giovedì 26 aprile 2012

La Faentina dei Granduchi


La costruzione della strada Faentina
secondo alcuni documenti del 1825
di Vincenzo Benedetti 
e Claudio Mercatali


 

Leopoldo I (sopra.) Ferdinando III 
(in mezzo) e Leopoldo II.



Nel Settecento attraversare l’Appennino partendo dal Mugello era un problema. Il granduca di Toscana Leopoldo I era un sovrano al passo con i tempi e capì che i collegamenti transappenninici erano necessari per il commercio. Nel decennio 1780 – 1790 cominciarono i lavori per le strade Regie della Futa e del Muraglione e subito dopo si diede inizio anche alla nuova strada granducale Borgo S.Lorenzo – Faenza, per il Passo della Colla. La nuova Faentina suscitò animate dispute nel Mugello, un po’ come le discussioni di oggi sulla Direttissima e la Variante di valico.

Questa che segue è una ricostruzione della storia della Faentina ricavata da lettere e documenti dell’epoca.
Cominciamo dal 1825, quando il signor Alessandro Fabroni, ricco proprietario di Marradi, chiede notizie su certi ritardi nei lavori e il marchese Gerini, proprietario del palazzo signorile al poggio di Ronta, gli fa rispondere dal suo Maestro di Casa, ossia dal suo segretario, o maggiordomo, un tal Pasquale Marini.


Sentiamo che cosa gli dice:

“… Pasquale Marini fa i suoi rispettosi ossequi al sig. Alessandro Fabroni e nel tempo istesso si fa compiacere di lasciare in mano della sua donna di servizio alcune notizie dettagliate riguardanti la strada da Firenze a Faenza, stategli trasmesse dal sig. Priore di Ronta questa mattina, onde proporle alla sua considerazione. Le lascia pure la lettera scritta dal predetto sig. Priore, nella quale si trova la nota di quelle persone sul sentimento delle quali desiderava d’essere inteso. E pregandolo frattanto gradire gli attestati della sua rispettosa stima si dichiara suo obbligatissimo servitore”.
P.M Maestro di casa Gerini alle cinque pomeridiane del 24/09/1825


  • I Priori erano amministratori sorteggiati fra i possidenti. Formavano il Magistrato Comunitario, presieduto da un Gonfaloniere. La loro funzione assomigliava un po' a quella degli odierni assessori.


Che cosa scrive il Priore di Ronta? Leggiamo:

“… Nel 1797, sotto il governo di Ferdinando, Nostro Amatissimo Sovrano, si risvegliò di nuovo il progetto della strada di Romagna. Il trasporto dei grani provvisto per conto del Governo in quell’anno di Pubblica indigenza, aveva fatto conoscere per esperienza che, dall’Adriatico a Firenze, non vi era tragitto più breve, meno aspro e meno costoso, di quello che da Faenza, per Marradi e Borgo S.Lorenzo, conduce alla Capitale dell’ Etruria. Fu dunque spedito l’ingegner Neri Zocchi ad esaminarla. La perizia che egli presentò al Governo porta che nella peggiore ipotesi centodiecimila scudi bastano per eseguire questa impresa. Dietro la fatta perizia S.A.I e R Ferdinando III incominciò i lavori e al finire dell’anno 1794 il tratto di 4 miglia che dal Borgo S.Lorenzo conduce al Poggio di Ronta divenne accessibile alle ruote e lo è ancora … Secondo ogni verosimiglianza i lavori sarebbero di poi stati proseguiti se le passate politiche vicende non avessero arrestato il corso della Sovrana Beneficenza. Ma non si deve tacere che anche il cessato Governo prese ad esame questo progetto di Pubblica prosperità … I destini riservavano però questo fausto avvenimento a S.A.I e R nostro amatissimo Sovrano”. (“S.A.I e R” significa: Sua Altezza Imperiale e Reale).





La Colla
di Casaglia
a fine Ottocento




Quali furono le “passate politiche vicende” che interruppero i lavori? E il “cessato Governo”? Queste frasi si riferiscono al fatto che nel 1800 iniziò l’epoca napoleonica e il Granduca andò in esilio (… si arrestò la sua Sovrana Beneficenza). Il “cessato Governo” è quello francese finito nel 1815 dopo la sconfitta di Napoleone. Il Granduca tornò nel 1816 e i documenti ci dicono che:

“… nel 1817 appena il Gonfaloniere del Borgo S.Lorenzo con alcuni dei primi Possidenti di quella Comunità porsero le loro suppliche al Nostro Sovrano implorando il proseguimento di detti lavori, S.A.I e R si degnò di emanare un Regio scritto, fatto il 28 marzo, anno suddetto, in cui ordinava che per ora si rendesse carreggiabile il tratto di strada Faentina che dal Poggio di Ronta conduce a Razzuolo, che le somme da impiegarsi in detti lavori fossero pagate per metà dal Regio Erario e l’altra metà dai fondi della Comunità stessa. L’ingegnere Franco Guasti, aveva presagita una spesa di lire 130.613. Ora siccome la Comunità doveva concorrere per metà a detta spesa, affinché non restasse soverchiamente aggravata, il Governo nella sua saviezza ordinò che corrispondesse per tale riduzione in nove anni dal 1817 al 1826…”


Razzuolo
agli inizi
del Novecento








UN PO' DI CONTI

Nel 1830 i fiorini d’argento valevano 1,7 lire. La strada da Ronta a Razzuolo costò circa:
130.613 lire : 1,7 = 76831 fiorini d'argento. Un fiorino d’oro (3,48g) valeva 8 fiorini d’argento;
76831 : 8 x 3,48 = 33,421 Kg
Dunque la spesa fu equivalente a circa 30 chili d’oro
(il totale è approssimativo).



