Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

giovedì 28 febbraio 2019

I toponimi del Comune di Marradi

I nomi dei posti dati dalla gente
Ricerca di Claudio Mercatali


La gente dà i nomi nei modi più svariati ai posti che frequenta. Ci sono siti con nomi di persona, di santi o divinità, di animali, piante, e altri che ricordano qualche caratteristica tipica, un fatto capitato lì e così via. Capire l’origine e il significato dei nomi non è sempre semplice perché il tempo deforma le parole, cancella le tradizioni, confonde le storie, le leggende, i miti e altro ancora.

Qui di seguito c’è la toponomastica di un centinaio di siti del Comune di Marradi, una parte minima delle migliaia di nomi che nei secoli sono stati dati nel nostro territorio.
Secondo l’uso prevalente in queste indagini i nomi sono raggruppati per tipologie, passando da una all’ altra con un caso intermedio. Derivano spesso dal romagnolo medioevale, che filtrò molte parole latine, longobarde e anche bizantine. Nel dialetto romagnolo è obbligatorio mettere l’accento nelle vocali interne dove cade l’accento (le toniche), come in francese. In più c’è l’accento circonflesso che indica la pronuncia nasalizzata delle vocali “a,e,o” seguite dalle consonanti “n, m”, come fa un francese quando dice il cognome del suo presidente Macrǒn.



Se siete romagnoli avete capito e se siete toscani potreste provare a tapparvi il naso e a dire “bόn” cercando di pronunciare la enne il meno possibile, però i fonemi del tosco sono altri e non otterrete dei grandi risultati.

Partiamo dal nome del capoluogo. Marradi, Maré in dialetto, deriva con ogni probabilità da “marra” che era uno zappetto. Dunque Marradi, o Marato, significa “zappato”. In effetti tutto attorno al capoluogo ci sono ancora i terrazzamenti, sorretti da muri a secco, lavorati dai marìtt, gli zappatori, parola che poi diventò un cognome presente anche altrove. Infatti a Casaglia il sentiero che sale in paese dagli orti vicino al Lamone si chiamava via dei Marretti. In più a San Cassiano c'è il Rio Maréda, cioè il fosso della terra zappata. 

 Vicino a Marradi c’è anche un poderino dal nome interessante: la Casètta ed Valmarόla
che significa “casetta in basso (val -)
zappettata (- ola è un diminutivo).

 Valmarόla

Nel fosso di Sant'Adriano ce n'è un altro, con il nome un po' storpiato in Valbarόla, però l'equivoco si chiarisce perché il podere lì accanto è Campadȇn, campettino, e quello dopo ancora è la Casètta ed Valbarόla.
In un paese che viveva di agricoltura è logico trovare dei riferimenti agli attrezzi agricoli antichi. Per esempio il nome Coltriciano di Sopra e di Sotto, due poderi confinanti con Valmaròla, deriva da coltro, un rudimentale tipo di aratro.


Il nome del padrone

Un modo semplice e frequente per denominare un podere o un gruppo di edifici è quello di usare il nome dei proprietari o degli abitanti. Secondo una bella ipotesi del veterinario Francesco Catani questo è il caso di Gamogna, che potrebbe derivare da Cà di Mόng o Cà di Mùgn (i mungitori).
Quale delle due ha maggior credito? Nel nostro romagnolo Mόng raro, si usa più spesso il femminile, Mόnga, e frate si dice Fré. Dunque l'etimologia più probabile è la seconda.

A Ponte di Camurano ci sono due ponti: uno è quello della strada maestra attuale e l'altro, nascosto e più interno, è quello della vecchia Faentina del Settecento.


Attorno a Marradi è un susseguirsi di nomi dati in questo modo: Cà di Carlǒn (dei Carloni), Cà di Gondǒn (dei Gondi),  Cà di Blȇn (dei Bellini), Camurano (o Cammurrana, Cà d'Morèna), Cà d’lira, Cà d’Zénn (di Zeno). Però quest’ultimo nome potrebbe non essere di una persona, per il motivo spiegato qui di seguito.

