domenica 30 dicembre 2012

Lino Fabbri racconta ...




La vita negli anni ’30
alle Fontanacce,un podere dell’alto Appennino Marradese
di Giuseppe Gurioli e Giuseppe Meucci




Questo racconto è tratto dal libro "La nostra piccola valle dell'Eden"


Capitolo 4        LA VITA IN CASA

La cucina
L’abitazione si trovava al primo piano del fabbricato. Si entrava dal lato a monte, passando sotto un arco del lungo porticato che proteggeva quella parete e si arrivava in una stanza non molto grande che serviva da ingresso. Da questa stanza si poteva andare nella “capanna” del fieno che era accanto a destra, si poteva scendere nella stalla delle vacche sottostante o anche nella caciaia, nella cantina o nel pollaio che erano nel seminterrato sotto il porticato, mentre per andare nella stalla delle pecore bisognava uscire fuori. Dall’ingresso si entrava, naturalmente, anche nella grande cucina, la stanza più importante della casa, e nelle diverse camere che erano tutte al primo piano; poi dalla cucina si saliva nel sotto tetto.
In mezzo alla cucina c'era un grosso pilastro fatto di pietre, sarà stato cinquanta centimetri per cinquanta, che partiva dal sottostante piano della stalla delle pecore per andare a sostenere due travi del grande tetto di lastre della casa. Quando ballavano durante le veglie ci giravano intorno.
Nella cucina c’era un grande camino; come in tutte le case dei contadini, nel camino era sempre presente una grossa caldaia per cuocere fagioli, patate (chi non ricorda la caldaia piena di patate per i maiali, coperta da un sacco di iuta… bolliva, bolliva, fintanto che le patate non si cuocevano, e i ragazzi alzavano il sacco e le mangiavano). Così cuocevano fagioli, ciderchie e altri legumi per gli animali. Oppure la caldaia era piena di acqua da riscaldare per fare pastoni di farina di orzo o avena per gli animali. Una caldaia più piccola serviva per cuocere la polenta gialla o quella di castagne. Il paiolo era sempre sul fuoco per fare formaggio, ricotta o raviggiolo.
Non c’era stufa, ma dei fornelli di mattoni per mettere i tegami a cuocere sulla brace. In un primo tempo era in cucina anche il forno a legna per cuocere il pane – venivano delle forme di un chilo o un chilo e mezzo, in tutto quindici chili alla volta che si conservavano nella cantina – qualche arrosto e la ciambella; poi il forno fu rifatto fuori del fabbricato.
C’era l’acquaio di pietra; non c’era acqua in casa né tanto meno nella stalla, però era vicina: poco sotto casa c’erano il torrente e due fontane, una per bere e l’altra per le bestie.
In fondo alla parete del camino una scala di legno portava nella camera dove dormivano i bambini piccoli con gli zii  non sposati (zioni o zittelloni). Un’altra scala, sempre di legno, portava nel camerone (o soffitta) usato nel periodo estivo per dare da dormire ai braccianti agricoli, che erano numerosi.



Le Cortecce



Il mangiare
Quando sedevano a tavola, a capotavola c’era lo sdor, il più anziano, che aveva la responsabilità di dirigere l’azienda, almeno per la parte dei contadini; in casa però comandava la donna più anziana, la zdora. Ai genitori si dava sempre del voi.
Ecco cosa si mangiava:
Colazione: polenta gialla con raviggiolo, o polenta dolce con ricotta, ma prevaleva la prima perché il castagno a quelle altitudini non c’era e quindi la farina dolce andava comprata.
Pranzo: minestra in brodo di pollo con pasta di spoglia fatta in casa (la pasta non si comprava); pasta e fagioli; pasta asciutta, sempre di spoglia, condita con funghi, o rigaglie di pollo, o formaggio di pecora grattugiata; burro non ce n’era. Pollo lesso, arrosto o in umido con contorno di patate o fagioli. Qualche coniglio, qualche agnello o capretto di straforo; nessuna forma di selvaggina, dato che non si cacciava soprattutto per mancanza di tempo. Non c’era usanza di mangiare il pesce, a parte il baccalà e l’aringa.
Cena, alle sei: polenta, patate stufate, frittate e poco altro. Non c’era grande varietà di verdure: l’orto si faceva, ma poco. Prima di andare a letto: una tazza di latte.
L’uso del vino non era consueto, dato che anche questo andava comprato; capitava quindi che le rare volte che il contadino scendeva in paese per il mercato o per la fiera, quando passava dall’osteria si ubriacasse dopo pochi bicchieri perché disabituato al vino. Il vino usava solo al tempo dei lavori estivi, quando la famiglia mezzadrile teneva braccianti a opera, che erano in tutto a suo carico. Lo stesso valeva per i salumi, che venivano dal maiale allevato nel podere, e che andava risparmiato (ne toccava mezzo al contadino per le persone della famiglia, più gli operai che venivano per i lavori del fieno e del grano, anche 10-15 alla volta per molti giorni). La salsiccia si manteneva nell’olio di oliva: la famiglia Fabbri se lo permetteva perché in Maremma avevano parenti che li rifornivano di olio in cambio di formaggio o altro. Il salame si conservava nella cenere.