Ci furono dei contrasti:

“… ma insorsero degli uomini nemici del pubblico bene a contrastare l’impresa e tanto bastò perché il Sovrano Regio scritto restasse senza effetto e le comuni speranze fossero deluse. Questi esseri abbastanza potenti per mantenere otto anni continui un posto fra i residenti in Magistrato e per farvi valere i loro insensati progetti hanno potuto impedire che questo importante affare fosse una sola volta trattato seriamente in tante adunanze tenute. Frattanto gli Abitanti della Comunità non cessavano di insistere con replicate suppliche il proseguimento di menzionati lavori. La buona fede e l’impegno col la quale la comunità di Marradi faceva avanzare ogni giorno le tre sezioni che gli appartengono, animava le loro querele e la dilapidazione dei fondi pubblici che il Magistrato del Borgo S.Lorenzo andava facendo le rendeva più giuste e nello stesso tempo più amare”.






Ronta 1822. E’ segnata la vecchia strada,
che passava (e passa) fra le case.
La Faentina attuale è appena abbozzata.








 Dopo questi sperperi, furono necessari altri finanziamenti:

“… Per ridurre carreggiabile la quarta sezione della strada Faentina, quel tratto cioè che da Ronta conduce al confine della Comunità del Borgo S.Lorenzo, la relazione dell’ing. Vittorio Gabbrielli che l’aveva più di una volta percorsa ed esaminata palmo palmo asserisce che con quattromila scudi per ogni miglio si può completamente eseguire. Ora essendo cosa certa che fra i menzionati due punti non vi corrono che nove miglia e mezzo, ne viene che soli scudi trentottomila basterebbero per renderla carreggiabile”. 


 A questo punto il Comune di Palazzuolo, chiese di far passare la strada dal suo territorio, lungo un tracciato simile a quello dell’odierna Sambuca.

“… Mentre queste cose seguivano, altre Comunità che meglio del Magistrato del Borgo S.L. conoscono i loro veri interessi hanno presentato suppliche a S.A.I e R chiedendo che la strada che si medita di aprire attraversi il loro Territorio. Si è quindi mossa di nuovo questione sulla linea da preferirsi. Eterno rimprovero per chi non ha curato un bene cui tante Comunità aspirano”.


Si accese una discussione e il Granduca:

“…Attese le diverse ragioni che militano in favore delle Linee che si potrebbero abbracciare per la costruzione di una strada carrozzabile S.A.I e R. è nella determinazione di mandare un ingegnere imparziale che dopo averle percorse ed esaminate tutte giudichi quale meriti di essere preferita.”

 L’ingegnere “super partes” concluse che:

“… Primieramente la Linea di Marradi è preferita da tutte l’altre dalla stessa natura. L’affluenza notabilmente maggiore de’ passeggeri per questa. Il maggior incasso delle Dogane erette in quella direzione per i diritti d’importazione o esportazione degl’ oggetti di commercio ne fanno una prova convincente. E tutto ciò è dovuto ai naturali vantaggi che essa ha sulle altre. Infatti è meno soggetta alle bufere per essere esposta intieramente a mezzogiorno e difesa dai venti del nord da una lunga catena di monti, motivo per cui è praticabile anche nel più crudo inverno”.


 I MURI A SECCO

Ai tempi della Faentina il cemento non era ancora stato inventato e i muri erano “a secco” oppure murati a calce. Qui accanto si vede un ponte in un tratto abbandonato a Pontaruscello, vicino a Razzuolo e, sotto, un tratto ora abbandonato del tracciato originario..







Clicca sulle immagini
se le vuoi ingrandire






E così la Faentina andò a compimento. Ma perché c’era chi non la voleva? Il Priore di Ronta del 1825, un certo Andreani, ce l’ha con qualcuno:

“… Deliberata nell’anno 1817 dal Magistrato del Borgo S.Lorenzo l’esecuzione dei lavori di questa Strada fra i Possidenti che offrirono alla Comunità degli imprestiti per la prontissima intrapresa vi furono i signori fratelli Martini oriundi del Borgo e domiciliati a Firenze Ma non andò molto che senza sapere per quale animosità divennero essi i più accaniti nemici della Strada …”



Quindi le resistenze venivano da “oriundi del Borgo e domiciliati a Firenze” cioè da possidenti fiorentini che avevano interesse a migliorare le strade delle loro fattorie, più che quelle dirette in Romagna.

Ci è giunta la nota dei primi promotori della Faentina, che nel 1817 fecero delle offerte per i lavori. Ci sono anche i fratelli Vincenzo e Zanobi Martini che poi, come dice il Priore di Ronta, divennero accanitamente contrari. Gli altri sono: Leopoldo Nicolini, Buonaventura Lapi, Luigi Monti, Vincenzo Savi e Giobatta Cavini. Questi sconosciuti cittadini benestanti del Mugello offrirono 7520 lire (4300 fiorini), che non era poco.

venerdì 20 aprile 2012

Il castello di Benclaro a S.Adriano

l'ultima residenza 
di Maghinardo Pagani,
signore delle “città 
di Lamone e di Santerno”*
di Marco Cappelli
Lo stemma 
di Maghinardo Pagani



Alla fine del XIII secolo “castro Benclari”, presso l’attuale abitato di Sant’ Adriano, era il castello più importante di tutta l’alta valle del Lamone, qui spesso abitava e qui morì, a poco più di cinquanta anni, il 27 agosto del 1302 dopo l’ora terza e dopo pranzo, Maghinardo Pagani signore di queste terre e di gran parte della Romagna.

S.Adriano, 
il castello e palazzo Pagani


Maghinardo nella zona possedeva altri castelli come Castiglionchio sopra Marradi e Gattara, questi però erano veri e propri fortilizi, strategicamente migliori, ma molto più scomodi e lontani dalla viabilità di fondo valle.

Inoltre la rocca di Castiglionchio, la fortezza più grande, era stata gravemente danneggiata da un forte terremoto il 30 di aprile del 1279 (epicentro Rocca S. Casciano, magnitudo 5,55 scala Richter) (1). Tra le macerie del castello erano morte molte persone e tra queste Bonifacio Pagani detto Bambo, cugino in secondo grado di Maghinardo.

