Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

lunedì 27 luglio 2015

1891 Il Macello

Le condizioni igieniche
precarie di Marradi

da una ricerca di Mario Catani



Annibale Carracci, 
I macellai


Nell'Ottocento Marradi non aveva un macello pubblico moderno e la lavorazione della carne veniva fatta dentro le botteghe, scaricando le frattaglie direttamente nel fiume. Questa situazione, di per sé precaria, peggiorò rapidamente nel decennio 1880 - 1890 quando il paese divenne sede dei cantieri per la costruzione della ferrovia, a causa dell'arrivo di migliaia di operai. Nel 1891 le condizioni igieniche erano drammatiche e l'Ufficiale Sanitario scrisse al Sindaco ...



Marradi, 18 febbraio 1891
Illmo Signore
Sindaco di Marradi

A parte il danno materiale di coloro che passando per le vie del Paese sono costretti, specialmente nella angusta via Pescetti, a sfregare i propri abiti sul muro inquinato di sangue e di grasso, o sopra i pezzi di carne macellata appesa all' esterno delle macellerie per evitare l'urto dei veicoli che si scambiano, o a calpestare pozzanghere di questa materia, residuo di quella poco decorosa esposizione, non tacerò la facilità con cui gli insetti depositano su quelle carni le loro uova favorendone la decomposizione, diminuendone il valore nutritivo e potendo essere causa di malattie se la carne non è cotta convenientemente.
Più di tutto però mi preme segnalare alla considerazione della S.V. il pericolo continuo che emana dalla macellazione degli animali nella bottega di Ferdinando Bandini, in via Pescetti.

Il sangue e le altre materie residue alla macellazione si riversano nel letto del Lamone e là rimangono finché qualche piena eccezionale e benefica non le trasporta. Queste materie, con quelle che si riversano dalle case limitrofe, sempre ma più che mai da ora innanzi in cui le piene saranno più rare e la temperatura sarà in aumento, avremo un grave e pericoloso centro di infezione nel bel mezzo del paese.
Ora giacché l'art 28 del Regolamento locale di igiene dà facoltà al Municipio di prescrivere che la macellazione si esegue nell'ammazzatoio a ciò destinato, faccio istanza perché sia proibita la macellazione degli animali nella bottega del succitato Bandini e si destini l'una o l'altra delle macellerie del paese ad uso del Bandini stesso e dei privati.













Faccio istanza anche perché, in ordine agli articoli 7 e 14 del ricordato Regolamento sia proibita l'esposizione all'esterno delle botteghe di carni macellate se non sono racchiuse in apposite vetrine a cristalli o a fitta rete metallica.
Infine raccomando caldamente alla S.V. in nome dell' igiene, della moralità e del decoro che l'uccisione degli animali e il loro scuoiamento e
squartamento sia da tutti eseguito nel modo prescritto dall'Art. 28 surricordato e che possibilmente sia applicato l'Art. 102 comma 4 del Regolamento del 28 ottobre 1889.

Con distinta stima
L'Ufficiale sanitario F.Bartolucci





















E allora che fare?

Gli Amministratori del Comune fecero fare un progetto che prevedeva la costruzione di un nuovo macello vicino al ponte di Villanceto, all'incirca di fronte all' attuale supermercato,

A quel tempo l'area era aperta campagna, con i campi coltivati a vigneto. Il tutto è molto chiaro nella planimetria qui accanto.



Il progetto prevedeva anche una bella cancellata in ferro battuto, posta lungo la strada, perché l'impianto avesse l'aspetto del mattatoio il meno possibile.

la posizione del nuovo macello è in rosso nella planimetria qui sopra.






Secondo le moderne leggi di igiene serviva anche un recinto per le bestie infette, che venne progettato così.





Però a questo punto sorsero le proteste dei marradesi del centro, perché la zona era troppo vicina all'abitato e l'impianto scaricava direttamente nel fiume, a monte di Marradi.
Per questo l'idea venne abbandonata e il macello fu costruito, di lì a pochi anni, a valle del paese, dopo il passaggio a livello, dove ancora oggi si vede l'edificio dismesso.




