci appassionarono fino all’entusiasmo. Dino era felicissimo nel mandare a memoria le ottave più drammatiche di quei due poemi. La poesia di lui ebbe le prime radici ed i primi germi da quei canti.

Nel collegio, dopo le ore di studio, si usava scendere nel vasto cortile per la ricreazione; e si giocava a salti, corse, palla al tamburello, palla avvelenata (…) Ma Dino, insofferente dei giochi che dilettavano tutti gli altri, un giorno mi disse:” Non mi piacciono questi giochi troppo comuni: Inventiamone un altro più difficile ed anche più nobile.”


Il cortile dei Salesiani, a Faenza

Anche in ciò era la testimonianza di una insofferenza a compiere atti troppo normali, e di una sua originalità ad ogni costo.

"Per sua proposta imparammo a memoria alcuni brani del Tasso, prima, e poi dell’Ariosto (…). Ricordo ancora con quanto orgoglio e con quanto impeto Dino declamava a gran voce quei versi. Ci eravamo armati di due pertiche rubate nell’orto; e, tenendole strettamente in mano, come due lance in resta, correvamo in tondo per il cortile, fingendo di cavalcare e poi ci lanciavamo incontro, gridando ad alta voce i versi e tentando di imitare tutti gli atti descritti dai poeti. Si facevano finte, si tiravano colpi, si scansavano. Colui che veniva colpito per prima da un colpo di lancia, perdeva il gioco. Dino metteva tanto impeto nei suoi assalti che era difficile difendersi. (…) Questo gioco durò quasi due, e ci alimentò della grande poesia del Cinquecento, (…) la nostra vita sbocciava in questa atmosfera.


Ma al terzo anno, nella quinta ginnasiale, ci misero a contatto con la prima cantica della Divina Commedia. Si studiarono e si mandarono a memoria i canti più facili (…). Dino aveva sempre in mano il libro e lo leggeva e lo studiava anche durante la ricreazione ed il refettorio. Un giorno mi disse :” Ma tu, l’hai capito Dante? Hai sentito che verità, che forza, e soprattutto che musica? Diverse da quelle dell’Ariosto e del Tasso.” (…) Un altro giorno mi disse:” Hai considerato come l’Alighieri usi le parole in funzione di musica? Nel canto V, a Francesca da Rimini, creatura d’amore e di gentilezza, mette in bocca questo verso: “farò come colui che piange e dice”, parole dal suono dolcissimo. Ma nel canto XIII fa dire al Conte Ugolino: “parlare e lagrimar vedraimi insieme”, che son parole aspre, forti, come si addicono ad un personaggio d’odio e desideroso soltanto di vendetta.”

La casa di famiglia, a Marradi.

A ripensarci adesso, si trova che quelle scoperte erano semplicemente sorprendenti in un ragazzo di 15 anni e non provenivano certo da spiegazioni dei nostri insegnanti. Io penso che da queste prime osservazioni e scoperte sia nato, e si è poi sviluppato, quell’ardore quasi parossistico di raggiungere con la parola e col verso una musicalità assoluta, che non tenesse conto più di logica né di sintassi, ma che diventasse soltanto un canto altissimo di pensiero e di vita”


Alcune riflessioni…

“ Hanno detto che beveva troppo e che l’alcool distrusse l’equilibrio della sua intelligenza. Sciocchezze, che voi, amici marradesi, dovete smentire con energia. Gli piaceva il vino, questo concentrato di sole italico, questo alto segno delle civiltà mediterranee. Io ne ho bevuto certamente più di Dino e ne bevo ancora e, pur lavorando intensamente col pensiero, non ho mai perduto il lume della intelligenza. Per spiegare le sue stranezze si è parlato anche di contrasti in famiglia (…) Non si è neppure, da alcuni biografi, risparmiata la santa memoria della madre, che io ho conosciuta come una donna di alto sentimento e che voleva bene ai suoi figli, a tutti i suoi figli, con lo stesso spirito di sacrifico fino allo spasimo.

La verità è un’altra e ben più nobile. Nel sogno dell’ impossibile che aveva preso Dino fin dall’adolescenza per contenere i più ampi orizzonti del suono di alcune parole e far riprodurre ad esse persino i colori, la sua mente si è torturata e si è consunta in mezzo all’incomprensione dei più, che guardavano di lui solo le apparenze esteriori e non conoscevano quale fuoco lo bruciasse (…) .”


La pagella ai tempi del liceo Baldessano, 
di Carmagnola.