Il nome di Giano

Zeno, Giano (janus) era la divinità romana dal doppio volto, che poteva guardare di qua e di là. Da noi il nome deformato è tipico delle località che hanno una doppia visuale, su due versanti oppure a destra e a sinistra per largo tratto. E’ così anche in molte altre parti d’Italia, per esempio a Roma il Gianicolo è un colle dove si vede un ampio panorama. Dunque Cà d’Zènn viene forse da Giano e non da Gianni, che nel romagnolo locale si dice Zvàn.


Loiano
Ci sono altri casi: da Loiano (locus janus) si vede la valle del Lamone dal Castellone al castello di San Cassiano, da Luiano si vede la valle di Campigno dallo spartiacque fino quasi a Biforco.  
 
Da Monte Gianni (Mons janus) si vede il fondovalle da Marradi a San Martino e da Beccugiano si gode di una visuale incantevole, così come da Grisigliano, che è lì vicino.


Popolano e San Martino in Gattara visti da Monte Gianni. Gli strumenti sono due corni fatti con la corteccia dei castagni.






Beccugiano (qui accanto) e Grisigliano sono due siti vicino al Passo del Torretto, che porta da Marradi a Modigliana.



Boesimo

I toponimi dei siti
più antichi

La valle del Lamone è stata abitata fin dalla Preistoria da popolazioni umbre di cui si sa poco o niente. Poi ci furono gli insediamenti dei Galli, sospinti nelle vallette laterali dalla conquista dei Romani. Di questi è rimasto il ricordo sbiadito nei nomi Boesimo (dei Galli Boi) e Galliana oltre alla necropoli di San martino in Gattara. Il monte soprastante è il Budrialto, da budrio, voce celtica che indica fossi d'acqua. Appena dopo il confine con Modigliana c'è anche Galligata o Galliata, una bella fattoria nella valle Acerreta e nel fondovalle c'è il Molino di Bedronico, da bedo = canale.

I toponimi bizantini

Dopo la caduta dell’Impero Romano la Romagna fu un dominio bizantino per qualche secolo, ma l’alta valle del Lamone fu occupata ben presto dai Longobardi. Per questo da noi i toponimi bizantini scarseggiano e se ne trova qualcuno solo nella zona di San Martino, dove all’incirca cominciava l’Esarcato di Ravenna. Il nostro destino di marradesi già allora era quello di stare in mezzo, fra la Tuscia e la Romanìa. Da San Zeno, vescovo di Verona nel IV secolo, venerato dai Bizantini vengono i nomi San ZènnMolȇn ed San Zènn, fra San Martino e Marignano. Anche San Martino in Gattara potrebbe essere un toponimo bizantino, perché in greco katarèo significa “vado in giù” e questo è l’unico paese della vallata dove si entra percorrendo una forte discesa. Però l’opinione di gran lunga prevalente è che il nome derivi dal longobardo wahtha che significa “posto di osservazione, di guardia”. In effetti in cima al monte soprastante c’era un castello ancora ben visibile nella carta del 1595 mostrata qui accanto. Dunque anche i Longobardi ci hanno lasciato qualche nome. Nella valle del Senio successe più o meno la stessa cosa, e al confine fra Palazzuolo e Casola cominciano i nomi bizantini, come la chiesa di Sant' Apollinare, o Misileo.

I toponimi Longobardi

Sono longobardi i nomi Monte Maggiore e Val Maggiore che si incontrano spesso e significano “sito alto (mons) e sito basso (val) dei miei antenati (maiòrum)”. Perciò non è detto che un sito “mont” sia in un rilievo più grande di quelli accanto. Sono longobardi anche i nomi Gamberaldi, Marignano, Sermano. Monte Romano merita un discorso a parte perché il nome è la traduzione errata di Mont Ermȃn, che in italiano sarebbe Monte Ermanno. Herman in tedesco significa fratello e quindi il toponimo è longobardo e significa “monte dei miei fratelli”, un riferimento tipico per loro, organizzati in famiglie e clan.


