sabato 12 marzo 2011

1861 L'Unità d'Italia


Il discorso del Re
alla prima seduta del Parlamento
ricerca di Claudio Mercatali



Gli eventi accaduti in Italia alla metà dell’Ottocento furono frenetici e entusiasmanti: nel 1859 l’impero Austro Ungarico fu sconfitto con la Seconda Guerra di Indipendenza e l’Emilia e la Toscana votarono l’adesione alla monarchia sabauda. L’anno dopo Garibaldi demolì il Regno delle Due Sicilie e perciò nel 1861 si compì finalmente la sospirata Unità. Il 18 febbraio del 1861 si riunì per la prima volta il Parlamento della nuova Italia, a Torino, perché a Roma c’era ancora il Governo Pontificio. La seduta fu memorabile e viene descritta così nei manifesti dell’epoca:

“Alle 11 antimeridi
ane le LL. AA. RR. (loro altezze reali) il Principe di Piemonte e il Duca d’Aosta e poco dopo Sua Maestà, fanno ingresso nella nuova aula della Camera in mezzo alle più entusiastiche acclamazioni dei signori Senatori e Deputati e di un concorso grandissimo di persone e alle grida di: viva il Re d’Italia i Senatori e i Deputati prestano giuramento. S.M. con voce vibrata e somma, pronuncia questo discorso:

Signori Senatori! Signori Deputati! Libera ed unita quasi tutta per mirabile aiuto della Divina Provvidenza, per concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore degli eserciti, l’Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra. A voi si appartiene il darle istituti comuni e stabile assetto. Nello attribuire le maggiori libertà amministrative a popoli che ebbero consuetudini ed ordini diversi, veglierete perché l’unità politica, sospiro di tanti secoli, non possa mai essere menomata
(Bravo! Bravissimo!). L’opinione delle genti civili ci è propizia; ci sono propizi gli equi e liberali principii che vanno prevalendo nei consigli d’Europa. L’Italia diventerà per essa una guarentigia d’ordine e di pace, e ritornerà efficace strumento della civiltà universale (Vivi applausi). L’imperatore dei francesi, mantenendo ferma la massima del non intervento a noi sommamente benefica, stimò tuttavia di richiamare il suo inviato. Se questo fatto ci fu cagione di rammarico, esso non alterò i sentimenti della gratitudine, né la fiducia nel suo affetto alla causa italiana (Vivi applausi). La Francia e l’Italia che ebbero comune la stirpe, le tradizioni, il costume, strinsero sui campi di Magenta e di Solferino un nodo che sarà indissolubile (Vivissimi applausi).
Il Re Vittorio Emanuele II di Savoia