Fonte: documenti dell' Archivio storico del Comune di Marradi.




mercoledì 22 luglio 2015

Al Passo della Colla di Casaglia

Un piacevole tour 
in bici fino al crinale 
dell' appennino
di Claudio Mercatali



Il Passo
 nel primo Novecento


Gira e rigira il Passo della Colla è quello più piacevole da fare in bicicletta, fra quelli raggiungibili da Marradi. La salita è agevole o dura a seconda dei tratti, panoramica, varia. A metà e in cima o quasi ci sono due paesini (Crespino e Casaglia) e ogni quattro chilometri una sorgente (Fantino, Crespino, Casaglia, Passo della Colla). Volendo si può anche scegliere fra l'acqua ferrugginosa della Fonte di Sette, la sulfurea di Casaglia e la sorgiva di roccia al Passo, oppure sua sorella alla Casa dell'Alpe, che è 500 metri oltre, verso il Mugello.

Siete di pianura e 16 km in salita vi fanno dubitare di voi stessi? A Crespino passa un treno ogni due ore, nelle pause un pulmino fa servizio pubblico da Casaglia a Marradi. Che cosa si può volere di più?

Da Marradi un bravo cicloturista impiega un'ora per arrivare in cima e un ragazzo dell'agonistica in tre quarti d'ora ce la fa. A me serve un'ora e venti, perché vado piano e mi distraggo facilmente a guardare la fioritura dei ciliegi selvatici se è aprile, quella dei castagni se è maggio, quella dell' iperico se è giugno o della cicoria in luglio ... ma andiamo con ordine ...

Secondo la segnaletica della Provincia di Firenze il Passo della Colla comincia a Marradi, dal ponte di Villanceto e qui, al km zero, un cartello indica che in inverno servono le catene da neve. 
I chilometraggi di cui dirò in seguito sono riferiti a questo punto.


Ca d'là è un edificio a cavallo del confine fra Marradi e Palazzuolo. Secondo la leggenda uno che abitava qui, andato a Marradi per registrare una nascita si sentì chiedere in che stanza era nato il pupo.


Salta Cavallo è un altro posto con la storia. In questo tratto c'è l'unico chilometro in pianura  e i vetturini alla guida della diligenza incitavano le bestie al traino.


La strada piana a Salta Cavallo
Il ponte di traverso è della ferrovia Faentina.





Valbura è la salita di prova. Dura, diretta, corta, chiarisce il fatto e cioè chi arriva in cima in condizioni penose è meglio che torni indietro dopo aver bevuto una borraccia d'acqua fresca alla fonte del viale della stazione di Crespino.







A Crespino comincia la parlata toscana. Mi ricordo che un giorno arrivammo qui stanchi morti, perché avevamo avuto sempre il vento contro. Eravamo in quattro e una donnina che stendeva i panni ci urlò: "Chi è vecchio e un ci crede in salita se n'avvede ...".





Subito dopo il paese, sulla sinistra oltre il fiume ci sono i Prati della Logre, posti molto antichi.
I padroni erano i frati del monastero e ogni crespinese ne aveva un pezzettino. Pagava l'affitto in natura, non con i prodotti della terra ma con un certo numero di ore di manodopera a seconda del suo mestiere. Perciò il nome esatto del sito nel romagnolo medioevale era "i Pré de gl'ovre" e poi si è deformato.







Questo è il tratto più duro e bisogna patire. Salgo con il 34/27, il rapporto dello stento, fino al Ponte del Pentolino. Dopo un po' un tabernacolo dedicato alla Madonna marca il confine fra Marradi e Borgo S.Lorenzo. I cicloturisti più spiritosi la chiamano la Madonnina degli affanni. E' il punto di massimo sforzo e il cardiofrequenzimetro segna facilmente 140 - 150 battiti.