I toponimi con l’equivoco

Certi nomi sono cambiati nei secoli per svariati motivi. Succedeva infatti che a volte i cartografi del Granduca, non conoscendo il romagnolo, scrivevano in modo improprio i nomi chiesti alla gente del posto. Un esempio l'abbiamo visto prima con il nome Valmarόla - Valbarόla. Capitò anche con gli ufficiali cartografi dell’ Istituto geografico Militare quando nel 1928 - 1934 disegnarono le carte IGM in uso anche oggi. 
Altri errori si trovano nella Cartografia tecnica della Regione. Questi equivoci non capitarono solo qui da noi e l’esempio classico ci viene dal Veneto: si racconta che l’ufficiale chiese al contadino: “Come si chiama quella casa laggiù?” e lui gli rispose: ”Somìnga”. Così il cartografo annotò questo nome ma sominga in dialetto veneto vuol dire “non lo so”. Nella nostra zona il caso classico è la traduzione errata di Monte Romano, di cui abbiamo detto prima, ma ce ne sono altri.

 
Il nome del podere Funtȇna quéra, in realtà era“Funtȇna ciéra”, chiara, e infatti nel Catasto Leopoldino del 1830 è scritto Fontana bona, ma fu frainteso nel 1928 dall’ufficiale dell’ IGM e trascritto come Fontana Quara, che non significa niente. Quéra, ciéra, chiara, è anche un podere vicino a Biforco, dove sgorga acqua pulita da diverse sorgentelle che alimentano la fontana del paese. Qui per fortuna il nome venne lasciato in romagnolo e l’equivoco non si verificò.

Un altro caso è il nome del podere Neviglio, al bivio per la fattoria I Cancelli. Nel Catasto Leopoldino c’è il nome esatto, che è El vì (le vie), perché di lì passava la mulattiera Marradi - Palazzuolo. Però il nome romagnolo El vì o Nel vì (nelle vie) fu capito dai cartografi della Regione Toscana come nevoso, nevischio e quindi trascritto come Neviglio.


  
C’è anche qualche caso difficile, come il nome del podere Testiati, parola che in italiano non esiste. Invece il nome romagnolo è chiaro ed è Scié (con la "sc" come in rascé = raschiare), che è il lavoro del fabbro che batte a caldo la lama di una zappa o una vanga e poi la mette nell’ acqua per dargli la tempra. A Testiati c’era un’antica fucina? Può darsi, ma il cartografo del Granduca forse pensò ai testi, cioè alle pietre dove si cuoce la piadina romagnola, che però qui da noi non era un alimento comune. Poi il nome venne riscritto errato dai cartografi dell’IGM, della Regione Toscana e dell' Ufficio delle Imposte. Anche il nome Pian dei Preti, sito in cima a un monte di fronte a Marradi è ambiguo. Qui prima della attuale pineta c’era un campo piano che ancora si vede e forse il nome era Piȃn di Pré (Pian dei Prati) che si confonde facilmente con Piȃn di Prìt. Nella memoria collettiva del paese non c’è nessun episodio relativo ai preti in questo luogo. Dunque questa volta il probabile equivoco fu fatto dai marradesi, perché il toponimo non è cartografato.


20  toponimi da nomi di animali

Baya Vuip (dove abbaia la volpe, sopra S.Adriano), Bovignana (Lutirano), Cà Animalìtt (Biforco), Cà de Bill (il billo nel Mugello è il tacchino), Cà de Feic, Cà d’Gal, Cà de Gatt, Casètta de Top (a Cesata), Casalȇn del Leǒn (S.Adriano), Cavaléra, Mont Clόmb, E Bèc (Il Becco, confine con San Benedetto in Alpe), El Porzlȇn (Le Porcelline, Ponte della Valle), La Clombéra (La Colombaia), La Merléia (Marradi), Prato Cavallo (Campigno), Mont dl'esne, (Monte dell'Asino), Valvidèl (Valvitello), Villa Grilli (Marradi), Vonébbie (Volo del nibbio, Vonibbio).