Il Governo ed il popolo d’Inghilterra, patria antica della libertà, affermarono altamente il nostro diritto ad essere arbitri delle proprie sorti, e ci furono larghi di confortevoli uffici, dei quali durerà imperitura la riconoscente
memoria (Applausi prolungati). Salito sul trono di Prussia un leale ed illustre Principe, gli mandai un ambasciatore a segno di onoranza verso di lui e di simpatia verso la nobile nazione germanica, la quale, io spero, verrà sempre più nella persuasione che l’Italia, costituita nella sua unità naturale, non può offendere i diritti, né gli interessi delle altre nazioni. Signori Senatori, Signori Deputati! Io son certo che vi farete solleciti a fornire al mio Governo i modi di compiere gli armamenti di terra e di mare (Bravo! Bene). Cosi il Regno d’Italia posto in condizione di non temere offesa, troverà più facilmente nella coscienza delle proprie forze la ragion dell’ opportuna prudenza. Altra volta la mia parola suonò ardimentosa, essendo savio così lo osare a tempo, come lo attendere a tempo (Applausi). Devoto all’Italia, non ho mai esitato a porre a cimento la vita e la Corona; ma nissuno ha diritto di cimentare la vita e le sorti d’una nazione (Vivissimi segni d’assenso). Dopo molte segnalate vittorie, l’esercito italiano, crescente ogni giorno in fama, conseguiva nuovo titolo di gloria espugnando una fortezza delle più formidabili (Applausi). Mi consolo nel pensiero che la si chiudeva per sempre la serie dolorosa dei nostri conflitti civili (Vivissimi segni d’assenso). L’armata navale ha dimostrato nelle acque di Ancona e di Gaeta che rivivono in Italia i marinari di Pisa, di Genova e di Venezia (Applausi). Una valente gioventù, condotta da un Capitano che riempi del suo nome le più lontane contrade, fece manifesto che né la servitù, né le lunghe sventure valsero a snervare la fibra dei popoli italiani. Questi fatti hanno inspirato alla nazione una grande confidenza nei propri destini. Mi compiaccio di manifestare al primo Parlamento d’Italia la gioia che ne sente il mio animo di Re e di Soldato (Salve unanime e fragorosissima di prolungati applausi)”.
S.M. per bo
cca del Ministro dell’Interno dichiara aperta la prima sessione parlamentare per l’anno 1861. Nuovi e calorosi applausi ed evviva al Re d’Italia echeggiano nella sala all’uscita di Sua Maestà e delle LL.AA.RR. L’adunanza si scioglie alle undici e tre quarti.
Qui accanto, Palazzo Carignano, a Torino, che fu la prima sede del parlamento del Regno.

La “marcia reale” fu scritta nel 1831 in onore di Carlo Alberto. Dal 1860 al 1946 fu l’Inno d’Italia, poi venne sostituito con l’ Inno di Mameli:
… Viva il Re, viva il Re, viva il Re
le trombe liete squillano
viva il Re, viva il Re, viva il Re
con esse i canti echeggiano …

chi vuole sapere il seguito può digitare “Marcia Reale” su Internet e sentirà una musichina delicata, non sgradevole …

Però al compimento dell’Unità mancava Roma come capitale e questo fatto non poteva passare sotto silenzio e quindi il Conte di Cavour, il 25 marzo 1861 pronunciò questo discorso alla Camera dei Deputati:

“La scelta della capitale è determinata da grandi ragioni morali. È il sentimento dei popoli che decide le questioni ad essa relative. Ora, o signori, in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali, tutta la storia di Roma, dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi, è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande stato
. Convinto, profondamente convinto, di questa verità, io mi credo in obbligo di proclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione, e mi tengo in obbligo di fare in questa circostanza appello al patriottismo di tutti i cittadini d’Italia e dei rappresentanti delle più illustri delle sue città, onde cessi ogni discussione in proposito, affinché noi possiamo dichiarare all’Europa, affinché chi ha l’onore di rappresentare questo paese a fronte alle potenze estere, possa dire: la necessità di avere Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intera nazione”. La libertà della Chiesa … “Ho detto, o signori, e affermo ancora una volta che Roma, Roma sola, deve essere la capitale d’Italia. Ma qui cominciano le difficoltà della risposta all’onorevole interpellante, (Profondo silenzio).
Camillo Benso, conte di Cavour

Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni, noi dobbiamo andarvi di concerto con la Francia, inoltre senza che la riunione di questa città al resto d’Italia possa essere interpretata dai cattolici, in Italia e fuori, come il segnale della servitù della Chiesa. Noi dobbiamo, cioè, andare a Roma, senza che per ciò l’indipendenza vera del Pontefice venga a menomarsi. Noi dobbiamo andare a Roma senza che l’autorità civile estenda il suo potere sull’ordine spirituale. Ecco le due condizioni che debbono verificarsi perché noi possiamo andare a Roma senza mettere in pericolo le sorti d’Italia”.

(Tratto dal discorso pronunziato al Parlamento il 25 marzo 1861
per Roma capitale d’Italia).

La proclamazione Il 17 marzo 1861 il Re e Cavour firmarono la legge che proclamava il Regno d’Italia:

Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, ecc, ecc, ecc, .... Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato;
Noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue:
Articolo unico. Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli Atti del governo mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.

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