delle Domenicane di Marradi
di Claudio
Mercatali
Il monastero nell' '800, con i suoi giardini interni, secondo la ricostruzione di V.Mercatali
Il Monastero delle suore Domenicane di Marradi è antico. Fu
fondato nel novembre del 1575. Lo studioso Carlo Mazzotti, in un suo libro dice
che:
“La fabbrica del convento fu intrapresa a
spese della Comunità di Marradi cedendovi le rendite dei mulini per alcuni anni”
ma fu finanziata anche dagli immancabili Fabroni. Come si manteneva un
monastero, visto che nessuno lavorava?
Chiese e conventi si sono sempre mantenuti con le rendite
agrarie dei loro poderi. In più c’erano le elemosine, i lasciti e le eredità.
Nel corso dei secoli spesso la proprietà si ingrandiva e pagava poche tasse.
Nel caso dei Monasteri femminili, come questo di Marradi, un buon introito
veniva anche dalle “vestizioni” ossia dalla dote che le famiglie lasciavano al
momento in cui una figlia si faceva suora. Questo è un punto delicato, perché
spesso non si riusciva a capire se la vocazione monacale fosse autentica o
indotta dalla famiglia per non dividere il patrimonio, come ci insegna il
Manzoni nei Promessi Sposi. Lo studioso Carlo Mazzotti ci dice che nel 1655 il
monastero di Marradi stentava ad andare avanti, per miseria, e allora:
“… in cagione di
queste misere condizioni le Monache inviarono un memoriale alla Congregazione
dei Vescovi supplicando che fosse loro concessa la licenza di poter accettare
come monache soprannumerarie Elisabetta Bassani di Francesco e Lucia Bassani di
Baldino, cugine, che non erano di Marradi. Questo tornava utile perché le nuove
suore di Marradi pagavano mille e ottocento lire per la vestizione, mentre
queste due estranee portavano tremila lire”.
Quali erano le proprietà del Convento delle Domenicane?
Qui sopra c’è l’elenco dei poderi delle monache, nel 1655, che è cambiato nel
corso dei secoli a seguito di tante vicende.
La rendita agraria è la stima di quanto si può ricavare
mediamente da un podere. Non è un valore preciso, ma un estimo, più o meno
raffinato a seconda del numero dei raccolti che si usano per definirlo. Nel
caso dei Monasteri la resa agraria media era quasi sempre calcolata su un gran
numero di anni, perché queste proprietà rimanevano agli Enti ecclesiastici
anche per dei secoli. Perciò si può ritenere che i conteggi qui sopra siano
attendibili. La quota padronale della rendita, ossia la parte di raccolto che
spettava al padrone, di solito era il 50% del totale.
Insomma le suore
erano ricche o no? Vediamo.
Ogni anno spettavano al Convento 63 some di castagne, ossia
82 quintali e 2175 libbre di carne di maiale, cioè 761 Kg. C’erano anche 114
corbe di grano, che sarebbero circa 41 quintali. Dalle pecore e le capre
arrivava il latte e dalla vendita dei bovini, quando c’era, qualche altro
soldo. Probabilmente si ricavava qualcosa anche dalla vendita delle biade,
dell’uva e delle foglie di gelso, ma non molto perché i poderi elencati qui
sopra sono poco adatti per i foraggi e la vigna.
Nel 1648 le monache erano 34,
di cui 29 corali e 5 converse; però vi era posto per 36 monache. Con questi
dati si possono fare diversi conti, tutti un po’ impropri a dire il vero, però
utili per avere un’idea delle quantità. Qui sotto c’è un conteggio da cui
risulta che ogni suora poteva contare mediamente ogni giorno su sei o sette
etti di castagne, mezz’etto di carne e circa tre etti di pane.
Quantità annua totale Al giorno (diviso 365) A persona (diviso 34)
82 q di marroni 22,46 Kg 6,6 etti
761 Kg di carne 2,08 Kg 0,6 etti
41 q di grano 11,23 Kg 3,3 etti
Quindi in questa clausura si faceva una vita abbastanza
grama. E i soldi? Dai poderi si ricavava poco, e poco altro si poteva ottenere
dalle elemosine. Non sembra che i Signori del paese fossero particolarmente
munìfici e anzi, all’occorrenza, bussavano alla porta del convento per farsi
prestare dei soldi.
Marradi visto da Giugòla
(qui accanto)
e da S.Bruceto (sotto)
Da antichi documenti sappiamo che il convento nel 1655
vantava crediti verso Federico Fabroni per 500 lire e verso Cesare Fabroni per
740 lire. La vera rendita “finanziaria” veniva dai Legati di Messe e dai
lasciti con obblighi testamentari.
Cioè spesso i benestanti lasciavano al
Convento una certa somma annua (il Legato) purché venisse detto un certo numero
di messe in loro ricordo. Queste funzioni avvenivano soprattutto negli altari
laterali, dedicati ai santi. Così per esempio nell’altare di S.Antonio Abate le
suore avevano l’obbligo di far dire messa ogni mattina per i soliti Fabroni e
alla Cappella del SS. Crocifisso c’era l’obbligo permanente di quattro messe
alla settimana in memoria dell’avv. Giovanni Tamburini.
Altri obblighi di
questo tipo, tutti a pagamento, erano per la famiglia Gondi e Castelli. Tutto
ciò era scritto in veri e propri contratti firmati di fronte ad un notaio.
Insomma nella chiesa delle suore si diceva messa anche due o tre volte al
giorno, per gli obblighi del calendario liturgico e per molti altri motivi. A
complicare ancor più le cose c’è il fatto che, siccome le monache non possono
dire messa, tutte queste funzioni spettavano all’Arciprete, che aveva sul
Monastero i cosiddetti diritti parrocchiali, ossia riscuoteva un tanto a messa.
S.Domenico (sul lato destro della chiesa)
Nonostante ciò le suore vissero quasi sempre in
ristrettezze finanziarie, fino ai primi decenni dell’Ottocento. Poi le cose
migliorarono, perché nel 1817 ottennero dal vescovo di Faenza una liberatoria
dai diritti parrocchiali e poi, nel 1820, ereditarono i beni e gli arredi del
soppresso monastero di Tredozio. Infine nel 1830 – 1840 ottennero anche le
proprietà dei Frati della Badia di Susinana, dopo la chiusura di quel cenobio.
Con queste entrate straordinarie nel 1838 fu costruita ex novo la chiesa
attuale, la cosiddetta "gisa del mong".