sabato 30 ottobre 2021

1920 Il disastro ferroviario di Ronta

L'incidente più grave avvenuto nella Faentina
ricerca di Claudio Mercatali



Il Poggio e il Ponte di Caino






Nel febbraio 1920 avvenne un grave incidente ferroviario sulla Ferrovia Faentina. Un treno merci proveniente da Marradi e diretto a Firenze, deragliò subito dopo la stazione di Ronta nel tratto di ferrovia sopra al Poggio, al cosiddetto Ponte di Caino. La locomotiva uscita dai binari precipitò nei campi sottostanti. Il motivo del disastro non fu chiarito ma forse la linea era rimasta danneggiata dal terremoto del luglio 1919 e gli addetti alla manutenzione non si erano accorti dei binari deboli o difettosi.



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domenica 24 ottobre 2021

Il Castellone di Marradi

Tanti secoli di storia ricca di episodi
ricerca di Claudio Mercatali



La storia del castello di Marradi, il Castellone, è stata scritta e riscritta e ora basterà un breve riassunto. Il fortilizio venne edificato nei secoli bui prima dell’anno Mille e non si sa da chi. Forse fu opera di qualche clan di Longobardi, per difendersi dai Bizantini della bassa valle, o forse fu edificato da qualche signorotto locale, per difendersi dai suoi pari o dai suoi contadini, tartassati come d’uso allora e quindi pronti a vendicarsi alla prima occasione.



Uno dei primi documenti certi è una bolla del papa Lucio III del 1183 che assegna il castello e la chiesa di Cardeto all'Abbazia di Crespino. Nel 1208 apparteneva a Pietro Pagano di Susinana che aveva rapporti di affari con i frati della Badia del Borgo. Questo non deve sorprendere perché le badie vallombrosane erano un centro di preghiera ma anche un ricco centro di potere. 




Dopo qualche anno passò sotto il controllo del conte Guido Novello di Modigliana, che agiva in nome e per conto dei monaci della Badia. Però costui doveva essere abbastanza autoritario e rapace, perché ad un certo punto i frati per toglierlo di mezzo offrirono le loro terre in accomandigia alla Repubblica di Firenze, che nel 1258 fece la prima comparsa nella valle del Lamone. La presenza dei Fiorentini non fu costante e sul finire del Duecento tutto il territorio di Marradi passò sotto il controllo di Maghinardo Pagani da Susinana.





Nel 1302 il maniero passò in eredità ad altri Pagani che dopo poco lo vendettero al conte Ruggero dei Guidi di Dovadola. Dopo di lui cominciò il periodo di governo della famiglia Manfredi, parente e antagonista della omonima stirpe faentina. E’ il periodo d’oro del Castellone, prima con il crudele Giovanni Manfredi, poi con suo figlio, il diplomatico Amerigo e infine con Ludovico, lo spavaldo e imprudente signore che nel 1428 finì imprigionato nel carcere delle Stinche, a Firenze.


Nel Quattrocento la Signoria estese il suo dominio in tutta la Romagna Toscana, e prese possesso di quattordici comuni, dalla nostra zona fino a San Piero in Bagno, vicino alla provincia di Arezzo. Il Castellone divenne un fortilizio di frontiera, a protezione del Mugello, ma perse di importanza finché nel Cinquecento venne demolito.



La demolizione di questa e di altre rocche sull’ appennino fiorentino era anche un atto simbolico che segnava il passaggio ad un’altra forma di governo: doveva essere chiaro a tutti che la Città governava dal Palazzo Pretorio al centro di ogni paese e non dai castellari sparsi sui cocuzzoli.



La storia di questo castello è ricca di vicende, di assedi, di pretese e di avventure. Questo qui accanto è uno studio del 1883  dello storico Achille Lega, che divaga un po’ nel suo racconto ma è piacevole da leggere.