Castro Benclari comprendeva invece anche edifici civili ai piedi del colle, queste case avevano un livello protettivo più basso della rocca però consentivano un tenore di vita più agiato e, nello stesso tempo, stavano in comunicazione diretta con la fortezza sovrastante, che dall’alto svolgeva una funzione di vedetta, di rifugio e di estrema difesa.

Il complesso di Benclaro segnava la vallata con due forti emergenze: in alto, ma non lontana, la rocca con il suo mastio e la sua cinta fortificata, in basso, ancora più imponente, un palazzo-torre alto circa 20 metri con attorno un gruppo di edifici pertinenziali e, oltre il rio verso Marradi, la chiesa già dedicata a Santo Adriano con un gruppo di abitazioni per totale di circa venti focolari (2).

Nel borgo venivano redatti gli atti civili del signore del castello. Sappiamo infatti di due contratti, uno del 18 luglio 1297 e uno del 3 maggio 1302, con i quali il fattore di Maghinardo un certo Bino de Bastardis, concede in affitto terreni a nome del suo principale, il primo atto è rogato in “foro Benclari”, il secondo in “ valle Allamonis in domuncula ubi ius redditur in mercatale Benclari” (3).


Il palazzo a torre (ora torre di casa Cappello) era stato costruito nel XIII secolo da Pietro, padre di Maghinardo (morto tra il 1265 e il 1273) e dallo zio Bonifacio Pagani (morto in battaglia su un ponte della Galisterna nel 1273) (4). Il palazzo originale era più alto di due piani di quello attuale. Per motivi di sicurezza nei secoli la torre è stata scapitozzata, un piano fu demolito negli anni 30 del secolo passato e gli anziani tramandano il ricordo di un altro piano abbattuto per gli stessi motivi.

La costruzione di questa torre è comunque successiva al 1235 anno in cui “ li Huomini del castello di S.Adriano in val di Lamone territorio Faentino giurarono riconoscere per loro Signori Acarisio Acarisi nobile Faentino, e Pagano Pagani di Sosenana per instrumento di Graziadiodi Zaniolo di Gio. Fasolo”(5). Possiamo stimare l’ edificazione dell’edificio tra il 1235 e il 1265.

Un palazzo cosi imponente, lontano da grossi centri urbani e lungo la strada di fondovalle serviva, con molta probabilità, alle necessità di controllo del commercio di derrate alimentari con la Toscana e in particolare al commercio di cereali con la città di Firenze.

Verso la metà del XIII secolo infatti il governo degli Anziani di Firenze stipulò con Pietro Pagani un contratto della durata di otto anni per il rifornimento di cereali, facendosi rilasciare in pegno, per garanzia, il suo castello di Castiglionchio nella valle del Lamone, e pagando in anticipo una cifra convenuta per il grano che sarebbe stato fornito solo a lunghi intervalli (6).


Questa costruzione rispettava la tipologia dei palazzi a torre dell’epoca che, pur non essendo fortezze, dovevano garantire una buona sicurezza ai signori che vi alloggiavano. Anche qui il primo piano abitato era molto rialzato dal livello del terreno e ci si poteva accedere solo attraverso scale a pioli rimovibili, la stessa cosa spesso succedeva anche per i piani superiori. Una scala in pietra, all’interno di un fabbricato vicino, portava invece ad un ampio scantinato posto sotto la torre, qui una vecchia apertura tamponata si dice celasse una galleria di comunicazione con la rocca. E’ probabile comunque che una via di fuga sotterranea verso la campagna esistesse davvero.

Quando 1295 Maghinardo Pagani fu costretto, dal Conte di Romagna, ad abbandonare la città di Faenza stabilì la sua dimora in questo palazzo ed è in una delle sue stanze che morì il 29 agosto del 1302.

Scrive lo storico Metelli ”…entrava la Vallata di Amone, ed arrivato al suo Castello di Benclaro, che sorgeva sul medesimo luogo, dove ora siede il borgo di Santo Adriano, ivi fermava la sua dimora.” (7). Dimora che dal testamento si deduce localizzata nel palazzo-torre. Il notaio Martino da Cesena chiude infatti il testamento con la seguente postilla: ”Actum in catro Benclari Faventine diocesis, in camera palacii seu domus ipsius d. Maghinardi”(8). E cioè: testamento redatto nel castello di Benclaro, nella camera del palazzo sua dimora.

Nel corso dei secoli accanto alla torre, nella parte a nord est, si e sviluppato un complesso di edifici colonici che fino agli anni ’60 del ‘900 hanno costituito una preziosa testimonianza, purtroppo oggi perduta, di quanto può essere armonioso l’accostamento tra costruzioni di epoche diverse.




Una delle ultime immagini del complesso 
della colonica di casa Cappello









Ora la torre, più bassa di due piani di quando nel 1302 vi morì Maghinardo Pagani, è stata restaurata ed è un edificio isolato, ma comunque, non sufficientemente lontano da costruzioni che non ne rispettano il carattere e ne disturbano l’immagine.







Nella parte tergale della torre è stata realizzata, in tempi successivi, una scala esterna per accedere al primo piano che nel medio evo era inaccessibile dal livello del terreno. Quando l’edificio fu costruito era più alto di due piani e, molto probabilmente, la strada di fondovalle passava accanto alle sue mura come si vede nella mappa del catasto Leopoldino.
Immaginandolo com’era si può ancora percepire il senso di dominio che il palazzo trasmetteva a coloro che, attraversando la piana di Santo Adriano, passavano sotto le sue mura. Interno dello scantinato con in vista le strutture in acciaio ideate per il risanamento statico della volta in pietra. Buona tecnica di restauro che permette di conservare e separare la visione dell’antico dalla moderna struttura di rinforzo. Opera in ferro eseguita da Mordini Carlo (Marradi) restauro della parte muraria eseguita dalla ditta Neri Luciano (Valnera – Brisighella)

 Nel muro interno della cantina rivolto verso Marradi esiste ancora un vano, ora tamponato, di una grossa apertura sormontata da un arco in mattoni. Notare l’uso di pietra spugnosa nelle parti più spesse della volta allo scopo di alleggerire la spinta sulle murature verticali.