Le Fontanacce



I funghi (i porcini) venivano fritti in padella o seccati per i sughi. Si raccoglievano anche prugnoli per mangiare, non per vendere; non si vendeva quasi nulla, anche perché il paese era distante. Per frutta, alle Fontanacce c’erano: pere giugne, selvatiche, i frutti di un ciliegio domestico e di ciliegi selvatici. Si preparavano le percadè, pere selvatiche raccolte e scottate (cioè appena appassite) nel forno dopo tolto il pane e mangiate: venivano dolci come l’uva passa. Usava anche metterle in dei sacchetti e mangiarle nell’inverno. Questa operazione si faceva fino a che le pere selvatiche reggevano sull’albero; non erano buone da conservare da verdi perché marcivano.
Per dolce si faceva la brazadela. Al posto del caffè si usava l’orzo, o anche il grano, tostato e macinato: veniva fuori un biberone.

Altri aspetti della vita quotidiana
Nelle campagne, gli uomini si facevano sia la barba che i capelli con la solita macchinetta. Questo perché la lama del rasoio era particolarmente delicata e arrotarla era difficile, quindi molti avevano baffi e barba lunga tagliati anche con le forbici. I bambini venivano tosati a zero; alle bambine si spuntavano i capelli in casa. Per lavarsi, le donne usavano la saponetta.
Per la lavatura di lenzuoli, tovaglie e altra biancheria di casa il procedimento era quello della conca con ranno (cenere), andato avanti anche fin dopo gli anni cinquanta. Indumenti intimi, camicie o altro venivano lavati a parte. Molti tessuti, come quelli di lenzuoli e asciugamani, erano di canapa e a Marradi nei pressi di S. Adriano c’era la gualtiera (o valchiera) che serviva per trattare la canapa. Non c’era gabinetto. Per i bisogni più semplici si ricorreva all’orinale, soprattutto da parte degli anziani: alla mattina veniva vuotato dalla finestra. I bisogni più grossi venivano soddisfatti fuori casa se il tempo lo permetteva, sennò nella stalla. C’era anche chi dormiva nella stalla: il bovaro, un uomo non sposato (uno zitellone)



Il tabernacolo



Le cure per i malanni consistevano in decotti di camomilla o malva; applicazioni di mattoni caldi o impacchi di crusca; caligine (fuliggine) da respirare. “Mela cotta, merda fatta” insegnava un detto, scurrile ma facile da ricordare in caso di difficoltà. Quando una parente partoriva i contadini la andavano a trovare portando in regalo una gallina vecchia, pelata. “Fa buon brodo”, si diceva, e il brodo era ritenuto salutare per la partoriente. Il regalo si contraccambiava alla prima occasione.
La sera si diceva il rosario. La casa veniva illuminata con lampade a petrolio o a carburo, candele, lanterne a spirito o benzina. Anche per lavorare nella stalla, per governare le bestie o quando partoriva una vacca, si adoperava la lanterna a petrolio o le candele. A volte era possibile procurarsi per bruciare qualche tronco intero, che veniva portato a casa a strascico dai buoi; poi messo intero nel camino, senza segare (la fatica l’abbiamo fatta…). Lo facevano scorrere via via che bruciava e i bambini la sera ci stavano a cavallo sopra.

I bambini
I bambini più piccoli dormivano con gli zioni in una camera dove si arrivava salendo una piccola scala di legno che partiva dalla cucina. Questa stanza aveva una finestra che guardava verso Pian Baruzzoli, senza telaio né vetri: in inverno, per ripararsi dal freddo, questa apertura veniva chiusa con delle tavole e imboiacata con la cacca fresca delle vacche, con aggiunta di acqua. La boiaca si seccava e faceva funzione di isolamento, però la stanza rimaneva al buio e all’alba la sveglia era il canto del gallo. La finestra si riapriva in primavera.