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Per approfondire
Il Castellone, la storia , di Fulvia Rivola, il consolidamento statico, Marco Cappelli e Paolo Scalini. Edizioni Polistampa 2002
Blog della biblioteca ai tematici Storia del Trecento e Storia del Quattrocento 


lunedì 18 ottobre 2021

Una lezione di poesia da Dino Campana

Come nacque la poesia
"La sera di fiera"
ricerca di Claudio Mercatali  


Federico Ravagli (Bagnacavallo, 1889 – Bologna, 1968) è stato un importante studioso di Dino Campana. Lo conobbe personalmente ai tempi dell'Università a Bologna (1912) gli fu sincero amico e ne apprezzò con altrettanta sincerità la poetica. Non è poco, perché Campana ebbe estimatori ed amici soprattutto dopo la morte. In più Ravagli parla schietto e chiaramente, da buon romagnolo ed è piacevole da leggere. La cugina del poeta, Maria Soldaini Campana e il fratello Manlio gli consegnarono a più riprese degli inediti campaniani, che studiò con cura e furono pubblicati postumi dalla figlia nel 1972 nel cosiddetto Fascicolo Marradese inedito, della editrice Giunti Marzocco di Firenze. 

Ecco qui di seguito una analisi di Ravagli sul manoscritto della poesia La sera di fiera. Come nasce una poesia? A volte è un atto d'impulso, ma spesso è frutto di mille ripensamenti. Il nostro poeta non fa certo eccezione e scrive di getto ma poi rielabora tante volte. Leggiamo:

Dalle ultime pagine del "Fascicolo marradese" di Ravagli

...Questa quattordicesima pagina non ha titolo; è scritta in cinque parti distinte. Il poeta ha cominciato a scrivere dal principio della parte superiore sinistra, fino a occupare, nel senso verticale, un quarto circa del foglio, successivamente si è servito della parte superiore destra. Ha poi continuato nel centro del foglio, fino a oltre la metà di esso, con scrittura spedita e con una sola parola cancellata. Il foglio restante è stato scritto come in principio, su due parti, prima sulla sinistra e poi sulla destra, separate da due linee approssimativamente verticali. Dall'esame del testo si rileva che la lirica è stata frutto di successivi ripensamenti da parte del poeta; infatti le due parti in alto sono state riprese in basso; costituiscono l'inizio della lirica e sono i versi più tormentati: di essi, oltre alle molte varianti e trasposizioni, abbiamo due o tre redazioni ...
... sicché questa potrebbe ricostruirsi - secondo l'autografo - in due stesure: una costituita dalle due parti in alto più quella centrale, l'altra formata dalle due parti in basso più quella centrale ...

Dalle parti in alto (1 e 2) si ricava questo:

Il cuore stasera mi disse: non sai?
Lei fresca come rosa che sapeva
Che vagava col sogno e il suo profumo
E il sogno al tremolare delle stelle
Quando amavi guardar dentro i cancelli le stelle pallide notturne
Certo è morta: non sai?
Era la notte di fiera. Babele
Di fumi prodigiosi in fasci in un cielo di fiamma
mostruoso tessuto di fiamma nel soffio dei mantici

La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda
Colei che la grazia imperiale
Incantava con rosea freschezza
nei mattini e tu seguivi
nell'aria la fresca incarnazione
di un mattutino sogno
(e ti passava avanti silenziosa
e bianca come un volo di colomba)


La parte centrale (3) dice:

stellato dell'umile pianto delle lampade
E per i portici bui vaneggiavo
Solo dietro le voci limpide degli angioli
Inteso alle morenti melodie
Sepolti sotto gli archi delle strade
Ombra peccaminosa vago errante
A un paradiso turbinosi allori
Cercante


Invece nelle due parti in basso
 (4 e 5) c'è scritto:




Il cuore stasera mi disse non sai?
La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda
Colei che con grazia imperiale
Incantava la rosea freschezza dei mattini:
E tu seguivi nell'aria
La fresca incarnazione di un mattutino sogno
E che pure vagavi quando il sogno e il profumo
Velavano le stelle
(Quando amavi guardar dietro i cancelli
Le stelle pallide notturne)
Che soleva passare silenziosa
E bianca come un volo di colomba
Certo è morta non sai?