Il  Pentolino, detto anche il Ponte dei Forconi, nell' Ottocento era uno dei posti preferiti dai briganti, perché la diligenza saliva piano e non poteva prendere la rincorsa. Fu così che il 16 maggio 1872 ...

Nei campi di Casaglia si riprende un po' il fiato. Il sottosuolo argilloso dà una morfologia ondulata, perché i terreni, nei millenni, sono scivolati lentamente verso il fiume Lamone.
In compenso la visuale si apre e il paesaggio assume un aspetto alpestre.





Casaglia è un paesino che oggi conta solo 34 abitati, ma cento anni fa i residenti erano qualche centinaio. L'abitato venne sconvolto il 29 giugno 1919 da un terremoto, lasciando tutti nella disperazione. I soccorsi vennero dallo Stato ma anche da una colletta promossa dalla Società Pronto Soccorso, di Faenza, e qui accanto c'è il ringraziamento che il parroco del luogo volle pubblicare nel settimanale faentino  Il Piccolo.



Alla fonte dell'acqua zolfa caso mai mi fermerò al ritorno, perché ora ho già in bocca il sapore del sudore salato e mi basta. Qui le rocce del monte disegnano un profilo, come una specie di monte Rushmore nostrano.

Ai tempi del Granduca Leopoldo II di Lorena (1820 - 1830) la strada della Colla era nuovissima, quasi un'autostrada, con una progettazione d'avanguardia per attenuare le pendenze. 



Ecco il divagare del percorso nella zona di Camera de' Bovi visto dal monte La Faggeta, un sito rupestre nella corona dei monti circostanti, tanto graditi agli amanti del trekking e agli appassionati di muntain bike più scatenati.








Stiamo arrivando alla Curva di Cencione, che era un commerciante di Ronta. I briganti lo aspettarono dietro la curva, spararono in aria, ma il cavallo si imbizzarrì, Cencione cadde, picchiò la testa in terra e morì. Era il 29 maggio 1874.








Perché il passo si chiama "della Colla"? Che cosa c'è di appiccicoso qui? Niente, colla sta per colle o collina e indica che si arriva in cima senza la tipica rampa finale di tante strade di montagna.


La casa il cima al Passo 
nei primi anni Cinquanta




E così siamo arrivati. Un buon bicchiere d'acqua alla fonte del Passo, dopo essersi sciacquati il viso dal sale del sudore è quello che ci vuole. Non mi piace bere l'acqua di fonte dalla borraccia di plastica e porto sempre con me un bicchiere pieghevole. Gli amici scuotono il capo e mi dicono che è di plastica anche questo, però secondo me la sensazione è diversa. Non sarà una fissazione?


Ora non rimane che il ritorno. La Colla è piacevolissima anche in discesa, perché il serpeggiare delle curve rende il percorso gradevole. Perciò questa strada era amata dai ciclisti anche cento anni fa, come si legge in questo articolo del giornale La Nazione del luglio 1910.






venerdì 17 luglio 2015

1907 L'ospedale di Marradi

Il direttore sanitario chiede 
degli interventi urgenti
di Claudio Mercatali e Vincenzo Benedetti




Via Talenti nel 1907
 (dal 1926 via Roma)  



L’Ospedale S.Francesco fu costruito nel 1807, circa vent’anni dopo l’Ospedale di Modigliana, al quale i marradesi si rivolgevano nel Settecento. Proprio per evitare il viaggio a Modigliana si decise di costruire un nosocomio in paese.
Nell’Ottocento l’amministrazione era comunale e avveniva per mezzo della Congregazione di Carità. Dal 1865 in poi, ogni anno, la Congregazione presentava i bilanci al Consiglio Comunale, che deliberava la loro approvazione. Com’era l’Ospedale nel primo Novecento? Quali erano le condizioni dei degenti?