Gli zoccoli fatti in casa


Ai bambini la Befana portava caramelle, marroni cotti, carbone, mandarini, noccioline, noci. I giochi erano: un cariolo per i maschi, una bambola per le bimbe; ma di tempo per giocare ce n’era poco. I bambini nelle campagne non andavano all’asilo, né tanto meno a scuola. Non avevano, i più, la balia, il pediatra, il medico. Se campavano, bene; altrimenti nel cimitero c’era il posto per gli angelini. Nel podere, dopo smoccolati servivano ed avevano ognuno una funzione: c’era un vero e proprio sfruttamento minorile. Che fino al secondo dopoguerra nelle campagne fossero tutti più o meno analfabeti, questo si sapeva: il contadino i figli a scuola non li poteva mandare, anche perché il proprietario pretendeva il suo reddito. Poveri, analfabeti e in debito coi padroni: questa era la condizione normale dei contadini.



 La valle del fosso
del Lavane



L’inverno
Lavori che si facevano durante l’inverno: il governo degli animali, la stalla, la sistemazione del letame (il letame ben ammucchiato e stagionato veniva tagliato a fette con la tagliola). Quando nevicava, c’era da fare la rotta (cioè aprire un passaggio nella neve) per l’abbeveratoio che alle Fontanacce era vicino a casa, ma anche per i pagliai del fieno e della paglia. Questi venivano tagliati con la tagliola e messi nelle ghébe, delle ceste grandi di vimini, fatte artigianalmente da qualche vicino, e portate sulla schiena nella stalla. La foglia veniva data alle bestie così come la paglia, per alimento. La paglia aveva poca sostanza, ma l’inverno era lungo particolarmente in montagna e le scorte erano poche, e questi materiali servivano per la masticazione e per riempire lo stomaco del bestiame.
Bisognava anche pensare alla legna da ardere: quando nevicava i contadini approfittavano per fare un po’ di scorta di legna verde. Nelle case fredde di campagna usava riscaldare il letto col prete e lo scaldino. Sul comodino si teneva una candela con fiammifero pronto per l’uso; nello sportello sottostante, l’orinale che la mattina si vuotava dalla finestra. I vecchi si mettevano in testa una papalina di lana e calzettoni ai piedi. I vetri delle finestre erano ghiacciati.
Nel 1933, il 21 febbraio, partorì la mamma di Fabbri. Nevicava forte, non c’era tempo da perdere. A Pian Baruzzoli c’era una donna anziana che si difendeva a far da balia; bisognava andarla a prendere, altrimenti si doveva andare a San Benedetto o a Marradi, molto più lontano. Portarono la balia sotto braccio perché non era in grado di camminare dalla neve che c’era: la traccia che avevano fatto per andare, al ritorno era tutta coperta. Nacque una bella femmina, di nome Eva.

Aggiungiamo questa nota al testo:
A Marradi nevicava spesso, soprattutto sui monti. Parlando della neve, si chiedeva: “Quanta niv sel fat?” Allora, secondo la quantità, la risposta poteva essere:
La fa la traza (fa la traccia), ognè meza scherpa (ce n’è mezza scarpa), l’ariva a e znoc (arriva al ginocchio), l’è ona forcatura (arriva al cavallo dei pantaloni), l’ariva a la zintura (arriva alla cintura), l’è elta com un om (è alta come un uomo).



Il monte Pollaio

Mentre “la nev l’è srena” (la neve è serena), quando brilla ed è ghiacciata in modo uniforme, con sfumature celestine.
Anche quando non nevica, in inverno si assiste a fenomeni comuni come la galaverna e lo svidrio:
La galaverna è ghiaccio che si deposita in forma di aghetti leggeri, sugli oggetti come i rami degli alberi quando l’aria è molto umida, la temperatura scende sotto zero e c’è vento. La galaverna è preceduta da dense nebbie e si deposita nelle parti degli oggetti sottovento, formando splendidi “fiori” bianchi sugli alberi spogli.
Svidrio è chiamato invece il ghiaccio che si forma quando la temperatura si abbassa sotto zero dopo la pioggia. Allora l’acqua gela a terra o sugli alberi, formando ghiaccio compatto.
Parlando di maltempo in generale, c’era il detto “Nebbia ti mont a spentacc, acqua a sagat” (Nebbia allargata sui monti, pioggia in quantità. Detto di Teresina Vinci, Podere Colombaia).





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