E soleva vagare come in sogno
E il profumo velavano le stelle
(E tu amavi guardar dietro i cancelli
le stelle le pallide notturne)
Che soleva passare
silenziosa e bianca
come un volo di colombe
Certo è morta non sai?
La notte di fiera della perfida Babele
saliva in fasci verso un ciel di fiamma



Di solito Campana usava la lettera maiuscola all' inizio di ogni verso ma qui non lo fa sempre. Quale fu la versione definitiva? Nessuna delle due. Le parti 4 e 5 corrispondono alla prima metà della poesia dei Canti Orfici ma la parte 3 non c'è. Dunque il poeta ebbe altri ripensamenti, ma i foglietti sui quali forse li scrisse non ci sono giunti. La poesia nella versione definitiva è questa.:

Il cuore stasera mi disse: non sai?
La rosabruna incantevole
Dorata da una chioma bionda:
E dagli occhi lucenti e bruni colei che di grazia imperiale
Incantava la rosea
Freschezza dei mattini:
E tu seguivi nell’aria
La fresca incarnazione di un mattutino sogno:
E soleva vagare quando il sogno
E il profumo velavano le stelle
(Che tu amavi guardar dietro i cancelli
Le stelle le pallide notturne):
Che soleva passare silenziosa
E bianca come un volo di colombe
Certo è morta: non sai?
Era la notte
Di fiera della perfida Babele
Salente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso di fiamma
In lubrici fischi grotteschi
E tintinnare d’angeliche campanelle
E gridi e voci di prostitute
E pantomime d’Ofelia
Stillate dall’umile pianto delle lampade elettriche

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Una canzonetta volgaruccia era morta
E mi aveva lasciato il cuore nel dolore
E me ne andavo errando senz’amore
Lasciando il cuore mio di porta in porta:
Con Lei che non è nata eppure è morta
E mi ha lasciato il cuore senz’amore:
Eppure il cuore porta nel dolore:
Lasciando il cuore mio di porta in porta.
 


martedì 12 ottobre 2021

Cinque castellari nella valle del Lamone

Le dimore dei signorotti 
nel Medioevo
Ricerca di Claudio Mercatali


Nell'appennino romagnolo il Medioevo ha lasciato molte tracce. Nella valle del Lamone c'è un certo numero di castelli: a Brisighella, a San Cassiano, a San Martino, a Marradi e le valli vicine non sono da meno. Però l'urbanistica medioevale è varia e oltre ai castelli propriamente detti, con la cinta muraria merlata, c'è l'ampia varietà di fortilizi, castellari, castellotti e case a torre. Questi edifici sono quasi sempre su poggi o sui crinali dove si gode un'ottima visuale, perché i signorotti locali che li abitavano volevano vedere bene che cosa facevano i loro sottoposti, intenti al lavoro nelle campagne.

La ricerca delle case torri e dei castellari è un ottimo esercizio di storia antica e anche di ginnastica, perché spesso bisogna salire sui cocuzzoli sudando un po'. Dunque la ricerca di oggi ha lo scopo di individuare i resti di alcuni di questi insediamenti e soprattutto le notizie documentabili su chi li abitò.





La Torre di Calamello

Dov'è Calamello? E' un sito sul crinale fra le valli del Lamone e del Sintria nella parrocchia di Purocielo. Qui c'era il castellare di Ugolino de' Fantolini di Zerfognano, signore di gran parte di queste terre, citato da Dante nel Canto XIV del Purgatorio: "O Ugolin de' Fantolin, sicuro / è 'l nome tuo, da che più non s'aspetta / chi far lo possa, tralignando, scuro"

In questa terzina dal significato un po' oscuro il Sommo Poeta lo descrive saggio e prudente, sicuro di lasciare ai posteri un buon ricordo, perché i suoi due figli maschi erano morti prima di lui e non ne potevano guastare il nome. Una ben magra soddisfazione e comunque aveva anche due figlie.




Caterina, una figlia di Ugolino, sposò Alessandro Guidi di Romena, che assieme ai suoi fratelli Aghinolfo e Ildebrandino contrastava Maghinardo Pagani nel controllo della collina faentina. Anche questi personaggi sono citati nella Divina Commedia. Il terribile Maghinardo distrusse il castello di San Cassiano, che era di Caterina Fantolini e poi d'impeto arrivò a Calamello e impose la resa. Gli interessava il conte Aghinolfo Guidi, che era imprigionato lì, per mandarlo come ambasciatore da Ildebrandino a dirimere una controversia. Non era un atto del tutto pacifico, come ci dice lo storico Tonduzzi nella memoria qui accanto.