Nel gennaio 1907 il  dr. Augusto Pellegrini, direttore dell’ Ospedale, pubblicò una nota, per le autorità marradesi e la cittadinanza. Leggiamola:

“ … Coll’unico scopo di far conoscere alle Amministrazioni locali ed alla Popolazione Marradese i bisogni del nostro Ospedale, ne esporrò brevemente le condizioni, fiducioso che le mie parole sa­ranno accettate con benignità.
L’Ospedale di Marradi fu, come è a tutti noto, eretto per iniziativa del cav. Luca Fabroni,  che con Rescritto Reale del 21 dicembre 1795 ottenne il permesso di ricevere qualunque spontanea elargi­zione all’oggetto di poterlo erigere. Se al cav. Luca Fabroni devesi l’iniziativa, all’illustre Mons. Angelo Fabroni spetta specialmente il merito di aver concorso con notevoli somme alla fondazione. L’Ospedale di S.Francesco fu costruito nel 1807 e fino a oggi non ha subito nessun cambiamento radicale. Come tutti gli ospedali antichi ha costruzione e ubicazione imperfetta ed affinché possa corrispondere alle esigenze moderne è necessario apportarvi radicali modificazioni. 


... il lato ovest dà 
sul mercato dei bovini ...


Il nostro  fu costruito sul tipo a padiglione rettangolare e in tre piani, in modo che rassomiglia più ad una casa privata che ad un ospedale. Il lato sud del fabbricato dà sulla strada Provinciale, il lato ovest sul mercato dei bovini, il lato est sopra a un vicolo e il lato nord guarda il fiume Lamone. Gli ambienti sono generalmente mal ventilati e per togliere questo grave inconveniente sono già state aperte alcune finestre di riscontro.




Il Rescritto di Luca Fabroni, del 1798, 
è un atto nel quale si invita chi può a donare
 qualche fondo per costruire l'ospedale.
E' considerato  l'atto di nascita 
del nostro nosocomio.




Secondo l’uso ottocentesco, in mezzo all’ospedale c’era una chiesa:

“… Al secondo piano, accanto alle due corsie principali c’è la chiesa, che nei giorni festivi è aperta anche al pubblico ed è assai frequentata, con grave inconveniente per la regolarità del servizio; onde sarebbe opportuno che venisse portata al piano terreno, con un accesso esterno, onde il pubblico non potesse avere alcun rapporto con i malati. La stanza occupata dalla chiesa si presta bene come sede del personale addetto alla cura dei malati”.




LA CHIESA
La chiesetta era in cima allo scalone d'ingresso, dove ora c’è l’Ufficio ASL per le prenotazioni. Sopra la porta a guardar bene si può ancora leggere: “Extra corporis intus animae salus” cioè: “Qui dentro (.. nella chiesetta) la salute dell’anima, fuori quella del corpo”.


La camera mortuaria era naturalmente vicino alla chiesa, per le funzioni funebri, ma questo non era più accettabile, per motivi sanitari evidenti:

“… La stanza di deposito dei cadaveri e per le necroscopie si trova al primo piano nella parte più centrale del fabbricato accanto al Dormitorio del Ricovero di Mendicità; onde è necessario che venga trasportata in un angolo del giardino con accesso dall’esterno ...”

L’ambulatorio era un po’ anche camera operatoria, il che per noi è inconcepibile:

 “… L’ambulatorio per il pubblico fino a pochi giorni fa veniva tenuto nella stanza che serviva an­che per le operazioni, accanto alle infermerie, onde non si offriva garanzia per eseguirvi delle operazioni importanti e non si poteva avere l’isolamento del pubblico dai malati degenti. L’Ospedale è sprovvisto di una sala operatoria corrispondente ai concetti moderni della chirurgia e sarà difficile costruirla se l’Ospedale non potrà ingrandirsi sul vicino mercato, dove si potrebbe costruire un piccolo fabbricato con la sala operatoria, la stanza di preparazione del malato e la stanza di disinfezione per i medici. Oggi però si possiede un comodo e moderno tavolo per operazioni”.