Ma che fine ha fatto invece l’altra grossa costruzione del castello e cioè la rocca che dominava il castro dalla cima dell’attuale colle di Monte Bello?

Maghinardo nel suo testamento lascia il castello di Benclaro, con i benefici del pedaggio che si facevano pagare a Filetta, alla figlia Francesca moglie di Francesco signore di Orsi. Poiché nel documento non si entra nella descrizione delle varie parti del castello è sottointeso che sia il palazzo sia la rocca sia tutte le altre abitazioni e pertinenze vengono ereditate dalla figlia Francesca.

Quando ero bambino i vecchi tramandavano la storia di un fortissimo terremoto che avrebbe spaccato in due la montagna e distrutto la fortezza.

Questo ricordo si lega ad un altro: ero all’asilo (1957-58) quando nelle stanze della canonica di S. Adriano arrivò un gruppo di ragazzi del paese, a me sembravano tanto grandi ma ricordando chi erano, avranno avuto 10 massimo 13 anni, questi portarono a don Nerino una spada e dei pugnali arrugginiti che avevano trovato scavando tra i ruderi della vecchia fortezza. Nel 1922 Padre Serafino Gaddoni pubblica, nella Regia Deputazione di Storia Patria per le provincie di Romagna, il testamento di Maghinardo Pagani da Susinana e nell’ introduzione, parlando del colle dove sorgeva la fortezza, annota: ”Uno scheletro e punte di lancie e di freccie si sono trovate scavando in quel terreno”.





Quando le fortezze sono abbandonate tra i loro resti non si trovano mai manufatti e soprattutto non si trovano armi. I ritrovamenti sopra descritti tra i ruderi della rocca sono i segni una fine violenta, catastrofica e improvvisa.


Un terremoto come tramandano le storie popolari?

Ho verificato gli eventi sismici della regione successivi al 1302 e il primo terremoto con potenza comparabile a quello che distrusse Castiglionchio nel 1279 si verificò il 4 di agosto del 1383 (epicentro Forlì magnitudo 5,37 scala Richter)(9). Ma a quella data, molto probabilmente, la fortezza di Benclaro era già stata distrutta.

In un censimento del 1371 si descrive ”Villa S. Adriani in qua sunt focul XX” (10) ma non si accenna più al Castello.

Quando nel 1428 Averardo dei Medici conquista la rocca di Castiglione, nelle cronache della spedizione viene annotata la presa del castello di Gamberaldi, si parla del castello di Gattara ma non si trova mai nessun riferimento al castello di Benclaro, sicuramente a quella data Benclaro non aveva più nessun valore strategico.

In un rapporto del 1509 si legge: “ Si vedono hoggi in piedi la Torre vecchia e la Rocca nuova di Brassichella, alcuni pezzi di muraglia di Rontana ….Gattara, S. Cassiano, Marradi, Castiglione… . Sono ruinati e spersi a fatto li castelli della Pergola, di Baccagnano…… di Monte Romano, di Donegaglia, di Benclaro ….”(11) .



Questi fatti danno credibilità agli storici che così raccontano la fine della fortezza di Benclaro:

anno 1321 …” la figlia di lui Francesca, che con Francesco Orsini suo marito abitava nel castello di Benclaro o di Santo Adriano dentro la valle di Amone, mal ricordevole dei comandamenti del suo gran genitore aveva negato di pagare le mille lire..’’(12) ai Faentini i quali per ritorsione presero e demolirono per sempre la rocca di Benclaro. I resti ritrovati sul posto sembrano testimoniare che la rocca fu rasa al suolo a seguito di una conclusione violenta dell’assedio. E’ probabile che le cose siano andate proprio così.

Oggi le pietre dell’antica fortezza vivono ancora, un poco più a valle, nelle mura di in una vecchia colonica, di nome Montebello, che fu costruita con i resti dell’antico castello dei Pagani.

Bibliografia

*Dante Alighieri - Divina Commedia – inferno - canto XXVII.

1) Istituto Nazionale di Geofisica e Geologia- terremoti storici.   2) Fantuzzi M. – Monumenti Ravennati – vol. III – pag. 343. 3) Regia Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna – vol. IV – Bologna 1922.  4) I Pagani – Libro d’Oro della Nobiltà Mediterranea.  5) Tonduzzi G.C. – Historie di Faenza pag. 271.   6) Il Castellone – La Storia - Fulvia Rivola.   7) Metelli A. – Storia di Brisighella e della Valle di Amone - vol I - pag 141.   8) Cfr. n. 3 – Il Testamento di Maghinardo Pagani da Susinana.   9) Cfr. n. 1.   10) Cfr. n. 2.   11) Calegari A. – Cronaca di Brisighella e Val d’Amone – pag. 39.   12) Cfr. 7 vol I - pag. 217.

sabato 14 aprile 2012

L'equiseto

"l'erba dl'aqua"
di Claudio Mercatali



Per una volta volete assaggiare qualcosa di veramente nuovo rispetto al solito? Ecco una pianta antica, molto particolare, che forse può fare al caso vostro.
L’Equisetum arvense, della famiglia delle Equisetaceae, è una pianta perenne, comunemente nota come "coda di cavallo". E' antichissima, e se ne trovano dei resti fossilizzati vecchi di quattrocento milioni di anni. I botanici dicono che a quei tempi popolava la Terra assieme alle felci.
Non ha fiori e nemmeno semi, ma si riproduce per mezzo di spore liberate nell'aria da una apposita struttura, che spunta a primavera e si secca dopo un paio di settimane. 
I cauli, quelli che noi chiamiamo fusti, sono di due tipi: quelli fertili a vegetazione primaverile che ci interessano perché sono commestibili e quelli sterili a vegetazione estiva dai quali si sviluppa la fronda. I due fusti non si assomigliano per niente, tanto da sembrare di due piante differenti. Il "fusto fertile" sembra una punta di asparago color crema. L’equiseto esige terreni freschi e fradici, tanto che qui da noi è noto come "l'erba dl' aqua". Si trova con facilità lungo i fossi, le scoline delle strade e nei pascoli umidi.
 

