Quello che segue è l’inizio di “Da Piazza Navona agli Appennini, dagli
Appennini a Piazza Navona” – Cronaca Storia Documentazione Testimonianza
Immagini della dantesca Valle dell’Acquacheta a cura del Collettivo “Zappatori
senza padroni G.Winstanley – La terra a chi la lavora - di Marco Bucciarelli
editato da Stampa Alternativa nei primi anni 80, ormai scomparso e di cui non
posso che ringraziare il mitico editore, Marcello Baraghini, per avermi spedito
la fotocopia del suo originale.
Sono alcuni anni che progetto di raccogliere le storie e i documenti di quell’esodo iniziato proprio nel ‘77’ . Grazie a questo libro, ad altri documenti e racconti orali credo di riuscire a dare corpo a questo lavoro di assemblaggio di questi “fiori di Guttemberg” prima che scompaiano.
Sono alcuni anni che progetto di raccogliere le storie e i documenti di quell’esodo iniziato proprio nel ‘77’ . Grazie a questo libro, ad altri documenti e racconti orali credo di riuscire a dare corpo a questo lavoro di assemblaggio di questi “fiori di Guttemberg” prima che scompaiano.
Per questo lavoro spero di ricevere aiuto da quante/i, in quel periodo,
cercarono di dare corpo ai propri desideri andando a ri/abitare i luoghi
dell’abbandono. Saluto da lontano anche ad alcuni amici, Ulisse e Giambardo,
che continuano quel viaggio iniziato 30 anni fa (adesso vivono in Spagna,
chiaramente in una comune…).
La doppia copertina
del libro
(…) Il nostro concetto presuntuoso di tempo e di spazio creò la parola inizio. Eppure non esistono inizi se qualsiasi cosa è conseguenza di un’altra.
Non si sa quale dei torrentelli di montagna costituisca l’alto corso del fiume e quali altri siano semplice affluenti.
Si può dire che non abbia un’origine autonoma ma si formi progressivamente via via che i singoli torrenti portano il loro contributo di acque, e non sarebbe il fiume che è se anche uno solo di quegli apporti venisse a mancare.
Rocco lucano bolognese, quello che lamentava di non essersi mai innamorato, mentre venivano sù dalla Rocca a San Benedetto chiese a Giunco com’era cominciato, per lui. Giunco disse che cosa, lui spiegò ma tutto, Giunco non afferrò la domanda.
Giunco portava la bandiera nera
quando incontrò Ulisse. Giunco con i perugini e Ulisse con Padova e la Franca. Tutti
gli altri erano partiti. Si erano ubriacati, avevano arrembato il palco,
buttato giù i microfoni, ed erano partiti. Sempre portandosi dietro quello
striscione strappato con la scritta ZAPPATORI SENZA PADRONE.
Giunco, Ulisse, Padova, la Franca
restarono a far tappeto in corso Vannucci. Ulisse fece lo sputafoco ma non si
fermò abbastanza gente.
Allora andarono tutti e quattro a dormire nei sassi di Perugia, millenari rifugi quasi senza finestre, forse ex convento o carceri.
I perugini ci andavano abitualmente a prendere dalla muffa verde delle pareti tufacee un elemento chimico per la polvere da sparo.
Allora andarono tutti e quattro a dormire nei sassi di Perugia, millenari rifugi quasi senza finestre, forse ex convento o carceri.
I perugini ci andavano abitualmente a prendere dalla muffa verde delle pareti tufacee un elemento chimico per la polvere da sparo.
Franca raccontò di aver fatto l’amore la prima volta distesa su una cattedra universitaria. E non la si sarebbe mai detta un’ex studentessa d’ università.
Bellezza meravigliosa
dell’antibellezza, rifiuto di ogni estetica. Rifiuto di qualsiasi cura. Parlare
con gli occhi neri di ariete silenziosa.
All’inizio dell’inverno se n’andò
a vivere in piazza a Bologna. Volle divenire la donna di un sardo di trenta o
quarant’anni che si ubriacava dieci volte al giorno e la picchiava. La mattina
andavano a mangiare dalla baronessa, durante la giornata facevano colletta e
bevevano, poi la notte dormivano sui cartoni in una casa pericolante.
Franca ha voluto provare quella
vita come altre vite. A quest’ora sarà magari su un carrozzone a cavalli, in
Irlanda con uno zingaro vecchissimo.
Clicca sulle immagini
se le vuoi ingrandire
... oppure per la strada dei poderi ...
A Pian Barùccioli si arrivava per l’Arrabbiata, sentiero ripidissimo di un paio di chilometri dalla strada asfaltata, oppure per la strada dei poderi, mulattiera più lunga ma a pendenza più diluita che direttamente dal paese veniva a collegare quasi tutte le cascine abbandonate della valle seguendo a una certa altitudine il corso del fiume. Esistevano anche altri viottoli secondari, essi pure per fortuna non percorribili in alcun caso da veicoli a motore.