Gli anni dell’Università…

“ Alla fine del ginnasio, lo perdei come condiscepolo. Io andai a Firenze e lui a Torino, a Carmagnola e poi all’ Università di Bologna. Seppi che aveva perduto anche un anno negli studi, colpito da certi sintomi, che avevano giustamente preoccupato i suoi famigliari. (…)
Nel 1906 incontrai Dino a Modigliana, dove era ospite di una zia paterna maritata Pianori. Appena mi vide, dopo i convenevoli imposti dalla nostra amicizia, mi informò che studiava chimica a Bologna. Alla mia sorpresa ed anche al mio rammarico, perché avesse prescelto una tale materia lui così innamorato della poesia, mi rispose con una rumorosa risata, non abituale in lui, ma che tutto lo scuoteva, come un attacco nervoso. Quando ebbe calmato il riso, aggiunse:” Volevo far presto per liberarmi da questa noia degli studi accademici. Ma la poesia non l’ho abbandonata. Mi rumina dentro, ogni tanto mi vien su qualche verso, anche quando meno ci penso. Succede come di quei motivi musicali, che sembrano scaturire dal nostro subcosciente, e che noi continuano a ripetere infinite volte cantando o zufolando. La poesia è il meglio di me. E poi vedrai, vedrai: ti farò presto una sorpresa.”

Trascorsero altri otto anni senza che lo rivedessi e si arrivò al 1914, l’anno di incubi e di lotte per lo scoppio della prima guerra mondiale. Le vicende della vita e la ragion del pane mi avevano portato a dirigere il Giornale del Commercio di Firenze (…) Ed ecco che, un giorno di fine estate di quell’ anno, mi vedo comparire negli uffici del Giornale del Commercio, che erano in via Ricasoli, dove ha sede oggi La Nazione, Dino Campana.

Quasi non lo riconoscevo, tanto era cambiato. Si era fatta crescere una barbaccia incolta del color del rame, che gli arrivava a mezzo petto ed era spartita da due enormi baffi, ancor più rossicci. Vestiva un abito che un tempo doveva essere nero, ma diventato verdicchio per il lungo uso; ed in più macchiato di polvere.

Dino Campana secondo il pittore
Giovanni Costetti

Mi sparò a bruciapelo questa rivelazione: “ Ho mantenuto la mia promessa. Ho pubblicato un libro di poesie. E’ il più gran libro che sia stato scritto durante la nostra generazione. Se lo vuoi vieni a conquistartelo.”
Per compiacerlo, ed anche colpito dalla novità, abbandonai il mio lavoro e lo seguii passo passo per via Ricasoli. Girammo intorno a Santa Maria del Fiore , entrammo in via Proconsolo: Tentai di interrogarlo. Mi disse soltanto che aveva molto viaggiato e che si era stabilito in Campigno presso una famiglia di pastori, e si trovava bene. Aggiunse che io, borghese, non potevo capire la bellezza di quella vita.

Allorché fummo dalla parte posteriore di Palazzo Vecchio, mi fece svoltare per il vicolo del Corno, che allora era una delle vie più malfamate di Firenze . Entrammo in uno di quegli alberghetti (…) notoriamente covo di ladri e di donne da marciapiede.


Fiirenze, via del Corno.


Salimmo a fatica i cento e più gradini di una scala semibuia e sgangherata per raggiungere l’ultimo piano dove c’era la camera del suo alloggio; ma che dico camera? Una stamberga, una soffitta di miseria, che faceva pietà. Si accostò al lettuccio di ferro, rugginoso e sgangherato; e di colpo abbalinò il materasso. Scoperse, quant’era la grandezza del letto, un piano di libretti dalla copertina gialla con un titolo nero a caratteri un po’ fantasiosi; ed io lessi “Canti Orfici”, “Canti Orfici” infinite volte. Mi porse una copia ed in tono perentorio mi disse:” Lire 2,50.” Io estrassi dal borsellino una moneta da 5 lire e, non senza ironia, gli risposi:” Affinché non ti incomodi a darmi il resto, vendimene un’altra copia.” Battè più volte i sopraccigli, non so se per stizza o per contentezza . Mi porse la seconda copia e mi congedò senza parlare. Ma quando fui in fondo alla prima rampa di scale, si affacciò all’uscio e gridò :” Tu non capirai nulla di questa poesia, ma ti ringrazio lo stesso.” Era davvero un bel modo di ringraziare!
Seppi poi che andava in giro per i maggiori caffè fiorentini e offriva in vendita il suo libro, dicendo a tutti:” Questo è il più gran libro di poesia che sia stato scritto nella nostra generazione.”

Molti clienti dei caffè, colpiti dalla stranezza di questo tipo, che aveva più del bandito che non dello scrittore, compravano il libro; e lui invariabilmente, porgendo la copia, ne stracciava con gesto nervoso la terza pagina del frontespizio, dove era stampato: “ A Guglielmo II Imperatore dei Germani l’autore dedica.” E sempre esclamava:” Questo non vi interessa.”

Ebbe la fortuna di incontrare al Caffè delle Giubbe Rosse uomini superiori di intelligenza e di coscienza , come Giovanni Papini, Ardengo Soffici,Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper, che fu poi l’eroe del Podgora, e altri. I quali da principio si diedero a canzonare lo stravagante poeta, ma appena ebbero gettato gli occhi sul suo libretto, capirono subito la straordinaria importanza della sua parola. E di lì cominciò, seppur lentamente, la notorietà e la gloria” .