A destra: i fusti fertili (sopra) 
e i fusti sterili (sotto)



I fusti fertili e cauli sterili

I cauli fertili sono eretti, piccoli, di colore biancastro o bruno - rosato e senza clorofilla. La loro funzione è quella di produrre e diffondere le spore con le quali gli equiseti si riproducono. Assolto questo compito si seccano e cominciano a svilupparsi i fusti sterili. Dunque occorre memorizzare il sito umido dove vive "l'erba dl' aqua", perché in primavera ci servono i fusti fertili e quando spuntano gli altri, che si riconoscono molto bene, è già tardi per i nostri scopi.
  



  • L'Equiseto in cucina come nel medioevo

Annoverato fra i succedanei dell’asparago, l’equiseto ha una lunga tradizione culinaria. Prima di cucinarlo si deve staccare la guaina dal fusto e gli sporangi apicali, cioè la punta. Per la sua precoce comparsa, all'inizio della primavera, un tempo era un cibo apprezzato, non tanto per la sua bontà, ma perché chi aveva passato l'inverno a mangiare solo polenta e marroni secchi gradiva i germogli della primavera.
La ricetta classica prevede di lessarlo in acqua salata per 10 minuti, infarinarlo in una pastella di acqua e farina e friggerlo. Durante la quaresima era considerato un sostituto del pesce. 
  


 

A sinistra: 
la pianta "ripulita" e pronta.  
A destra: appena colta






 









L'erba dl' aqua infarinata e dopo la frittura

  • L'Equiseto nel formaggio fuso.

Raccogliamo i cauli fertili e priviamoli sia delle guaine sia degli sporangi apicali. Laviamoli, lessiamoli in acqua e sale, scoliamoli e lasciamo che perdano acqua nello scolapasta.


Distendiamoli in una padella, sopra una fetta sottile di formaggio. Aggiungiamo un po' d'olio, copriamo con un'altra fetta di formaggio e facciamolo fondere.

 Come gli asparagi questa pianta non è molto digeribile e va consumata come contorno, con moderazione. Non ha tossine ma contiene l'enzima thiaminase, che tenderebbe a far calare la vitamina B1 se l'erba diventasse una costante della dieta.


Nota: altri articoli di questo genere sono nell'archivio del blog a queste date:
02.11.11  I liquori aromatici
21.05.11  Gli olii balsamici
11.06.11  Qualche pianta da cucinare
11.05.11  Quattro piante da cucinare

Tutte le piante usate per le ricette sono state raccolte 
nei monti attorno a Marradi


domenica 8 aprile 2012

A Lozzole a mezzanotte

Un trekking
per la messa di Pasqua



La chiesa 
nel primo Novecento



La chiesa di Lozzole è in mezzo ai monti fra Palazzuolo e Marradi. Si raggiunge in diversi modi, in jeep se si è abili nella guida, e soprattutto a piedi. Qui non abita nessuno nel raggio di diversi chilometri perché dai poderi della parrocchia si ricavava poca risorsa e molta miseria e così furono abbandonati tanti anni fa. Chi ha abitato qui ha mangiato il pane più duro e quello più salato di tutti. Però il posto ha un fascino particolare, spirituale per chi crede e comunque ambientale per chi non crede.
Cinquanta o sessant'anni fa nelle case vicino alla chiesa c'era un circolo ricreativo dove si riunivano giovani dei poderi della parrocchia e ogni tanto si faceva qualche festa da ballo. Nei primi anni Cinquanta fu istituito anche un Seggio Elettorale nella scuola elementare.

La chiesa è millenaria ma ora non interessa riassumerne la storia, perché c'è già su questo blog, alla data 3 ottobre 2011. Negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta il sito passò il periodo peggiore della sua storia secolare, abbandonato e dimenticato quasi da tutti. Poi negli ultimi anni un prete appassionato di chiese disperse fra i monti, Don Antonio, cittadino onorario di Marradi, con un gruppo di volontari ha messo mano alla chiesa e alla canonica e qui è tornata la vita. Ogni anno si celebra la messa di mezzanotte, a Natale e a Pasqua, e poi la festa alla prima domenica di Maggio e all' ultima di settembre, secondo un calendario liturgico particolare, stabilito dallo stesso don Antonio e dal suo gruppo.

Quello che segue è il resoconto 
di un trekking fatto il 7 aprile 2012. 
alla messa notturna di Pasqua.




 Mappa del trekking

Siamo partiti verso sera dal Passo del Carnevale, a metà strada fra Marradi e Palazzuolo, per raggiungere la chiesa attraverso un crinale molto panoramico, a mille metri di quota.
 Siamo un discreto gruppo: Francesco Barzagli, Stefano Bentivogli, Patrizia Calamini, Pier Luigi Calamini, Ermanno Cavina, Daniele Filippi, Stefania Ghetti, Claudio Mercatali, Rita Neri, Enrico Signorelli, Silvia Signorelli, Marco Solaroli.

Tira il vento di corìna, nome locale dello scirocco, mescolato con qualche altra corrente d'aria. Questo significa che è caldo umido, a tratti freddo e le nuvole viaggiano veloci nel cielo. Siamo su un crinale esposto e può darsi che piova, perché con la corìna il tempo cambia ogni ora. In compenso la corìna movimenta il cielo e il paesaggio ci guadagna.

Clicca sulle immagini se le vuoi ingrandire





Il Monte Lavane visto dal Poggio
di Santa Lucia fa un bell'effetto.









E' cominciata la salita verso
il monte Prevaligo (1065m)



 

Siamo arrivati al capanno da caccia del crinale
detto La Renzola. Il vento è fortissimo.



 
Marcel Proust diceva:
"Il tempo è un' illusione, che si dilata e si ristringe nella nostra mente a seconda dell' intensità con cui viene vissuta".