Marradi, 1 dicembre 1906
Registro per il servizio di ambulatorio
dell'Ospedale

La mancanza di un padiglione per le malattie infettive fu un problema già nell’ epidemia di colera del 1855 e il Direttore se ne lamentò a ragione. Fu accontentato e si costruì un lazza­retto in prossimità dell’Ospedale, ma separato da esso.

 “ … Manca un padiglione isolato per le malattie infettive e le stanze che attualmente servono per tale scopo danno sullo stesso corridoio su cui dà la camera del Direttore e la stanza del Segretario della Congregazione di Carità, onde è desiderabile che detta Segreteria venga trasportata altrove, possibilmente fuori dall’Ospedale”.

Le condizioni per i ricoverati non erano un gran che:

 “… La cucina ha un focolare vecchio e consunto, insufficiente per gli aumentati bisogni. Solo in una parte delle stanze si hanno impiantiti fatti a mattonelle di cemento, ma la maggior parte degli ambienti hanno il pavimento di mattoni consunti e mal connessi, che sollevano molta polvere, sporcano la biancheria e non sono suscettibili di una vera disinfezione. Il riscaldamento è limitato a pochi ambienti ed è fatto con stufe antiche, onde sarebbe necessario un riscaldamento centrale a termosifone.

Come rimedio provvisorio si sono acquistate alcune stufe per riscaldare la Stanza Operatoria che è anche Ambulatorio. L’illuminazione è a lumi ad olio ma si spera che quanto prima l’Ospedale sia provvisto di luce elettrica. Il letti mancano di reti metalliche e vi sono ancora oggi gli antichi pagliericci, nemici della pulizia ma tra giorni i letti saranno provvisti di reti metalliche, la cui spesa sarà presto compensata dal ri­sparmio che si avrà nel mantenimento. La biancheria non corrisponde ai requisiti igienici, e sono ancora in uso i coltroni che male si prestano per la lavatura e la disinfezione. Non si possiede nessuna sterilizzatrice e sarebbe desiderabile poterla acquistare. I malati appena ricoverati nell’ Ospedale dovrebbero poter lasciare le proprie vesti e dopo aver subito un bagno di pulizia vestire abiti provvisti dall’ Ospedale”.

Dal punto di vista amministrativo è interessante sapere che:

“…L’Ospedale non è autonomo, bensì comunale, è però opportuno che possa essere acquistata la sua autonomia di vivere di vita propria e indipendente, com’era nel concetto dei suoi fondatori e saranno fatte al più presto le pratiche per ottenere questa autonomia collo scopo che anche la pubblica beneficenza sia ad esso più facilmente rivolta…. Per garantire il funzionamento della struttura occorre una spesa non lieve e le finanze della Congregazione di Carità
non permettono di provvedere ai bisogni richiesti; per fortuna i componenti di questa Congregazione, fiduciosi nella carità dei Marradesi, si sono costituiti in comitato speciale, per raccogliere fondi sufficienti al miglioramento dell’Ospedale e le donne marradesi hanno avuto la nobile iniziativa di formare un Comitato Pro Ospedale per provvedere all’acquisto e al mantenimento della biancheria. Da ciò è sperabile che la pubblica beneficenza posa riuscire a portarlo in condizioni tali da corrispondere ai dettami della scienza e alle esigenze moderne della popolazione ….”

Marradi, gennaio 1907






Il direttore Augusto Pellegrini fu importante per Marradi. Con lui l'ospedale S.Francesco passò uno dei suoi periodi d'oro. Chi era? Lo studioso Riccardo Cardellicchio ci dice che:

Pellegrini nacque a Fucecchio il 26 giugno 1877 e si laureò a Firenze. Nel 1906 vinse il concorso di direttore dell'ospedale di Marradi e rinnovò l'ospedale sul piano tecnico e finanziario. Nel 1911 affrontò con competenza l'epidemia di colera. Nel 1913 vinse il concorso di primario chirurgo e direttore dell' ospedale "Mellino Mellini" di Chiari, dove rimase per quarant'anni. Forte dell'esperienza di Marradi, fece del nosocomio lombardo una struttura moderna.
Durante la prima guerra mondiale organizzò, al "Mellini", un reparto per l'applicazione di arti artificiali, secondo il metodo di Giuliano Vanghetti.