A sinistra: 
il caffé Paszkowski, un altro locale famoso, a Firenze, frequentato da Dino Campama.


Gli anni finali…

“ Un destino crudele era già in agguato. I suoi nervi consumati dal fuoco dei sogni impossibili, incominciavano a cedere. Si avvicinava il momento della tragica conclusione. La sua opera apparve come un baleno, che incrina la volta celeste con strisce magnifiche, guizzanti luce, ma per un attimo: poi lo schianto della saetta e la fine.
Una sera del 1915, quando già era scoppiata la guerra tra l’Italia e gli Imperi Centrali,ed anch’io mi preparavo a partire per il fronte, udii una lunga violenta scampanellata alla porta. Abitavo il via Milazzo, una strada allora buia e semideserta del Campo di Marte. Erano le 22, dunque un’ora insolita per visite. Andò ad aprire mia suocera. Mise per precauzione la catena, come usa a Firenze; e dallo spiraglio domandò chi fosse. Ma diede un grido, rinchiuse con un tonfo la porta e si precipitò da me, esclamando in spavento:” C’è una che cerca di voi. Ma non ci andate. Se vedeste che faccia. Pare un brigante.”

Erano tempi tranquilli e non c’era d’aver paura di banditi e di rapine: Mi affrettai a spalancare la porta e mi trovai di fronte Dino Campana. La sua barba era ancora più arruffata, il vestito quasi bianco per forse un dito di polvere. Mi guardava con occhi stranamente fissi, quasi fosforescenti. Disse:” Vengo da Campigno a piedi. Ho fame.”

Null’altro. Lo feci entrare nella stanza dove mangiavamo e mia moglie gli mise dinanzi ciò che fu possibile trovare in casa a quell’ora tarda; e cioè una pagnotta di pane da un chilo, un po’ d’affettato che era rimasto di cena, una formetta intera di cacio pecorino ed un mezzo fiasco di vino. Si gettò con voluttà su quei cibi e masticando in furia divorò tutto, tutto. Mia moglie cercò di interrogarlo sulle ragioni per cui era venuto a piedi e con un appetito così arretrato. Rispose, mugolando fra i bocconi parole incomprensibili. Capimmo soltanto che era venuto a Firenze per arruolarsi volontario nell’esercito. Aggiunse: ”La guerra una cosa tremenda, ma un poeta deve fare anche questa esperienza.” Si alzò e, senza ringraziare, senza salutare, si avviò alla porta e scomparve nel buio della notte.

Capii dal suo contegno che qualcosa non andava più bene nel suo cervello.

Sparì nel buio della notte, e non l’ho rivisto più. Ma mi è rimasto il suo libretto dalla copertina gialla, che mi parla ancora di lui, della sua vita, dei suoi sogni ed anche della sua tragica immeritata fine.”




mercoledì 21 novembre 2012

Il perché di una lapide


Una poesia per la pace
nella facciata del Castellaccio
di Francesco Cappelli



settembre 2004.
Sta per cadere la bandiera 
che copre la lapide



C'è una poesia, nella facciata del Castellaccio, con una storia da raccontare. Ecco che cosa dissi nel settembre 2004 quando la lapide sulla facciata venne scoperta.

Gentili Signore, Alpini, cari amici
mi corre l'obbligo di ringraziare tutti i presenti, le autorità civili e religiose, ma il mio grazie più sentito e doveroso è rivolto ai familiari di Giulio Bedeschi che oggi, a distanza di oltre 60 anni, ritornano in questi luoghi, in questa terra, che li vide giovanetti svagarsi e crescere in armonia con la natura e serenità d'animo con i coetanei marradesi di allora.
Molti di voi si chiederanno il motivo, il perché di questo incontro, di questa che vuole essere una semplice rievocazione e celebrazione.
Non è mia intenzione tediarvi con discorsi lunghi e noiosi, ma ritengo importante e necessario illustrarvi il come e il perché oggi vi si è giunti. Nel giugno 1994, assieme agli amici Tarabusi e Mercatali (sostenuti dall'Amministrazione comunale e dalla Associazione Culturale locale) avevamo allestito una mostra di reperti storici, foto e documenti, per ricordare ai giovani che cosa avesse significato la guerra in generale, per Marradi in particolare. Fu in quella occasione che Beppino Matulli (ora scomparso) nel visitare la mostra, mi ricordava che la famiglia Bedeschi, durante l'estate, era solita soggiornare a Marradi e che tra i rispettivi genitori era sorta un'amicizia spontanea ...