Questa sera è vero, perché il trekking ci ha coinvolto e il tempo è volato.
La meta è là in fondo. Sono le 19,30 e arrivano gli ultimi raggi di Sole dal Passo della Sambuca.





 
Lozzole!
Siamo ormai all'imbrunire.


 


 
La chiesa è già pronta.



Secondo il calendario ecclesiastico la Pasqua cade la domenica che segue il primo plenilunio dopo l'equinozio di primavera. Venerdì 6 aprile c'era la Luna piena e dunque oggi 8 aprile è Pasqua.
 La Luna non si vede, ma la sua luce ci aiuta a proseguire. Infatti siamo diretti al rifugio di Casté, dopo la Croce di Lozzole, dove faremo cena in attesa dell'ora della messa.



In cammino verso
 il rifugio di Casté




 










A sinistra: al caldo del camino e in buona compagnia l'attesa per l'ora della messa è piacevole.
A destra: la luna dietro alle nuvole rischiara il cielo sopra a Casté. Sono quasi le undici  ed è ora di muoversi.


 










Sopra a sinistra: siamo tornati alla chiesa, comincia ad arrivare la gente.
Sopra a destra: E' cominciata la messa. La chiesa è gremita.




A fianco: quattro chiacchiere 
all' uscita.



 
Poi si riparte, ognuno per la sua strada: chi verso Campergozzole, chi verso Fantino e noi verso il Monte Carnevale.  Quest'anno la messa di Pasqua l'abbiamo presa per bene, il pedometro segna 12 chilometri. Arrivederci alla festa di maggio.

venerdì 6 aprile 2012

Il cuculo della Preda

Il migratore 
che arriva 
in Primavera
di Pierfrancesco Pucci



Ai tri e cuc l'ha da vnì,
S'on nè arivé per l'ot
o ch'on vè o chi l'ha cot
(proverbio romagnolo, 
Ai tri = 3 aprile)


Ma com'è sollecito il cuculo che viene nel mio capanno della Preda, sotto il Monte dell'Inferno! Quest'anno l'ho sentito per la prima volta il 29 di marzo, ma mi è stato detto che era arrivato già da qualche giorno. Praticamente tutti gli anni, anche con avverse condizioni climatiche, arriva puntualmente negli ultimi giorni di marzo. Cambia il clima, non ci sono più le mezze stagioni, ma il cuculo è sempre puntuale. Questo lo avevano osservato anche nel Medioevo, prima della Riforma Gregoriana del calendario, che mise fine all'effetto della precessione degli equinozi, causa del ritardo delle stagioni.



Infatti anticamente il cuculo veniva chiamato "uccello di S.Giorgio", dalla data in cui comunemente arrivava, il 23 marzo. Poi per effetto del moto retrogrado dell'asse terrestre, nel corso di alcuni secoli l'inizio della primavera si era spostato di diversi giorni, ma il cuculo continuava ad arrivare sempre nella medesima epoca, con ciò rimarcando il fatto che la natura non tien conto dei calendari. Questo uccello , delle dimensioni di un piccolo falco, è abbastanza schivo e solitario. Diciamo che è facilissimo sentirlo e difficile vederlo. Deve il suo nome al canto, praticamente uguale in tutte le parti del mondo, fatto di due sole note ripetute all'infinito. In Inghilterra si chiama "the common cuckoo", in Francia "le coucu", in Germania "der kuckuk".
In tutta Europa il cuculo annuncia l'arrivo della Primavera ed è oggetto di leggende, favole e modi di dire. Nei paesi scandinavi le ragazze nubili stavano attente a quante volte il cuculo ripeteva il suo verso, per dedurne gli anni che dovevano aspettare per sposarsi. Il Francia è l'emblema dei mariti traditi, un po' come da noi le corna: accennare al suo verso in presenza di uno di questi ha causato, e causa tutt'ora, liti, risse e, in passato, coltellate. Nell'appennino emiliano e ligure si credeva che udire il suo canto senza soldi in tasca fosse indizio di un anno di miseria: unico rimedio, se non c'erano soldi, era quello di buttarsi immediatamente per terra. In Romagna i vecchi esclamavano: "cuculo, bel cuculo d'aprile, quanti anni ho prima di morire?".
In Toscana il proverbio diceva: "Quando il cuculo canta, c'è da fare per tutti" perché iniziavano i lavori agricoli. Sempre in Toscana si credeva che questo uccello avesse la capacità di sputare e venivano indicati come sputi di cuculo quei grumi di schiumetta bianca che spesso si notano sulle erbe leguminose d'estate, che invece sono emesse dalla larva della cicadella dei prati (cicadella viridis).

Il secreto di una cicadella 
su una pianta.

Anche l'espressione "vecchio come il cucco" non ha alcun fondamento, perché la durata della sua vita non è dissimile da quella dei suoi congeneri. Semmai il detto ha origine dal fatto che le sue carni sono dure e stoppose, come di animale molto vecchio. Ricordo da bambino di aver sentito i cacciatori che lo appostavano al suo arrivo (allora la caccia era aperta anche in aprile!) dire che la sua carne era tigliosa e sapeva di pepe.
Nel mio capanno della Preda il cuculo è un habitué. Praticamente da aprile fino a metà luglio lo vedo quasi sempre sulla vetta più alta degli alberi di buttata. 


Il capanno della Preda


Delle volte mi metto a leggere in uno sdraio all'ombra dei faggi e immancabilmente arriva, silenzioso e rapido sulla cima più alta. Non riesce a vedermi perché sono nascosto dalla vegetazione, ma io lo vedo bene. Appena arrivato arruffa le penne, dispiega il solito canto e si ferma, per ricominciare poi con un borbottìo sommesso che finisce con una specie di gorgoglìo dai toni bassissimi. Se ne sta fermo al sole anche per diversi minuti, se non vede qualcosa di sospetto. Dicono che sia un insettivoro di grande utilità per l'agricoltura, perché si nutre di insetti sgraditi agli altri uccelli.