Anche il mons. Giovanni Andrea Calegari di Brisighella cita questo episodio in una sua cronaca del Cinquecento e lascia intendere che dopo cominciò il declino. Aggiunge che ai suoi tempi il castellare di Calamello aveva ancora una bella stalla e una grande cisterna d'acqua. 



Però la famiglia Fantolini non era più proprietaria e il sito era dei Manfredi di Faenza, che si limitavano a nominare un castellano.






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Poi pian piano su questo luogo scese l'oblio e cominciò la rovina. A metà dell'Ottocento il pittore Romolo Liverani salì lassù, rimase sorpreso e disegnò i ruderi. E oggi?







Come si vede qui sopra sono rimasti solo pochi ruderi della Torre, in pratica dei mucchi di sassi. Peccato, perché dal disegno di Romolo Liverani si capisce che la costruzione era notevole.


In compenso il sito è panoramico e piacevole da percorrere. La chiesa di Purocielo fa bella mostra di sé anche da lontano e se si sale la vista spazia fino a Brisighella.








La Torre di Pistrino

La Torre di Pistrino, ora casa privata, è sulla destra del Lamone, non visibile dalla strada di fondovalle. Nel 1284 apparteneva a Maghinardo Pagani. Lo storico dell’Ottocento Antonio Metelli dice che Maghinardo dopo una lite fu costretto a restituirla ai Faentini, a seguito di un lodo del Vicario di Romagna Guglielmo Durante. Nella Descriptio Romandiolae del cardinale Anglic (1371) questa località viene censita con 27 focolari, cioè circa 135 persone. Lo storico dell’ Ottocento Achille Lega dice che questa torre era uno dei fortilizi di Castel Poggiale e Ghiozzano. Rimane una torre alta 16 metri che misura alla base 8m x 6.80m. Queste notizie sono una sintesi degli studi di Pietro Malpezzi.




Pistrinum in latino significa molino ed è anche il nome del paesino nel fondovalle, più noto oggi con il nome di Casale. Quindi i casi sono due: la Torre ha preso il nome dal paese o il paese l'ha preso dalla Torre. Secondo Pietro Malpezzi e altri quest'ultima possibilità sarebbe la più concreta, perché pare che una comunità di monaci avesse costruito un mulino a vento sul colle, per non pagare la tassa sul macinato ai signorotti locali.






Il Castellare di Popolano

La chiesa di Popolano ha una storia particolare: venne costruita sulle rovine di un castellare medioevale dotato di torre. Ce lo dice anche lo storico Emanuele Repetti nel suo Dizionario del 1830. Gli esperti della Conferenza Episcopale che hanno censito tutti i beni della Diocesi confermano il fatto con la precisazione che il castellare propriamente detto era più in alto, vicino al podere omonimo e qui c'era un edificio accessorio.






Tutto questo fa proprio al caso nostro perché ci permette di osservare le vestigia della costruzione antica senza dover andare in cima al solito cocuzzolo. L'interno della chiesa mostra chiaramente l'origine, perché nella parete destra ci sono due finestre murate, con i conci d'arenaria sagomati come usava tanti secoli orsono. 




Accanto all'altare c'è un'altra finestra simile, residuo della torre che ora è il campanile. Si capisce bene se si entra nella porticina accanto, dove una scala porta alla cella campanaria, se uno non soffre di vertigini. Nelle pareti ci sono tante finestre antichissime, arciere, balestriere e da osservazione.


Tutto questo non deve meravigliare: qui i terreni sono fertili e in piano e il paese è all'inizio della strada antica che porta al Passo della Cavallara, accesso alla Valle Acerreta e via comoda per Modigliana, sede del feudo dei Conti Guidi. 




A quanto risale tutto questo? Nel Codice di Lottieri della Tosa, vescovo di Faenza alla fine del Duecento, la chiesa era già una priorìa e si era già sovrapposta al castellare. Quindi bisogna andare indietro nel tempo ancora molto. Il Codice è una raccolta di atti notarili che riguardano vari preti della Diocesi, che si rivolgevano al vescovo per i motivi più vari. Questa che segue è una lettera di Pietro Saraceno vescovo e legato pontificio in Romagna, che scrive a Lottieri e lo autorizza a sciogliere l’interdetto ai danni di Ubaldino, priore di Popolano, che non aveva inviato l’elenco dei fumantes (i contribuenti) nei termini prescritti. Pietro Saraceno precisa che la concessione è per fare un piacere al vescovo Lottieri e soprattutto a Maghinardo Pagani, zio di Ubaldino.