Allora non feci caso al discorso in quanto sapevo che l'ammiraglio Bedeschi di Faenza (grande invalido della guerra 1940 - 45) veniva tutti gli anni a Biforco a villeggiare e qui avevo avuto modo di conoscerlo essendo amico dei suoi due figli. Ma il Bedeschi ricordato da Beppe era altra persona, era l'alpino Giulio, autore del famoso "Centomila gavette di ghiaccio". La prova mi venne offerta dal nipote di Beppe, Ernesto, (anche lui alpino) a cui devo il mio grazie per aver contribuito alla realizzazione di questa mostra.
Egli mi mise a disposizione quel libro con tanto di dedica. In essa Giulio scriveva: "A Beppino Matulli dedico con fraterna amicizia queste mie pagine, nel ricordo di un tempo lontano, ma presente e vivo, della nostra giovinezza e dei nostri genitori. Giulio".
L'interesse di questa scoperta mi spinse a fare ricerche, a telefonare a destra e a manca ai familiari di Giulio i quali hanno avuto la gentilezza e la pazienza di sopportarmi per tutti questi anni.
Dalle ricerche effettuate, qua oggi potete constatare un piccolo risultato, ma significativo, a testimonianza che la famiglia Bedeschi in questi luoghi soggiornò frequentemente trovandovi pace e serenità.

Giuseppe Bedeschi, fratello di Giulio,
alla cerimonia del Castellaccio

E proprio qui il padre di Giulio nel 1941 ideò e scrisse la poesia che andiamo a scoprire e che resterà a testimoniare che Marradi, il Castellaccio di Biforco, ospitò l'autore di uno dei libri di memorie di guerra più letti nel mondo, diversi passi del quale nelle scuole vengono ancora proposti alla riflessione delle nuove generazioni perché comprendano il grande valore della PACE, una pace purtroppo sempre in bilico.
Nel mondo c'è sempre un Caino che agita minacciosamente la clava (e qui ho ripreso la frase di Giulio dal suo romanzo "La mia erba è sul Don").
Mentre in Italia i padri costituenti, dopo i tragici eventi del XX secolo che ci hanno visti protagonisti e vittime di due guerre mondiali, hanno esplicitamente  scritto fra i primi articoli della Costituzione che "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli ...".
Vorremmo tutti la pace, quella pace che ci è stata offerta con il sacrificio di centinaia di migliaia di vite umane.
Perdonatemi questo inciso che credo doveroso.


 
Sopra: la cartolina postale
 che sul retro ha la poesia.
A fianco: il testo della poesia


Ritornando al perché di una poesia scritta da un padre che si bea, gode della natura che lo circonda, a un figlio alpino lontano e in guerra, si possono fare ipotesi suggestive. Questa poesia, composta nel ferragosto del 1941, viene stampata su cartolina postale, con foto del Castellaccio, e inviata nel settembre dello stesso anno al figlio Giulio che si trova sul fronte Greco - Albanese forse nel tentativo, (almeno io credo), di sottrarlo per un attimo alle angustie e ai tormenti della guerra e fargli rivivere e forse sognare quella serenità e pace della villa del Castellaccio " ... che lenisce le pene e gli affanni" e che Giulio e i famigliari avevano trovato (concedetemi questa mia illusione).
Giulio resterà per tutta la vita riconoscente a un padre che, anche dal piccolo gesto che ho citato, indubbiamente mostrava cultura, sensibilità d'animo, amore per la natura e per la vita, tutte qualità che si ritrovano nel figlio.
A dimostrazione di questa corrispondenza affettiva, Giulio dedica al padre il suo capolavoro con queste parole "Alla memoria di mio padre, testimonianza d'amore, di devozione e di rispetto".
La conferma che Giulio aveva un animo nobile, sensibile e riconoscente, è dimostrato in questa sua opera dal fatto che, nella dedica, oltre ai compagni caduti, subito dopo vengono i suoi alpini e per questo noi gli dobbiamo un grazie riconoscente. Anche perché egli ci offre più di un insegnamento. Egli infatti non guarda la scala gerarchica, anzi sembra volerla rovesciare.

Francesco Cappelli 
e Giuseppe Bedeschi


Come alpino è semplice e generoso, ama gli umili nei quali individua i valori dell'altruismo, del senso del dovere, dell'onestà. Dopo la famiglia naturale e quella d'armi, la sua dedica va a un alpino conducente di muli, "Scudrera", uomo semplice, forte e robusto, ma generoso e dedito al sacrificio senza chiedersi mai perché, forse perché, ci vuol dire Bedeschi, il sacrificio è la sostanza stessa della vita, e non solo in guerra: forse in questo alpino, tratto dall'anonimato dalla sensibilità artistica di Giulio egli vedeva incarnate tutte le principali doti degli alpini stessi.


Un momento della cerimonia.