20  toponimi da piante

 Abeto, Popolano (Populus è il pioppo), Crespino, Albero, Cardeto, Castagneto Guizzo (Lutirano), Figazό (Ficacciolo), Frasinèl (Trebbana), Zerbarόla (Lutirano: asérba = acerba e -ola diminutivo = acerbina), Lischeta e Scheta (seccata, inaridita), Muschìda (Muschieta, Biforco), E guerzì (Il Querceto, Abeto), E tii (Il Tiglio, Biforco), La nùs (La Noce, Campigno), El sόrb e Ortighéra (Le Sorbe e Orticaia, Gamberaldi), Poggio delle margherite (Campigno), Brilleta (Abeto), Pian delle Fagge (oltre Crespino), Zambùg (Sambuco, Badia del Borgo), Val di Mora (Biforco), Val de’ peri (Fantino). In questo gruppo non si può mettere Rio Faggeto, che è una bella villa vicino al torrente Acerreta a circa 450m di quota, perché i faggi vivono dai 700m in su. In nome forse deriva da Cafaggio, parola longobarda che significa "posto recintato, Bandita". Acerreta o Acereta? Si trova scritto più spesso con due erre ma il veterinario Francesco Catani, che abita da sempre nella zona dice che nella valle l'acero è molto più diffuso del cerro.

10  toponimi misteriosi

In certi casi si fa fatica a ipotizzare l’origine di un nome: Bacile (Badia del Borgo), Berlàgo e Buibόla (a Cesata), E Trè (podere vicino a Gamberara), Filètt (Filetto), Monte delle Scarabattole (sopra la Badia del Borgo), Spìdna (Spèdina, Crespino), Piȃn Giaré (Pian degli Arali, oltre Campigno), Pighéra (podere con un famoso castagneto, a Crespino), Vossémole (Badia della Valle). Di certo Pizzafrù (è un podere vicino a Ponte della Valle) batte tutti.

Nella Carta del Catasto Leopoldino del primo Ottocento, qui sopra, Pizzafrù è segnato in una valletta laterale a un chilometro dalla strada per Ponte della Valle, dove in effetti c'è una casupola diroccata, la capàna ed Psafrù. I lutiranesi dicono che la casa giusta è sulla strada e corrisponde a quella che qui è segnata come Mancorti. Dunque il dubbio è doppio: per il nome e per la precisa collocazione.

 
Pizzafrù oggi (o Mancorti, secondo il Catasto del Granduca Leopoldo del 1822).

venerdì 22 febbraio 2019

Maria Angelica Razzi

La sorella sconosciuta
di Silvano e Serafino
ricerca di Claudio Mercatali

Perugia, la basilica di San Domenico

I frati marradesi Silvano e Serafino Razzi vissero nel Cinquecento e di loro ci sono giunti tanti scritti.
Il primo fu priore di Santa Maria degli Angioli e anche di Camaldoli. Era ben introdotto nella vita cittadina di Firenze, amico di Benedetto Varchi, di Giorgio Vasari e di Leonardo Salviati. Suo fratello Serafino era diverso da lui in tutto: predicatore, viaggiatore instancabile e appassionato di musica. Ora però ci interessa la quasi sconosciuta Maria Angelica, loro sorella, suora nel Monastero di Santa Caterina, in Piazza San Marco a Firenze. 




Traduttrice dal latino 

Costei era donna di notevoli abilità in diversi campi, come i suoi fratelli. Conosceva bene il latino e Serafino Razzi ci fa sapere che assieme a lei ha tradotto Taulero in volgare (= in italiano). Chi era Taulero?




Johannes Tauler, frate domenicano teologo e mistico, predicava l’assoluta sottomissione a Dio. Il sunto del suo pensiero è appunto nella traduzione fatta da Serafino e Maria Angelica e per saperne di più bisogna leggerla.



E’ un salto di 500 anni indietro nel tempo, perché la mistica di Taulero è del tutto estranea alla nostra odierna mentalità. Come si usava allora lo scritto espone la tesi sotto forma di dialogo fra un “dotto teologo” e un “poverello co’ i piedi fangosi” che ha trovato la via della verità ...