 


Atto 74 
6 luglio 1290     Assoluzione di don Ubaldino, priore di Popolano

 

Nel nome di Dio, amen.

Redatto sulle gradinate del vescovado di Faenza, alla presenza del chierico Pasquino, di Lotario Benincasa e Cenni di Bartolo, con i sottoscritti famigliari del venerabile padre (il vescovo) il notaio Mastonese e altri sottoscriventi.

 Tutti gli ispettori elencati in questa pagina prendono atto che davanti a me, Giovanni Manetti notaio, con i testimoni sopradetti e il venerabile Lottieri vescovo di Faenza è stata recapitata la lettera qui di seguito scritta:

Venerabile in Cristo, padre e amico carissimo Lotterio, per grazia di Dio vescovo di Faenza, Pietro per permesso divino vescovo di Vicenza, vicario pontificio nella Provincia di Romagna, vi auguro la salute e la sincera carità di Dio; abbiamo ricevuto le lettere che ci hai mandato, e volendo per richiesta vostra annuire e compiacere il nobile uomo Maghinardo di Susinana in queste, consegnamo la presente alla vostra autorità, poiché il priore canonico di Popolano sia assolto dalla sentenza alla quale era incorso perché non presentò a noi nel termine stabilito i fumantes della sua Priorìa … Dato a Rimini, il giorno XXIIII giugno”.

 Per l’autorità che gli è stata conferita dal predetto Pietro vescovo di Vicenza, don Ubaldino priore canonico sopra detto è assolto dalla predetta sentenza, imponendogli una penitenza salutare.

La priorìa era ambita perché aveva delle rendite cospicue e diverse case. Qui di seguito don Alberico, Priore e Canonico, ne chiede una al vescovo per suo fratello, per l'affitto di ... ... leggi l'atto 38.



Atto 38
26 marzo 1289   Canonica di Popolano, fatto e consegnato

 

Redatto sopra l’aula del vescovado faentino alla presenza degli anziani Monaldo e Guidone di Luestano ed altri.

Don Alberico, priore e canonico di Popolano della diocesi di Faenza, di fronte al venerabile padre don Lottieri, per grazia di Dio vescovo di Faenza, chiese di persona umilmente e in maniera devota il rinnovo per 28 anni di una licenza di affitto del fratello Aspectato di Popolano per il figlio Farolfino, per un casamento di detta canonica, posto vicino a detta canonica il quale confina con : II la via, III la fontana, IIII la parte riservata di questa canonica, dietro la promessa di dare ogni anno allo stesso priore e canonico un paio di capponi (unius paris caponis) per Natale. Udita questa richiesta, vista e letta, il venerabile padre predetto concesse la licenza secondo la forma della domanda predetta.





Con il passare del tempo il caseggiato si ampliò e cambiò spesso di destinazione: c'è un sotterraneo ad arco di pietra, al quale si accede attraverso un portone con gli stipiti e l'architrave di arenaria, forse ricavato dai magazzini del vecchio castellare e una canonica enorme che a seconda dei secoli fu convento e residenza signorile e oggi è una casa della Comunità di Sasso, che si occupa del recupero delle persone a disagio.





Castelnuovo

Castelnuovo è un podere sul crinale di fronte alla Badia del Borgo, e si raggiunge percorrendo la mulattiera che sale dal podere Val Bigoncio verso Gamogna. E' uno dei poderetti  un po' brulli che sono su questo crinale ma i resti della casa rivelano che non nacque per scopi agricoli, perché la planimetria dell'edificio non è quella solita delle case poderali o padronali antiche. 