Qui con noi oggi c'è Beppe, fratello di Giulio, anch'egli alpino, anch'egli reduce dalla Russia, testimone oculare vivente di quei tragici avvenimenti. Egli conserva gelosamente l'ultimo cannone che doveva essere inviato in Russia, a protezione di quel tragico ripiegamento.
E qui gli rinnovo non solo il mio personale grazie ma, sicuro di farmi interprete dei sentimenti di voi tutti che oggi siete intervenuti, anche la vostra sincera riconoscenza.
E infine, come non citare le due signore, cioè la sorella Bruna a cui mi sono rivolto costantemente per avere notizie di Giulio, la sig.ra Luisa, la quale non conoscendo questi luoghi assecondava volentieri il marito quando dalla Toscana questi si recava nella vicina Romagna e desiderava passare di qua per rituffarsi ogni volta nei suggestivi luoghi resi ancor più cari dagli struggenti ricordi giovanili.
Per l'amore che ella ha avuto per il suo uomo e perché ne ricordassimo degnamente la memoria, egli ha dedicato un cospicuo premio annuale per il miglior racconto di ambientazione montana. Anche il tema scelto, come potete capire, è significativo della sensibilità della sig.ra Luisa. Termino scusandomi se sono stato troppo lungo, conosco la pazienza degli alpini e io ne ho approfittato. Perdonatemi se qualcuno o qualcosa ho tralasciato, ma quel che ho detto l'ho ritenuto necessario, sia come momento di rievocazione storica locale, sia per delineare qualche aspetto di un grande uomo, di un grande scrittore, di un degnissimo alpino.

Francesco Cappelli




mercoledì 14 novembre 2012

Galileo Chini


Gli affreschi in casa Cassigoli
di Claudio Mercatali



La residenza storica della famiglia Cassigoli, a Marradi, è accanto alla chiesa arcipretale, in un edificio che passa inosservato finché c'è la porta chiusa. Se per caso il portone d'ingresso è aperto si scorge un bellissimo corridoio affrescato e si capisce che all'interno ci deve essere qualcosa di importante. In effetti la casa, antichissima, ha le pareti affrescate da Galileo Chini.
Per i cultori di storia dell'arte la famiglia Chini è ben nota ma per tutti gli altri no e quindi conviene spendere qualche parola. Nel sito mugellotoscana.it si legge che:

"Nel Mugello due secoli fa nasceva la Manifattura Chini, grande esempio di artigianato artistico nella produzione di ceramiche. Ai primi dell’800 il capostipite della famiglia Piero Alessio Chini, di professione decoratore, tramandava la passione per l’arte ai figli e ai nipoti, che da apprendisti si trasformarono in eclettici e creativi artisti. Una delle figure di maggior rilievo nella famiglia fu sicuramente Galileo Chini che, insieme al cugino Chino, fondò nel 1906 la manifattura “Fornaci San Lorenzo” a Borgo San Lorenzo, producendo ceramiche e vetrate di immediato grande successo.
All’inizio del ‘900 Galileo Chini divenne tra i massimi esponenti del Liberty italiano e nel 1906 la sua fama di artista raggiunse anche l’Oriente tanto che fu chiamato a Bangkok per affrescare il Palazzo del Trono. Successivamente la manifattura rivestì in grès ceramico lo stabilimento termale di Salsomaggiore “Lorenzo Berzieri” e Galileo Chini ne decorò una parte, collaborando con altri artisti dell’epoca. Dal 1925 la manifattura Chini riprese la partecipazione alle varie esposizioni nazionali ed internazionali nelle quali ebbe risalto e successo il lavoro presentato da Galileo, oramai artista indiscusso sia come decoratore, sia come artefice di preziose tecniche di lavorazione. Le Fornaci continuarono la loro attività fino al 1943, quando, a seguito di un terribile bombardamento su Borgo San Lorenzo che causò molte vittime, subì così tanti danni che non riuscì più a riprendere una regolare attività".



Le sorelle Maria Angela e Maria Paola Cassigoli, con squisita gentilezza, hanno chiesto che i decori della loro casa fossero fotografati e permesso di inserirli nel sito della biblioteca, ora che sono stati restaurati dalle abili mani di Francesco Graziani e Barbara Briccolani. E allora guardiamo.

Si parte di qui, dallo studio del prof. Antonio Cassigoli, per tanti anni direttore delle Scuole Elementari di Marradi e sindaco negli anni Cinquanta. Basta alzare gli occhi per rendersi conto dell'eleganza della pittura del Chini.





Clicca sulle immagini 
se le vuoi ingrandire




Galileo Maria Chini







Casa Cassigoli  è datata 1795 ma pare che le fondamenta risalgano al Quattrocento. La casa apparteneva a Celestina Celletti che la lasciò in eredità alla nipote Anna Cattani.
Anna Cattani era moglie di Antonio Cassigoli.


Attualmente la proprietà è delle quattro sorelle Cassigoli (Maria Grazia, Maria Rosa, Maria Angela e Maria Paola).








Questa casa è una delle pochissime 
che non vennero colpite 
dai bombardamenti aerei dell' ultima 
guerra mondiale e così questi capolavori 
sono giunti intatti fino a noi.













Nelle stanze decorate da Galileo Chini non mancano gli effetti a sorpresa, come questa porta a scomparsa.























Le ceramiche sono della Manifattura Chini di Borgo S.Lorenzo, gestita da Chino, cugino di Galileo.

I due, spesso in disaccordo, si erano divisi e a Chino Chini era toccata la fabbrica di ceramiche.






C'erano molti altri oggetti in ceramica, ma gli Indiani dell' VIII Armata inglese nel 1944 occuparono la casa e non ebbero tanto riguardo per i soprammobili.