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Scultrice

La priora del convento di Maria Angelica si chiamava Plautilla Nelli e secondo il Vasari fu la prima pittrice fiorentina. Abile con il pennello e negli affari, assieme ad altre monache aveva creato una vera e propria “bottega artistica” dentro la clausura, e vendeva quadri e sculture a tanti committenti.



Di lei abbiamo di sicuro solo tre quadri: Un Compianto sul Cristo morto, che oggi è al museo San Marco di Firenze, una Pentecoste alla Basilica di San Domenico a Perugia e un’ Ultima Cena, al Refettorio di Santa Maria Novella di Firenze.


Maria Angelica Razzi, oltre a tradurre dal latino realizzava sculture “di terre” ossia di terracotta o gesso nella “bottega” di Plautilla. Ce lo dice ancora una volta Serafino, che la incontrava spesso. Plautilla Nelli nel 1554 dipinse la Pentecoste e la vendette alla Basilica di San Domenico di Perugia assieme a degli arredi per la Cappella della Madonna del Voto, la quarta della navata destra, costruita cento anni prima da Agostino di Duccio.


L'altare della Madonna del Voto


La Madonna con Cristo in grembo che è al centro della lunetta in alto sopra l’altare è un ornamento fatto da Maria Angelica Razzi. Ai lati dell'altare ci sono quattro statue: tre sono attribuite ad artisti del Quattrocento o del primo Cinquecento. La quarta non ha un autore certo, rappresenta un fraticello (forse il beato Nicolò da Giovinazzo, o il giovanissimo fra' Cristiano Ermanni, i due fondatori del convento) ed è possibile che sia di Maria Angelica Razzi. Se è così la suora per fare il volto potrebbe aver preso a riferimento Serafino, il suo amato fratello. Del resto lui stesso, parlando di sua sorella dice che “… realizza somiglianti figure di terra …” .



I tempi sono compatibili con questa ipotesi perché, secondo lo storico don Albino Varotti, Serafino nacque il 13 dicembre 1531 ed entrò in convento a diciotto anni e Plautilla Nelli dipinse la Pentecoste che è nell’altare di fronte nel 1554. Maria Angelica, suora dal 1552, in quegli anni fece la Madonna con Gesù in grembo e forse la statua dell’ altare.

La statua che forse è il ritratto di Serafino Razzi
giovane fraticello è questa.

Ecco quindi che nella famiglia Razzi emerge anche la figura di una donna colta, abile nel fare, che frequentava persone pratiche e attivissime. Sembra proprio che queste qualità fossero nel genoma di famiglia…

Queste suore pittrici e scultrici avevano anche un certo senso dell’ umorismo e il critico Vincenzo Fortunato Marchese (1845) ci dice che:

“ E’ tradizione che suor Plautilla, volendo studiare il nudo per la figura del Compianto sul Cristo morto, si giovasse di quello di una monaca defunta, e le altre suore celiando fossero solite dire che la Nelli in luogo di Cristi faceva Criste”.


domenica 17 febbraio 2019

Le imprese di Alessandro Fabbroni da Marradi

Un capitano impegnato
nella lotta contro i Turchi
ricerca di Claudio Mercatali

  
La famiglia Fabbroni si incontra a ogni piè sospinto nella storia di Marradi, e anche in altre vicende del Granducato di Toscana. Sembra proprio che i vari componenti del casato avessero nel DNA il senso della politica, degli affari e delle occasioni da cogliere.
Ora ci interessano le imprese di Alessandro Fabbroni, cavaliere dell' Ordine di Santo Stefano, al servizio del granduca Cosimo II de' Medici nei primi anni del Seicento.
 


I Cavalieri di questo Ordine erano di collazione granducale, cioè il Granduca li insigniva del distintivo, che era una croce come questa qui accanto, da portare con un nastro rosso al collo, la collazione appunto.

 La Croce di Santo Stefano

 Dagli annali delle imprese dei Cavalieri apprendiamo che Alessandro era un capitano al comando di una flottiglia di sei navi alla caccia dei Turchi e dei pirati algerini. La battaglia navale di Lepanto era stata vinta da poco ed era cominciata la riscossa contro gli Ottomani, che fino ad allora avevano spadroneggiato nel Mediterraneo.