l'ossificazione traumatica del legamento  del ginocchio 
(detta sindrome di Pellegrini)

I mutilati arrivano a centinaia dal fronte e l'ospedale diventò una struttura importante con duecentocinquanta posti letto. Al termine del conflitto, ricevette medaglie di bronzo e d'argento per meriti della sanità pubblica. Nel 1919 a Parigi, mandato dalla Croce Rossa, presentò le sue ricerche sugli arti artificiali alla Società di chirurgia. Curò l'ossificazione traumatica del legamento collaterale tibiale del ginocchio (definita sindrome di Pellegrini), scoperta e descritta nel 1905. Lasciò l'ospedale di Chiari dopo quarant'anni d'attività intensa. Morì a 81 anni, nel 1958.

  
Sotto la direzione sanitaria di Pellegrini l'Ospedale di Marradi cambiò volto e cominciò il suo periodo d'oro che durò fino agli anni dopo la Prima Guerra Mondiale.


Che cosa si vede dal tetto dell'Ospedale? Gli addetti alla manutenzione salgono questa scaletta, percorrono il corridoio della soffitta  e dal tetto vedono un bel panorama del paese:





La scaletta







Il corridoio 
della soffitta









Il molino della Concia, Casa Piretta 
(a mezza costa) e Mirasole (sopra)




Visuale verso nord, panoramica 
fino a Casa Vigòli.












 La Concia (in basso a sinistra)
e via Francini


  





 Fonti:   Notizie tratte da un documento del sig. Vincenzo Benedetti. Immagini dell'Archivio storico del Comune e dell' Archivio dell'Ospedale S.Francesco.

domenica 12 luglio 2015

Un trekking di notte in un sito antico

Con l'ultimo quarto di luna 
a Badia della Valle





Siamo al secondo appuntamento del 2015 per gli amanti del trekking in notturna. Sabato 11 luglio con l'ultimo quarto di luna abbiamo approfittato per una passeggiata nella Valle dell' Acerreta.

Il percorso era un anello di fronte a Badia della Valle, monastero antico, fondato circa nell'anno Mille da San Pier Damiano lo stesso frate che fondò Gamogna.



I due conventi costituivano un tutt'uno, perché secondo la Regola del fondatore i frati penitenti alternavano un periodo al cenobio di Badia con un periodo all'Eremo.


Il percorso è segnato in giallo qui accanto. La riga nera è la traccia della strada comunale per Badia della Valle e oltre.























Il programma prevedeva una conclusione
gastronomica al B&B di Badia
è così è stato. Anche la visita alla cripta
e alla chiesa del monastero è stata interessante.


La Regola dei frati di san Pier Damiani era durissima: pane, acqua e cilicio per qualche mese a Gamogna e poi un relativo periodo di benessere al cenobio di Badia. E' la classica vita monacale dell' Alto Medioevo, fatta di preghiera, penitenza e stenti.

Questa idea fu superata nel Quattrocento, e nel Rinascimento la sensibilità delle persone cambiò.

Giunse così la crisi delle vocazioni e la conseguente decadenza di queste comunità monastiche. Dal 1485 a Badia e a Gamogna ci furono solo degli Abati Commendatari, che quasi da soli custodivano i monasteri ormai vuoti.

Nel 1532 il papa Clemente VII, con la Breve del 14 novembre, cancellò le due fondazioni di San Damiano e assegnò i beni e le terre ai Canonici di S.Lorenzo, la chiesa del centro di Firenze accanto al famoso mercatino, tappa quasi obbligata nella visita cittadina.

Badia e Gamogna divennero due parrocchie della Diocesi di Faenza e poi, dal 1851 della Diocesi di Modigliana, che fu costituita in quell'anno. Oggi le due diocesi sono state riunite e quindi Badia della Valle dipende di nuovo dal vescovo di Faenza (e di Modigliana). 