Nel corridoio che porta al secondo piano 
una successione di disegni geometrici 
e di fantasia studiata sapientemente  
ha l'effetto di ampliare lo spazio, 
come succede anche nel corridoio di ingresso.



Gli affreschi sono stati restaurati di recente
 da Francesco Graziani e Barbara Briccolani.






Queste foto sono state scattate il giorno 20 agosto 2012. Le sorelle Cassigoli, essendo l'edificio una proprietà di famiglia, chiedono di non "scaricarle" per altri utilizzi se non dopo aver ricevuto una esplicita autorizzazione.

 

giovedì 8 novembre 2012

Il castellaccio



Il Castellaccio
una “Mansione” romana
di Alessandro Mazzerelli



A Biforco il Castellaccio si protende come la punta di una nave, a dividere la biforcazione tra il torrente Campigno e il fiume Lamone. Non ci vuol molto a capire, guardando la struttura dall’alto di uno dei poggi adiacenti, la posizione estremamente strategica del sito.

A conferma della sua importanza storica citiamo la documentazione-certamente parziale- che siamo riusciti a consultare. La citazione del “Castellaccio”, più chiara e forse scientificamente più obbiettiva, è dovuta alla Professoressa Alessandra Borgi che nel 1977 pubblica, per l’IGM di Firenze, un saggio dal titolo “La rete stradale della Toscana nei caratteri attuali, nella sua evoluzione storica, nelle sue esigenze di sviluppo”. Lo studio nelle pagg 1000-1005, tratta l’argomento de “Le vie Fiorentina e Faentina e le Transappenniniche “. Ci sembra di estremo interesse riportare il testo che riguarda la Fiorentina e la Faentina.

Scrive la Borgi:
“ La Fiorentina e la Faentina costituivano , come via militare, l’univa trasversale che collegava la Toscana all’Emilia nel tratto compreso tra l’ Aemilia Scauri e la Flaminia. Il tronco Pisa-Firtenze era un percorso etrusco ricalcato dai Romani nel I secolo A.C. ed è documentato dalla Tavola come deviazione dalla cassia da Lucca. Il tratto successivo, compreso nella Firenze-Lucca, riportato dall’Itinerario di Antonino, è stato oggetto di una precisa ricostruzione, accertata da altri autori, da parte di Roberto Andreotti.


Biforco visto da (o verso) 
il Castellaccio




La strada iniziava in Pisa (Piazza dei cavalieri) e lungo la riva sinistra dell’Arno passava per Cascina-Pontedera  (Valvata), San Miniato (allo sbocco della Valdelsa, Empoli Vecchio (in Portu), Porto di Mezzo (Arnum Flumen), Firenze (Ponte vecchio): Da Firenze la via puntando a nord-est, saliva per la stretta valle del Mugnone (Munio) al valico delle Croci, e scendeva alla Sieve alla stazione di “Anneianum” (Borgo san Lorenzo): Di qui risaliva il torrente Elsa per Pulicciano (Fundus Pulicianus), poi proseguiva per Ronta e la colla di Casaglia. Quindi scendeva nella Val lamone (Anemo) fino a Marradi dove in località Castellaccio si trovava la mansione “In Castello”.
Oltre Marradi la strada continuava per San Casciano, Pieve di Tho, Quarto, Faenza sulla via Emilia. L’attuale statale 302 segue questo tracciato e percorrendola si ha la conferma della sua antichità.”

La Borgi, tra i diversi autori che cita, fa particolare riferimento a Roberto Andreotti che su “Historia”, n. 2 (1927), supplemento a “Il Popolo d’Italia”, organo del PNF, nelle pagg.153/157, sotto il titolo “Il Percorso dell’antica Via Faentina” scrive:
“ L’importanza della Via Faentina è indubbia, se si pensa che essa dopo la strada della Lunigiana, detta nel Medioevo Francigena, e quella di Bononia, costituiva la terza via di comunicazione attraverso l’Appennino Tosco-Emiliano; eppure gli unici dati tradizionali li troviamo nel noto  “Itinerarium Antonianum”, dove sono nominate due MANSIONES, Castellum ( Castellaccio) ed Anneianum ( Borgo San Lorenzo) ed è citata la lunghezza delle relative tappe: 25 MIGLIA DA FAVENTIA A CASTELLUM, PARIMENTI 25 MIGLIA DA CASTELLUM AD ANNEIANUM e 20 MIGLIA DA ANNEIANUM A FLORENTIA” (…)

…“ Se la Via Faentina, ,  doveva passare per la valle del Lamone, la prima mansio, Castellum, deve essere situata nel fondo valle a 36 Km da Faenza; a tale distanza si trova pressappoco Marradi , ed appunto in Marradi o in località assai vicina a Marradi, si deve vedere l’antica Castellum …".