 
Per ottenere dei risultati ancora migliori il Gran Maestro dell'Ordine dei Cavalieri decise che:

... Queste imprese sì segnalate misero in cuore al Gran Maestro di assicurarle, e di accrescerle, con l'aggiungere alla Armata delle Galee una Squadra di sei Navi da guerra sotto la condotta d'Alessandro Fabbroni da Marradi, onorato del titolo di Commissario Generale ...
  
E successe che:


... Con questa Squadra si fecero in Levante  due acquisti memorabili di grand' onore all' armi Toscane, ed insieme di gran vantaggio. Imperrocché il Marradi s'imbatté nella Carovana d' Alessandria, consistente in quarantaquattro Vascelli quadri; e messosi in mezzo, tanti ne prese, che poté porre alla catena mille Schiavi, i quali poi nel ritorno si accrebbero con l'aggiunta di altri centoventi. Con la medesima felicità incontratosi in diciotto Galee Turche, parte ne affondò, parte ne fracassò e tutte le altre rivolse in fuga vergognosa.

Questo non fu l'unico successo del Nostro.  Infatti il capitano, galvanizzato dai risultati ottenuti assalì la base navale di Prevesa, in Grecia, con tanto di sbarco e conquista dei fortilizi. Il resoconto dell' impresa è qui accanto:

 
 

Le imprese di Alessandro Fabbroni gli fruttarono la citazione nel Catalogo de' vascelli presi da' cavalieri di Santo Stefano, una specie di classifica dei bottini di guerra più pingui ottenuti nei primi anni del Seicento ai danni dei Turchi.

 

 

Per questi servigi il Granduca Cosimo III lo nominò comandante della Fortezza Nuova di Livorno, dove passò gli ultimi anni della sua vita.

 
 
 
 


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 Fonte: I Pregi della Toscana nell' imprese più segnalate de' Cavalieri di Santo Stefano.




 

martedì 12 febbraio 2019

Le diramazioni della ferrovia Faentina


1912 La ferrovia
Faenza - Russi
ricerca di Claudio Mercatali



Il regresso ferroviario è la manovra con la quale si stacca una locomotiva e si sostituisce con un’altra dalla parte opposta del treno, per poi ripartire in una linea differente. Per eseguirla servono delle stazioni attrezzate e si dilatano i tempi e i costi. Prima del 1912 i convogli merci partiti dal porto di Ravenna per Firenze dovevano andare a Castelbolognese, fare un primo regresso, e poi a Faenza e farne un altro. Per evitare queste manovre fu costruita una nuova linea ferroviaria da Faenza a Russi, con diramazione a Lugo.

  I lavori cominciarono nel 1912 ma si interruppero durante la Prima Guerra Mondiale e finirono nove anni dopo: la linea fu aperta il 28 agosto 1921 assieme alla tratta per Lugo, che favoriva i convogli provenienti da Faenza e diretti a Ferrara e a Venezia.

Nel 1944 in corrispondenza quasi esatta con la ferrovia c'era la Linea Gotica, estremo baluardo  dei Tedeschi contro gli Alleati. Le belle stazioni di Faenza e Ravenna furono danneggiate al punto che dovettero essere demolite e ricostruite.

 
Fino al 2001 il tratto Russi - Ravenna era in comune con la linea per Castelbolognese. Per snellire il traffico quell' anno entrò in servizio un' altra linea a fianco del  binario esistente. Oggi è elettrificata, ma la diramazione Lugo - Granarolo Faentino è a trazione diesel.
Questa doppia modalità di trazione è uno dei problemi del collegamento Ravenna – Firenze perché la Regione Toscana ha dei locomotori diesel per le linee locali  e la regione Emilia Romagna ha pochi treni diesel perché ha scelto la trazione elettrica. La ferrovia Firenze - Faenza è tutta a trazione diesel fino a Russi e da lì in poi i treni da Faenza per Ravenna vanno a gasolio pur avendo sopra i fili della linea elettrica e sono solo quelli della Regione Toscana. Così vanno le cose in Italia.