Badia della Valle è uno
dei posti più importanti della Valle Acerreta.
Di giorno la chiesa e la canonica
(che un tempo era parte
del monastero) fanno un bell'effetto.




I monaci naturalmente avevano anche il molino, che ora è una seconda casa ben ristrutturata.
Le macine sono appoggiate
al muro all'entrata  nel sagrato.







Il paesaggio è già di per sé una carta topografica per quello che dobbiamo fare: si tratta di percorrere il crinale là in fondo da sinistra a destra, per poi scendere di nuovo alla chiesa.





Ormai sono le 20 e il sole è sceso.
La chiesa di Badia vista da lontano 
è ancora più suggestiva. 












Siamo in settanta e ci avviamo 
attraverso i campi fino al torrente.
Andiamo al ponte di Case di sotto,
il podere che si vede là in fondo.



Scende la sera mentre ci affatichiamo per raggiungere il crinale lungo una campestre che passa in mezzo a prati profumati di menta, vicino al podere Coltriciano.

Il proprietario qui ha fatto una doppia semina: cereali (grano?) assieme alla mentuccia.
Le due piante nascono in tempi diversi e così si può mietere prima che abbia germinato l'erba officinale.








A vederli da lontano questi monti sembravano meno duri. Dopo un'ora di salita in un sentiero aspro raggiungiamo il crinale. Ormai è notte.










 Ogni tanto dal bosco si vede il fondovalle. 
Il monastero è illuminato 
e si vede benissimo.

Qui siamo vicino al podere La Bruciata. La casa poderale ha questo nome anche nel catasto del 1822 e quindi il disastro capitò qui nel Settecento.




Al bivio per il Monte del Tesoro:
comincia la discesa al lume
delle torce. Oggi qui c'erano 34°C
ma ora c'è una piacevole frescura.









Si attraversa l'Acerreta al ponte di Val della casa e si risale verso la chiesa.

Si dice Acerreta o Acereta? Nelle carte antiche si trovano di volta in volta tutti e due i nomi, in quelle moderne prevale la dizione con due erre.

Il veterinario Francesco Cattani, nativo della valle e proprietario del B&B dove siamo diretti non ha dubbi: il nome giusto è quello con una erre, perché qui ci sono tanti aceri e pochissimi cerri.





Sotto l'ex fienile, ora sala da pranzo
all'aperto, fervono i preparativi.














E' arrivato il diacono di Lutirano, con le chiavi della cripta e della chiesa. Dunque, intanto che si fa ora di cena, andiamo a visitare l'interno dell'ex monastero.


Si entra da una porticina in una specie
di atrio in cui campeggia l'immagine
del santo fondatore.





Della cripta rimane la muratura ad arco,
 intatta e la colonna centrale. 
Questi locali furono vuotati in tempi 
antichi e utilizzati come cantina 
per conservare il vino.





Con una scaletta interna si arriva
alla canonica.





A Badia della Valle il prete non c'è 
più da tanti anni, perché i poderi qui attorno 
sono disabitati e le ex case coloniche, 
ben ristrutturate, ora sono residenze estive.

Mette un po' di tristezza vedere la canonica
con gli arredi sacri alla rinfusa, però
il tutto è naturale: se non ci sono
i fedeli non c'è nemmeno chi dice messa.







L'aspetto della chiesa attuale è recente
e c'è poco da vedere, però la fabbrica è antica.
E' officiata solo quattro o cinque volte all'anno:

per san Giovanni Battista, al quale
è dedicata, per la celebrazione annuale
del fondatore e in qualche altra occasione.























Al muro una lapide scolpita con dei bei caratteri latini dice:

Questo edificio, iniziato nell'anno 1329 e portato a termine nel 1334, al tempo di papa Giovanni XXII, papa piissimo, dal reverendo signor Andrea di Vidigliano, degnissimo abate di questo monastero.