… Il tracciato della Via Faentina da Marradi, si sarebbe inoltrato per l’affluente di destra, il fosso di Campigno, per giungere al Passo delle Scalette (Scalelle), per cui anche nel Medioevo vi era una mulattiera assai importante che immetteva nella valle del Lamone dal Mugello e che era custodita da un Castello. Dal passo delle Scalelle poi sarebbe discesa in val di Sieve , attraverso il territorio di Gorella, per un affluente di destra del S. Godenzo o per S. Godenzo  stesso.




Poi sarebbe proseguita sino a Florentia e di qui per Ad Solaria ed Hellana, a Pistorias e per Ad Martis a Lucca: Una riprova poi della romanità persistente del territorio di Corella per cui sarebbe passata la Via Faentina, starebbe nel fatto, secondo alcuni, che una delle chiese suffraganee della Pieve di Corella era intitolata alle SS. Lucia e Cristina a Casa Romana.”

Come appare evidente, vi è tra la Borgi e l’Andreotti, fermo il caposaldo della Mansione Romana del Castellaccio di Biforco, nota già nell’Itinerarium Antonianum, una diversa opinione circa il percorso della Faentina dal Castellaccio al Mugello. Per la Borgi la strada è analoga all’attuale statale. Per Andreotti giunta al Castellaccio svolta a sinistra per Campigno, raggiunge il Passo delle Scalelle, che Andreotti chiama Scalette, sotto Campigno nella località “Fango”. Quindi, salendo sino al passo ove oggi c’è il “Tabellone”, poco sotto il Giogo di Corella, a m. 1137 s.l.m., scende nei territori di Corella.

Come spiegare la diversa opinione?
Credo che tutti e due gli autori abbiano in qualche modo ragione perché i due tracciati si pongono in tempi diversi. Quello romano è perfettamente descritto dalla Borgi, quello altomedievale e medievale, quando da tempo le vie romane erano da tempo divenute impraticabili a causa dell’abbandono, è certamente quello descritto dall’Andreotti.

IL CASTELLACCIO

Ma ai fini della nostra ricerca l’oggetto è il Castellaccio, punto di riferimento di ambedue i tracciati: E che si tratti del Castellaccio attuale pare provato da fatti oggettivi, venuti alla luce a seguito dei lavori di rifacimento all’esterno e all’interno dell’immmobile.


Il barbacane orientale 
e le ex feritoie.


In particolare:
Il Barbacane orientale del Castellaccio, messo esternamente di nuovo in luce, ha una profondità muraria superiore a 2 metri, visibile e misurabile dalle due ex feritoie;

L’interessantissimo pozzo interno, già probabilmente esterno, che poggia sul barbacane occidentale del Castellaccio, rientra nella tipologia delle strutture difensive e comunque di controllo e di sosta;
Infine il possente basamento, oggi visibile da una  cantina, conferma le ricerche degli studiosi citati.





Accanto: Il pozzo
Sotto: il graffito medioevale


Nel medioevo l'antica mansione fu anche convento, e forse era qui il mitico monastero di Biforco, di cui si hanno notizie un po' leggendarie negli Annali dei frati di Vallombrosa.
Di certo l'edificio ebbe sempre una funzione pubblica e divenne casa colonica e padronale solo negli ultimi secoli.
In un edificio annesso c'è un graffito interessante e difficile da interpretare. Secondo una interpretazione, che non è l'unica, i quattro graffiti sarebbero una simbologia del potere della chiesa e del feudatario e rappresenterebbero quello che si vede dalle finestre dell'edificio.

Di notevole interesse appare, per il vissuto che vi traspare, anche la facciata principale su cui emerge chiarissima la trama delle strutture che si sono aggiunte alla probabile torre iniziale.
Concludendo, va ricordato che la proprietà poteva e voleva fare di più, ma ha trovato incomprensibili ostacoli burocratici che non hanno reso fruibile la vista della facciata principale della struttura che doveva essere, almeno quella, ripristinata totalmente al vissuto.
Comunque il Castellaccio, per quello che ne rimane, merita il rispetto dovuto ad una vetusta emergenza storica che nell’intera Val Lamone, per antichità e importanza, risulta seconda solo alla Pieve del Tho.

Alessandro Mazzerelli


Note
Mansione: luogo di tappa lungo le strade romane, dal latino mansio-mansionis che significa “ sosta” e che deriva a sua volta dal verbo manere cioè restare.
Barbacane:struttura difensiva medievale, un antemurale che serviva da sostegno e protezione aggiuntiva rispetto al muro di cinta o alla fortezza vera e propria.

Queste foto sono state scattate il giorno 1 novembre 2012. Il dr. Mazzerelli, essendo l'edificio una proprietà della sua famiglia, chiede di non "scaricarle" per altri utilizzi se non dopo aver ricevuto una esplicita autorizzazione.



mercoledì 7 novembre 2012

Dal Paretaio al Monte Battaglia

27 Aprile 2012


Domenico Nati racconta...
Luisa trascrive...