La Preda è una capanna di boscaioli, al crocevia della viabilità campestre nella valletta dell' Umbricàra, dove siamo ora. Il monte scuro è il Pollaio (1212m).


Personalmente l'ho visto una sola volta precipitarsi dalla solita vetta verso terra in prossimità di un vecchio tronco di legno che dovevo segare. Da un buco di questo ha estratto un grosso bruco peloso di cui ignoro il nome (mi pare fosse giallo con i puntini rossi) l'ha buttato per aria con il becco, l'ha ripreso al volo e se l'è ingozzato. Poi, soddisfatto, ha scrollato le penne, è tornato sulla vetta e infine se n'è andato.
Il suo verso caratteristico, che sembra facilmente imitabile, è invece molto difficile a riprodursi, anche con gli appositi richiami di legno cavo, come si usava una volta, quando la sua caccia era consentita. Io ci ho provato tante volte, con il solo risultato di far scappare anche quelli vicini. Il mio amico Rosghino di Palazzuolo riesce invece a eseguirlo così bene, accomodando in un certo modo il cavo della mano contro la bocca che immancabilmente fa arrivare il cuculo più vicino. Questo gliel' ho visto fare diverse volte.
Arrivati alla fine di luglio il cuculo smette di cantare e di mostrarsi, per così dire, in pubblico. Si ritira dove la macchia o il bosco sono più folti e attende il tempo della migrazione, nascosto e invisibile. Dopo le prime piogge, nella seconda metà d'agosto, se ne riparte verso le savane africane. Fino alla prossima primavera non sentiremo più il suo canto fiero e malinconico.


domenica 1 aprile 2012

Lo sfollamento del 1944

Francesco Cappelli
racconta…



Negli anni della Seconda Guerra Mondiale la parola "sfollamento" indicava l'abbandono forzato della propria casa, imposto dai Tedeschi. Il fronte si avvicinava a Marradi e i Civili, donne e bambini se ne dovevano andare, per non intralciare le operazioni militari. I Capitelli, indicato nella foto qui accanto, è un poderetto che i Tedeschi usarono come punto di osservazione, dopo aver sgomberato i marradesi che erano sfollati lì. Fra questi c'era Francesco Cappelli e da qui comincia il suo racconto:

“ Eravamo verso la fine dell’estate 1944, la campagna si dipingeva di colori tenui, flebili, che anticipavano l’autunno atteso con ansia nella speranza che ponesse fine a questo conflitto che procurava lutti e distruzioni alla nostra amata patria.
Il terrore che io provavo era grande. Udivo da lontano un rumore sommesso accompagnato da lampi continui come se stesse per arrivare un forte temporale. Ma non era pioggia che si annunciava, bensì erano cannoni che lanciavano in continuazione granate di diverso calibro. Fu in quel periodo che il Comando Tedesco ci impose di partire dalla zona di Val della Meda e allora noi ci ricongiungemmo con mio zio Gino Miniati e mio cugino Mario ai “ Capitelli” verso Palazzuolo, vicino al ponte di Colecchio, dove restammo una decina di giorni circa.
 Ricordo che in quel periodo, nella notte, io e Mario Miniati uscivamo dalla stalla dove dormivamo insieme a una quindicina di persone, e osservavamo il cielo illuminato da potenti “ bengala”. Questi illuminavano il paese come se fosse giorno poi, lentamente, si spengevano…
Altre notti abbandonavamo la stalla e correvamo verso un umidissimo rifugio scavato nel bosco. Poi ci fu ordinato di abbandonare il podere e recarci altrove.

... osservavamo il cielo
illuminato da potenti bengala ...

Fu fatto un consiglio di famiglia e mio zio Gino con la moglie Lina e i figli Gabriele e Mario decisero di scavalcare i monti e recarsi nella zona di Gamberaldi dove Gino fu sequestrato e ucciso dai partigiani. Io, mia mamma Veglia, sorella di Gino, mia sorella Adriana, mia nonna Florinda, mia zia Anita con la piccola Giovanna, seguimmo gli ordini del Comando Tedesco che ci inviò a Camosciano dove era concentrato mezzo paese. Anche lì sostammo alcuni giorni in spasmodica attesa e con pochissimo cibo. La nostra destinazione era Medicina nella bassa Romagna: a piccoli gruppi dovevamo partire a piedi per raggiungere il luogo predestinato.
Una sera giunse l’ordine di organizzarci ed incolonnarci per raggiungere la meta. In pochi minuti, con carri trainati da buoi, ci incolonnammo e , a passo lento, ci avviammo verso la Romagna.
 Eravamo guidati e controllati da una decina di guardie che indossavano la divisa della Repubblica di Salò.  Io ero febbricitante ma non ne feci parola: durante il giorno non avevo fatto altro che mangiare dalle viti l’uva che mi dissetava e mi nutriva, ma forse avevo esagerato.

Bescheinigung, il lasciapassare
 intestato a Veglia, madre di Francesco, 
per andare al campo di raccolta 
di Medicina, vicino a Bologna.



Durante il tragitto vedevamo gruppi che si dileguavano nel buio per raggiungere località diverse da quella predestinata. Noi non avevamo alcun carro ma solo uno zaino ciascuno, nel quale avevamo riposto il nostro guardaroba. Lì cominciai a scoprire la fatica con la febbre e il peso sulla schiena. Finalmente giungemmo a San Cassiano e fummo collocati in locali vuoti a pian terreno e ci fu dato del fieno dove dovevamo sdraiarci per riposare. Io sentivo il fieno bucare la mia carne ma il sonno era tanto che mi addormentai. Al mattino fummo incolonnati di nuovo per incamminarci verso Medicina: nel frattempo la colonna si era assottigliata così anche i miei confabularono e decisero di scappare alla prima occasione che capitò dopo il ponte di Fognano. Lì scoprimmo che alla sinistra della strada la porta che ora conduce all’ospizio era aperta e ci infilammo dentro evitando di essere visti dalle guardie.
 