Una vallata tutta per noi: avevamo da dare nomi nuovi a tutte le cose, e quelle erano le nostre Ande. Olmo e Giunco si sognavano campesinos e indossavano il poncione rosso che con la pioggia s’infradiciava e scoloriva e con il vento si appuntava ai rovi e ai biancospini.
Fieri delle nostre sfrenatezze,
dei nostri aspetti trasandati, selvaggi delle foreste appenniniche,
esorcizzavamo con disprezzo ricorrente i nostri trascorsi cittadini. Odiavamo
le città piccole che uccidono mentalmente come le città grandi che uccidono
materialmente. Amavamo i nostri sentieri che, anche se al catasto di Forlì
segnati come strada comunale, non erano che rigagnoli stretti di terra e acqua
in mezzo al verde odoroso. I tornanti a strapiombo sul fiume, scavati o
costruiti ìn pietra con maestria da museo, resistevano ancora intatti ai
secoli, mentre la pista in terra battuta della forestale a due anni dalla
costruzione franava dappertutto, con i suoi steccati e belvederi e frecce che
avrebbero dovuto convogliare orde di turisti verso le nostre cascate e la casa
dove si rifugiò Dante.
Giocavamo a immaginare i tempi in
cui la vallata non era abbandonata, in cui muli carichi si arrampicavano lassù
mentre tutto intorno al posto dei rovi il grano spuntava al disgelo, e si
mandava un cavallo in paese per far venire la maestrina.
Sopra e a fianco: Due aspetti delle cascate
dell'Acquacheta
(la persona che osserva è Giovanni Ravagli)
(la persona che osserva è Giovanni Ravagli)
Il becchjno del paese, Yurj sloveno, e il vecchio tabaccaio, piangevano per la gioia che qualcuno fosse tornato a vivere nei loro vecchi posti e ce ne parlavano rivelandoci l’ubicazione di pozzi interrati eccetera.
Ogni giorno c’era da scoprire un
vecchio sentiero che s’addentrava nel bosco e magari conduceva a una casa
sconosciuta, e la casa poteva essere un rudere ma poteva anche essere buona e
utilizzabile.
Si guadava e si passava in
Toscana, con il villaggio dei Romiti proprio sopra la cascata di settanta
metri, e una piana fertilissima intorno, e il Fiorentinaccio che ci visse e ne
parlò nel purgatorio.
Quando il guado mancava, lo facevamo.
Quella volta con Giò e lo Sceriffo passammo la serata intera sotto la pioggia
diluviale dei primi di maggio, a gettar sassi nel fiume, a monte delle cascate,
per alzarne il letto e creare un passaggio. Giunco si era impigliato le gambe,
traversando sul tronco, e sarebbe finito in acqua se Già non l’avesse tirato a
riva. Decadde di molto nella stima altezzosa dello Sceriffo.
Il fiume giù in fondo, il fiume
che dall’appennino toscano va a sfociare a Ravenna, mille sorgenti trasformate
in pozzo vicino alle case e altrettanti ruscelli che precipitavano giù e
rallentavano solo dove trovavano da ristagnare.
Ristagnavano tra il muschio delle pietre levigate e le radici degli alberi. Scoprivamo laghetti impensabili in zone nascoste dei boschi, e probabilmente da anni o decenni un essere umano non guardava la sua faccia là dentro: lo specchio era troppo limpido, non usato, di una trasparenza incredibile.
Anche se per caso non avevamo sete, non potevamo fare a meno di chinarci a bere, a bere con la bocca. Le mani le lasciavamo adoperare a Daniele che ce la menava col voler esser chiamato Prana e col voler dimostrare l’origine divina dell’uomo per il fatto che nessun altro animale berrebbe con gli occhi rivolti al cielo. Ce la menava un casino: raccontava di dover per forza prendere l’aereo per andare in India essendo ancora un gran peccatore, ma che però qualche piccolo progresso nella fede l’aveva pur compiuto e da Forlì a Predappio poteva anche spostarsi con la sola energia del pensiero (…)
Ristagnavano tra il muschio delle pietre levigate e le radici degli alberi. Scoprivamo laghetti impensabili in zone nascoste dei boschi, e probabilmente da anni o decenni un essere umano non guardava la sua faccia là dentro: lo specchio era troppo limpido, non usato, di una trasparenza incredibile.
Anche se per caso non avevamo sete, non potevamo fare a meno di chinarci a bere, a bere con la bocca. Le mani le lasciavamo adoperare a Daniele che ce la menava col voler esser chiamato Prana e col voler dimostrare l’origine divina dell’uomo per il fatto che nessun altro animale berrebbe con gli occhi rivolti al cielo. Ce la menava un casino: raccontava di dover per forza prendere l’aereo per andare in India essendo ancora un gran peccatore, ma che però qualche piccolo progresso nella fede l’aveva pur compiuto e da Forlì a Predappio poteva anche spostarsi con la sola energia del pensiero (…)
Un altro articolo su Pianbaruccioli è nell'archivio alla data 22 luglio 2012 con il titolo "Biscotti detto Gianni".
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