Foto di Rosario Torsitano





Partiamo in sei, io, Domenico Cavina, Angelo Bandini, Rosario Torsitano, Marino Tronconi e Remo Galeotti,  in una tiepida giornata d'aprile direzione Passo della Faggiola (o del Paretaio). Obbiettivo: dal Paretaio al Monte Battaglia, km. stimati 22,5.  Il sole primaverile ci accompagna e ci riscalda mentre le prime gemme non ostacolano la vista spettacolare di crinali, giogaie, vallate silenziose. 
Su di noi il volo di due poiane...





  Inizia il nostro cammino verso la Faggiola e ci lasciamo alle spalle il monumento ai Partigiani della 36a Brigata Garibaldi che operarono a lungo in questa zona nelle fasi finali della Seconda Guerra Mondiale.





Dopo circa due chilometri sostiamo per bere ad un fontanone e poi ci inoltriamo in una faggeta fino ad arrivare alla “ Dogana”. Solo una pietra resta ad indicare che qui c'era una casa   che prima dell'Unità d'Italia  fungeva da  rifugio per le guardie doganali fra lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana. Oggi essa segna il confine tra i comuni di Castel del Rio, Palazzuolo e Firenzuola e tra la Romagna e la Toscana.



Sosta al Fontanone








la pietra che indica " La Dogana"













Il sentiero ora si stringe e proseguiamo in fila indiana tra arbusti e grovigli spinosi che formano dei rudimentali pagliai naturali fino ad affacciarsi sulla vallata verso Firenzuola che improvvisamente si spalanca sotto di noi. 


le giogaie e i crinali





Qua e là distinguiamo le case in rovina di poderi da troppo tempo abbandonati. 
Poi ecco, sulla strada che arriva dalla Romagna, la chiesa di Valmaggiore:


La chiesa di Valmaggiore
non ha più il tetto ma una copertura provvisoria in plexiglass per evitare che le infiltrazioni d'acqua facciano crollare tutto. La costruzione è alta e affiancata da un campanile con una curiosa cupola semisferica. L'accesso alla chiesa è impedito da un grande cancello ma possiamo osservare l'abside con un rudimentale altare, i muri scrostati in cotto e pietra, le nicchie che si aprono nelle pareti laterali. 


L'interno della chiesa




Sulla facciata due lapidi ci ricordano il nome del suo parroco e che di qui, nel 1506, passò il papa Giulio II con il suo seguito, senza specificare né da dove venisse né dove andasse.




la facciata della chiesa e le due lapidi
Di fianco alla chiesa si apre, soleggiato e rassicurante, il piccolo cimitero privo di lapidi o segni di sepolture. E' cinto da un basso muretto in pietra, perfettamente conservato, interrotto, in fondo, da una piccola cappella mortuaria sul cui pavimento si apre invece un inquietante ossario fortunatamente vuoto. Da lì si gode una splendida vista su tutta la vallata sottostante e si vede bene l'altura conica di Monte Battaglia, dominato da un antico torrione.


Il piccolo cimitero, un vero "campo santo"
Mancano ancora più di 8 chilometri alla meta che intravediamo nel verde.
Come in ogni camminata, è arrivata l'ora della sosta per il pranzo, mai frugale e sempre accompagnato da grappino, dolce e caffè perché camminare è bello ma.... 
ma il momento conviviale lo è ancor di più e qui c'è una bella area attrezzata con tavoli e panche in pietra, angolo per il focolare e tettoie protettive in caso di pioggia.

Valmaggiore visto dalla strada per Monte Battaglia
Poi si riparte imboccando una bella strada larga percorribile anche in "fuori-strada" che ci porta dritti dritti a Monte Battaglia, e al suo torrione ben conservato, circondato dai resti dell'antico muro di protezione


Monte Battaglia-il torrione

















Qua e là lapidi con iscrizioni in italiano e in inglese ci riportano ai momenti della faticosa conquista di questo monte, ultimo ostacolo al dilagare degli Alleati nella pianura di Imola che si intravede in lontananza.




Le lapidi commemorative
Nel prato che si apre sereno dietro il torrione, si stende una scultura bronzea, lucente nel sole: sono gli enormi pezzi, testa, corpo, arti, di un uomo dilaniato che lì, per la libertà o per difender un folle ideale, ha perso la vita. Non ha divisa, non sappiamo se rappresenti un tedesco, un alleato, un partigiano. 


la scultura 
Simbolicamente è ciò che resta di un uomo che qui ha lasciato il suo corpo. Il suo spirito aleggia ancora in questa quiete surreale e ci ricorda i momenti cruenti della battaglia. Il contrasto tra i pezzi di un corpo anonimo i cui occhi vitrei e persi ci fissano per l'eternità, e la serenità della natura circostante è fortissimo.




















 Qui si è combattuto ma la natura nel suo splendore primaverile, nel fulgore della rinascita, sembra assolutamente indifferente alle angosce, alle traversie umane, alla follia dei pochi scontate col sangue di molti, siano stati essi carnefici o vittime, nemici o alleati, tutti ugualmente, follemente morti.


I " Magnifici" sei...