Anche il nome dà un indizio e lascia intendere che fu costruito ex novo in un secolo imprecisato ma lontano, e compare come Castro Novo in un contratto di affitto del 1299, fatto dai monaci della Badia del Borgo, proprietari di tutta la zona. Chi costruì aveva molti soldi e usò bozze squadrate negli angoli, mattoni ben cotti per l'arco della porta e pietre ben disposte nei muri. Perché? Da Castelnuovo da una parte si vede bene il Castellone di Marradi e dall'altra la valletta che da Popolano sale al Passo della Cavallara, che invece dal castello di Marradi non si vede. Dunque questa potrebbe essere stata la funzione dell' edificio: un punto di osservazione verso una valletta laterale poco visibile ma di una certa importanza, percorsa da una antica strada comoda per passare, anche a cavallo, nella Valle Acerreta e a Modigliana. Il resto è avvolto nella nebbia impenetrabile del Medioevo.

Dal regesto del contratto di affitto del 1299 si ricava qualche altra notizia sulle persone che vivevano qui: Salimbene del fu Bencivenni rinnovò l'enfiteusi di una terra vignata posta fra Castelnuovo e Dogara per 29 anni e quindi prima di lui suo padre coltivava questo sito già alla metà del Duecento. Per contratto alla festa di Santa Maria degli angeli, il 2 agosto, doveva pagare ai monaci sei staia di grano (poco più di un quintale) e quindi lo possiamo immaginare alla guida del barroccio, giù per la carrareccia di Gamogna, con le donne di casa, Druda, Benedetta e Gualdrada, diretti al monastero, dove andavano i molti marradesi che avevano dei contratti simili, perché da altre scritture notarili sappiamo che questo alla Badia era il giorno dei saldi.


E' rimasto qualcosa di Castelnuovo? Si, ma non molto. Per fare un sopralluogo si può imboccare il sentiero per Gamogna da Valbigoncio e salire penando un po'. Dopo aver fatto una sudatina si arriva al podere Valcroce, sul crinale e di lì in poi il sentiero è in piano ...


Nel 2015 una coppia di ragazzi avevano deciso di recuperare tutto il complesso e avevano liberato le rovine dalla vegetazione che le aveva coperte. L'aspetto di allora è questo, notevole, come si può vedere. Era un'impresa improba, costosissima, che non ebbe seguito.



Li capisco, perché è facile innamorarsi di Castelnuovo.




Il sito si presta per i trekking estivi e invernali, anche con le ciaspole, lungo la dura mulattiera per Gamogna.








Il Castellaccio

Biforco è una frazione di Marradi che appunto sta alla biforcazione della valle e al bivio di due strade antiche. Qui sorge il Castellaccio, oggi casa privata ma un tempo castellare dotato di torre. Questa origine è nella memoria collettiva dei marradesi, che l'hanno sempre data per scontata. Gli ultimi dubbi sono stati fugati durante i recenti lavori di rifacimento esterno e interno dell’ immmobile. Vediamo:

 

 Il barbacane sul lato est del Castellaccio, messo di nuovo in luce, ha uno spessore murario di oltre 2 metri, visibile e misurabile dalle due ex feritoie. 



Sul barbacane ovest c'è un pozzo oggi interno ma un tempo forse esterno, tipico delle strutture difensive e di chi voleva avere l'acqua senza scendere al fiume, che è vicino. Infine la base del muro visibile dalla cantina, ha una struttura potente che non può essere di una semplice casa.

 



 




In un edificio annesso ci sono dei graffiti scolpiti con forza nella pietra di una feritoia, difficili da capire. Secondo una interpretazione, che non è l'unica, sarebbero una simbologia del potere della chiesa e del feudatario e rappresenterebbero quello che si vede dalle finestre dell'edificio. Sono qui accanto: ingrandite la figura a tutto schermo e interpretateli anche voi.


Per ampliare sul blog


25.06.2020 Il Codice di Lottieri della Tosa (è una raccolta di contratti del Duecento)
Il castello di San Martino in Gattara
Il castello di San Cassiano
La chiesa di Santa Maria in Popolano
21.12.2012 L'evoluzione del Castellaccio 
08.11.2012 Il Castellaccio, una "Mansione romana".




mercoledì 6 ottobre 2021

Il castello di San Martino in Gattara

Una lunga disputa fra Faentini e Fiorentini
Ricerca di Claudio Mercatali




La chiesa e il castello di S.Martino come erano a metà '800 (disegno di Romolo Liverani)



Sopra l’abitato di San Martino sorgeva il “Castrum Gattariae”, controllato fin dal 1192 dalla Chiesa che lo aveva concesso, per un affitto annuo di una marca d’argento a Ugo e Raniero, Conti di Carpinio. 