... i miei confabularono e decisero 
di scappare alla prima occasione, 
che capitò dopo il ponte di Fognano ...

A destra: La strada al centro di Fognano,
che va verso il ponte sul Rio Bagno

Attendemmo con pazienza e speranza che la colonna si sfilasse tutta e dopo un certo tempo ci incamminammo verso Brisighella dove speravamo nell’accoglienza dei nostri parenti, cosa che fecero offrendoci un locale e una cantina nel Bar Aurora nella piazza del paese come rifugio per la notte. Finalmente avevamo raggiunto una certa libertà!

... speravamo nell'accoglienza 
dei nostri parenti, cosa che fecero offrendoci 
un locale e una cantina nel Bar Aurora ...

A sinistra: Brisighella, via Firenze 
(di  fronte alla chiesa principale) 
in una foto d'epoca. Il bar Aurora 
si intravede sulla sinistra.

A Brisighella facemmo presto amicizia sia con altri sfollati sia con alcuni locali, ma il problema principale era procurarci del cibo.  Nel frattempo un plotone di tedeschi requisì una stanza della cantina dove alloggiavamo per potersi riposare: essi venivano dalla “ prima linea” del fronte che era nei pressi di Marradi. Io feci amicizia con un giovane tedesco che mi portava notizie del mio paese e mi regalò una rivoltella a tamburo che però non funzionava perché aveva il grilletto che non scattava. A me però piaceva lo stesso e ricordo che la custodivo gelosamente tanto che seppi farla sfuggire anche a una perquisizione tedesca confondendola con i miei giochi dentro un comodino.
 Un giorno quel giovane tedesco mi si avvicinò e mi disse:” Marradi alles Kaputt” Io non volevo credere che Marradi fosse "tutto finito" ma quando tre mesi dopo rientrammo nel paese scoprì che Viale Baccarini e Via Pescetti erano state distrutte dai bombardamenti aerei alleati mentre Via Celestino Bianchi dove abitavo io e la mia casa erano completamente scomparse sotto un cumulo di macerie. Il Ponte Grande sul Lamone non esisteva più e anche mezza via Tamburini era stata distrutta dalle mine con cui i tedeschi cercavano di rallentare l’avanzata degli Alleati.

... Marradi alles kaputt, 
Marradi è tutta distrutta ...


In questa foto famosa 
Mariòla rientra in paese 
con la sua mucca.


Marradi fu liberata dagli Alleati il 25 settembre del 1944 e noi tutti ci attendevamo che essi raggiungessero Brisighella in pochi giorni. Ma la guerra ha ritmi e tempi propri: il fronte si fermò nei pressi di Monte Romano - Sant’Adriano – Lutirano - Tredozio e non si muoveva.
Quello che avanzava inesorabilmente e puntualmente era l’inverno che ci colse di sorpresa e con vestiti estivi. Forse destammo pietà perché il figlio del Dottor Montanari di Brisighella mi regalò un cappotto e qualche altro capo di vestiario per coprirmi in maniera adeguata.
Poco prima ci giunse la tremenda notizia del sequestro di mio zio Gino Miniati da parte dei partigiani. Sapevamo che i partigiani non facevano prigionieri e presto avemmo la conferma dell’ uccisione sommaria di mio zio da parte degli stessi. Questo fatto ci turbò ma cercammo di tenerlo nascosto a mia nonna Florinda che apprese la notizia solo quando rientrammo a Marradi.
 Ricordo che man mano che il fronte avanzava, Brisighella veniva colpita da due o tre cannonate al giorno, sempre alla stessa ora. Le cannonate e il passaggio delle formazioni aeree non impensierivano i brisighellesi che dicevano che loro, a New York, avevano il Nunzio Apostolico Cardinal Cicognani…
 
... ma noi fuggivamo ugualmente in un rifugio molto protetto sotto la Torre dell’Orologio costituito da una profonda galleria scavata nella roccia dove ci sentivamo al sicuro.

 
A sinistra:
La Signora del Tempo, 
ossia la Torre 
dell' Orologio di Brisighella .



Agli inizi di ottobre venimmo a sapere che nella linea del fronte vi era una via poco sorvegliata dai Tedeschi e che in quel punto si poteva passare ma mentre ci preparavamo a partire ci giunse la notizia che qualche civile passando su quella via era incappato nelle mine morendo. Così decidemmo di rinviare la partenza.
Intanto il fronte si avvicinava e sentivamo il rumore del continuo transitare delle truppe tedesche con i mezzi corazzati e i cannoni. Tornata la calma udimmo due forti boati che fecero tremare i vetri del paese: I Tedeschi avevano fatto saltare i due ponti paralleli, quello della ferrovia e quello stradale chiamato il “Ponte Lungo” per le molteplici arcate.


I ponti della ferrovia 
(il primo) e della strada 
per Faenza 






Capimmo con sollievo che il fronte si allontanava e che la via della valle del Lamone era liberata. Eravamo ai primi di Dicembre e la gioia ci fece scordare la fame sofferta, i disagi e la paura subiti.

A sinistra: 
gli Alleati a Brisighella
... eravamo ai primi di dicembre 
e la gioia ci fece scordare 
la fame sofferta ...


In quei giorni vedemmo avanzare per Via Roma dei militari della “Maiella” vestiti con divise ed armi inglesi che furono accolti con applausi dalla popolazione affacciata alle finestre. Ci sentivamo liberi ma il pericolo non era ancora passato perché alcuni militari della “Maiella” alcuni giorni dopo morirono in uno scontro con i Tedeschi. Così dopo tre mesi si concluse il nostro sfollamento a Brisighella e potemmo rientrare a Marradi per riorganizzarci nel migliore dei modi.



 Alcuni soldati della brigata 
Maiella in rassegna, forse sono 
nella piazza di Brisighella.
Questa formazione era aggregata 
all' VIII Armata inglese 
e composta tutta da italiani.



Fonti Notizie e documenti forniti dall'autore, stesura in collaborazione con Luisa Calderoni