Il settimanale faentino Il Lamone commentò così la concessione governativa per l'inizio dei lavori, nel luglio 1912.



 

Il settimanale faentino L'Idea Popolare (era il nome dell' attuale settimanale Il Piccolo) mandò un inviato il giorno dell' inaugurazione, che descrisse così le cerimonie:

 
 
... A Granarolo indimenticabile accoglienza ...

... Parla commosso il Sindaco dott. Antonio Zacchini il quale pronunzia uno dei suoi soliti splendidi discorsi. E' vivamente applaudito con grida di: Evviva Zacchini! Evviva il sindaco di Faenza ...

 
 
... arriviamo a Faenza in orario e di nuovo viene offerto un rinfresco ...
 
 
 
 
 
 

mercoledì 6 febbraio 2019

1886 I Circoli di Marradi


Apre l’elegante Circolo dei signori e anche il popolare
Circolo dell’Unione
ricerca di Claudio Mercatali
 
 

 



Il 31 gennaio 1886 ci fu gran festa al Teatro Ani­mosi, perché aprì il cosiddetto Circolo Marradese, più noto come Circolo dei Signori. Il clima era da Bèlle Epòque, con il buffèt alla mitica sala Mo­kambo, con arredi eleganti e anche servizio al tavolo.
Dopo gli immancabili discorsi inaugurali venne fatta una ricca tombola e poi iniziarono le danze. L’allegria regnò sovrana per tutta la sera, nella sala da ballo e nelle vicine sale da gioco. Le signore del paese erano presenti quasi tutte, con i vestiti migliori. Il cronista dice che:

 
 
 
… insomma c’era "la fine fleur" delle nostre gentili compaesane e forestiere, in elegantissime toilettes, e piene di grazia e di brio. Tutto riuscì animatissimo; i ballerini e le ballerine furono instancabili e seguitarono fino alle tre ... ".
Il Circolo continuò per tanti anni a organizzare feste e spettacoli teatrali, ai quali potevano assistere tutti, naturalmente con un abbigliamento cònsono.
L’inaugurazione fu preparata con cura, perché era un evento. Qui accanto c’è il resoconto della se­rata fatto dal giornale Il Messaggero del Mugello, che pubblicò l’articolo di un marradese che si firma con lo pseudonimo “Lamone” e che era fra i presenti.

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L’11 febbraio 1886 aprì anche il circolo dell’ Unione Operaia, che forse aveva sede in via Pescetti, di fronte alla casa di Dino Campana.
Qui l’ambiente era del tutto diverso. Già il nome lascia intendere che i soci erano operai o gente comune, spesso socialisti o comunque un po’ alternativi rispetto alla mentalità prevalente fra i signori.
Anche questo circolo fece pubblicare un articolo sulla stampa locale, di un cronista che si firmava Gavròche, cioè “monello, birichino” nel linguaggio francese popolare, e che era un marra­dese di cui non si sa il nome.

Era di certo una persona di cultura, con una prosa agile e frizzante e anche il suo pseudonimo ha un riferimento letterario, perché Gavròche è un personaggio dei Miserabili di Victor Hugo. La polemica con il Circolo dei Signori è evidente:

“…all’inaugurazione del circolo… v’intervennero tutti i soci e parecchie donne del popolo. Non avevano bellezze evanescenti, delicate e diafane, ma il fior fiore delle donne del popolo, belle nei loro occhioni profondi …”

Gavròche dice che i discorsi non son frutti di stagione (siamo nel feb­braio 1886): 

“…ne faremo o ne faranno nella prossima sta­gione elettorale a maggio, quando fiorisce il melo e il ciuco raglia …”.

Come andarono le elezioni politiche del 1886? La Sinistra Storica fu riconfermata al Governo e divenne primo ministro per la settima volta Agostino Depretis. Nel Mugello fu eletto deputato il marchese Filippo Torreggiani, un liberale abbastanza gradito alla gente comune, ma di certo non socialista, e quindi Gavròche forse sarà rimasto poco soddisfatto ...