Lo storico faentino del '200 Agostino Tolosano ci dice che ai suoi tempi era tenuto da un certo Amatore di Ugolino di Teodorico, un signorotto aggressivo che “recava disturbo ai vicini fiorentini, ai faentini e ad altre limitrofe popolazioni”. Per questo nel 1216 i Faentini assalirono Castrum Gattariae  e demolirono le due torri. Fu ricostruito e divenne di Fantolino di Albertino degli Accarisi, poi di Burniolo di Ugolino. 





Il castello e il paese in una mappa 
del Seicento



Nel 1289 il castello fu venduto a Maghinardo Pagani da Susinana che lo lasciò in eredità alla figlia Francesca, che lo vendette. Il Cardinale Anglic, nel suo censimento del 1371 scrive che il Castrum Gattariae era dei Manfredi di Faenza ed era abitato da un castellano con otto servi. Nel 1376 fu comprato dal comune di Firenze che lo affidò ai Manfredi del ramo di Marradi. Non fu una vendita spontanea ma una cessione per pochi soldi a seguito di una grave crisi in famiglia, e questo in seguito generò un contenzioso. 


Nel 1400 fu conteso fra Faentini, Fiorentini e Manfredi del ramo marradese. Nel 1506 i Veneziani occuparono il Castrum  ma dopo qualche anno persero la guerra contro il Papato e si dovettero ritirare dalla Romagna. 





Così il castellare passò allo Stato Pontificio ma decadde perché il confine con il neonato Granducato di Toscana era stato stabilito con un solido patto politico e non c’era bisogno di difenderlo con le armi.




La valle del Lamone
vista da Galliana


A parte il susseguirsi dei vari signorotti l’episodio più interessante è l’acquisto del castello da parte dei Fiorentini, che poi lo passarono in gestione ai Manfredi di Marradi. L’acquisto aveva una certa importanza perché il sito permetteva il controllo pieno dell’alta valle del Lamone e di Valnera, come si vede nella foto qui accanto. 



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a tutto schermo




Giovanni Manfredi di Marradi, nel 1428 dopo la caduta del Castellone, scrisse ad Averardo de' Medici una lettera implorando la liberazione di suo fratello Ludovico, in prigione nel carcere fiorentino delle Stinche, e in quella disse anche che non era vero che aveva svenduto Gattara ai Manfredi di Faenza. Giovanni scriveva bene e quindi lasciamo che sia lui a dire:

Ad Averardo de' Medici
… Appresso ho inteso che non avete voluto lasciar tòrre (prendere) cosa alcuna delle cose ch'io lassai, alli mulattieri i quali avrìa mandati per esse, rispondendoli che vi volete trattenere ogni mia cosa perché avete sentito ch'io dèi Gattara a Guidantonio (Manfredi di Faenza) della qual cosa molto mi maraviglio e non posso credere che questo e altro vi abbiano detto né sia vostra intenzione e prima vorrei morire che mancare di mia fé in cosa alcuna e state certissimo che piuttosto avrìa voluto e vorrei che i miei prima che altri i miei Magnifici ed Eccelsi signori fiorentini avessero interamente in loro dominio …                                  Mense die XXI Septembre 1428 Johannis Manfredi





Però ormai il castello era stato preso dai Faentini e i Fiorentini dovettero rinunciare per non creare un incidente diplomatico. I terreni sottostanti rimasero un po’ agli uni e un po’ agli altri, in un complicato puzzle fonte di discussione fino alla fine del Settecento, come si vede nelle vecchie mappe granducali e pontificie come questa qui sopra. Che cosa rimane del castello?




Non è difficile salire fino in cima al poggio per vedere.


Dopo una sudatina si arriva al pianoro dove ci sono i ruderi.


Da questo sito si vedono le due valli: quella del Lamone e quella di Valnera. Forse questo è il motivo per cui fu costruito il fortilizio.

Chi lo costruì? Non si sa, però Gattara è una parola che deriva dal longobardo watha, posto di osservazione, di guardia. Il gatto non c'entra.