martedì 30 gennaio 2018

1923 L'ampliamento della provincia di Forlì

Il passaggio
dei comuni
della Romagna
Toscana all’ Emilia
ricerca di Claudio Mercatali

 I territori “transappenninici” della Romagna Toscana.

Nel 1861 con l' Unità d'Italia la Romagna entrò nella nuova regione detta Emilia. Ravenna era già capoluogo di provincia e Forlì lo divenne. Però molti territori romagnoli erano in altre province: Imola qualche anno prima era stata aggregata a Bologna, i quattordici comuni della Romagna Toscana rimasero sotto Firenze, i sette comuni dell’alta Val Marecchia entrarono nella provincia di Pesaro.

 

Perché la Romagna subì una penalizzazione così forte?
Secondo una ipotesi un po’ campanilista ma  molto logica tutto fu dovuto alla diffidenza di Cavour per l’ambiente romagnolo dell’ epoca, che era parecchio umorale e di tendenza ribelle. C’è un detto che riassume questo atteggiamento duro e focoso:
 
“A vég per la mì stréda, encòntra a la mi guèra, sa casc a casc par tèra, azidénti a chim tù sò”.
 
L’andare avanti senza “badare a niente” in politica paga poco. Visto con gli occhi dei funzionari del Re della nuova Italia anche il fatto che un prete scomunicato (don Giovanni Verità), un repubblicano agitato (Giuseppe Garibaldi) e un bandito di strada (Stefano Pelloni, detto il Passatore) avessero inciso così a fondo nell’ animo e nei ricordi della gente non era un buon segno.
Perciò si preferì spostare il baricentro della Regione il più possibile verso l’Emilia, che oltretutto aveva un’ ottima tradizione amministrativa, perché Modena, Reggio, Parma e Piacenza erano state per lungo tempo capitali di ducati indipendenti. Questa situazione cambiò nel 1923, quando venne allargata la provincia di Forlì, con l’aggregazione dei comuni della Romagna Toscana, esclusi Marradi e Palazzuolo sul Senio.



Torniamo indietro al 1923, e cerchiamo di capire come venne vissuto dalla gente questo passaggio da una provincia all’ altra, perché un trasferimento in blocco di dodici comuni non è una cosa che capita tutti i giorni. Il periodico repubblicano Il Pensiero Romagnolo, edito a Forlì, fece una  doppia considerazione, negativa dal punto di vista finanziario e positiva per l'aspetto politico. Il Comune più danneggiato dal cambiamento fu Rocca San Cassiano, che cessò di essere capoluogo del Circondario e perse qualche ufficio amministrativo e la sede del tribunale. Quindi in un primo momento il passaggio non fu tanto gradito in quel paese.

Qualche altra polemica sorse a Modigliana e Tredozio, che volevano essere aggregati a Ravenna, come Faenza. In effetti sarebbe stato logico ma lo scopo primo di tutta l’operazione era l’allargamento della Provincia di Forlì e i modiglianesi “obtorto collo” si rassegnarono. Però i due comuni furono aggregati a Ravenna per il tribunale e a Faenza per la Pretura e questo fu interpretato come un primo segnale di un ripensamento e calmò i più.



In fin dei conti il cambio di provincia fu accettato, perché era conveniente e giusto, ma non ci furono grandi entusiasmi. Se dietro l’operazione non ci fosse stata la precisa volontà di Mussolini forse le cose sarebbero rimaste così com’ erano per molti anni ancora. Il fatto è che cinque secoli di dipendenza da Firenze avevano lasciato il segno, i Medici erano stati bravi governanti e l’amministrazione laica e un po’ asburgica dei Granduchi di Lorena era stata nettamente migliore di quella papalina del resto della Romagna. E nel Mugello? La decisione era penalizzante per la Toscana ma fu accettata perché c'era la precisa volontà di Mussolini, come si capisce leggendo l' articolo qui sotto.
 
 
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La Carta della provincia di Firenze
prima del 1923.

 
E Marradi? In sostanza il paese era rimasto fuori da tutto questo, perché la vallata del Lamone gravita su Faenza e non su Forlì. Per noi il trasferimento degli altri Comuni della Romagna Toscana fu uno svantaggio, perché il bacino del Lamone rimase diviso fra Forlì (Modigliana e Tredozio), Ravenna (Brisighella) e Firenze (Marradi). Quattro comuni in tre province di due regioni differenti.
 
La sensazione di essere rimasti tagliati fuori, staccati dagli altri comuni della Romagna Toscana era evidente e ogni tanto veniva fuori. Ad un certo punto, nel 1933, intervenne il Segretario Federale del Fascio Pavolini e troncò i dubbi nel modo che si legge qui accanto ...

Però dopo il Fascismo la questione del passaggio di Marradi all' Emilia Romagna è stata posta molte altre volte e non è detto che non risalti fuori.

 




 
Fonti
Legge 4 marzo 1923 n° 544 (G.U. 23 marzo 1923 n° 72)
Resto del Carlino 22 febbraio, 2 e 3 marzo 1923
La Nazione 3 marzo 1923
Il pensiero romagnolo Giornale del PRI dell’ 8 marzo 1923
Il Momento, giornale del PPI di Forlì, 22 febbraio 1923
Il Messaggero del Mugello 4 marzo 1923 e 19 novembre 1933

Si ringrazia la Biblioteca Comunale di Forlì per l'indispensabile aiuto dato.

 

mercoledì 24 gennaio 2018

1931 Fascismo e Azione Cattolica

Un duro contrasto
a Marradi
ricerca di Claudio Mercatali

 
 
Il Partito Popolare (pipì per i denigratori) fondato da Don Sturzo nel 1919 segnò l'ingresso dei cattolici in politica con un partito fatto per questo preciso scopo, al quale poi seguì la Democrazia Cristiana.
Fu sciolto nel 1924 ma i Popolari continuarono in certi casi a fare una opposizione strisciante, soprattutto con l'Azione Cattolica.

Mussolini il 9 aprile 1928 sciolse tutte le associazioni non fasciste ma per questioni di opportunità in vista del Concordato dovette accettare l'Azione Cattolica. Era una situazione ambigua e ciascuno faceva a modo suo: il fascismo con l'Opera Nazionale Balilla, allevava le nuove generazioni come succede in tutte le dittature e la Chiesa insegnava ai giovani la sua dottrina sociale.

L'Azione Cattolica, con cinquemila sedi sparse in tutta Italia, svolgeva la sua attività anche con iniziative implicitamente politiche. L'Opera Balilla dal canto suo era ormai diventata un grande apparato del regime e contava più di un milione e mezzo di iscritti divisi in balilla, avanguardisti, piccole italiane e giovani italiane.

Il 3 agosto 1930 l'Avvenire d'Italia incitò l'Azione Cattolica «ad invadere tutti i settori della vita sociale». Il contrasto era insanabile e il regime la dichiarò disciolta con il decreto del 29 maggio 1931.
 
Eccoci al punto che ci interessa. Come venne vissuto lo scioglimento dell' Azione cattolica qui in paese, dove il Partito Popolare aveva avuto larghissimo seguito prima del fascismo e sotto sotto anche dopo?

Leggiamo l'articolo qui accanto dove si parla, senza dirne mai il nome, di don Mario Valentini parroco di Lutirano, che insisteva con il suo circolo dell' Azione Cattolica nonostante il decreto di scioglimento.

 Don Mario era nato a Rocca San Cassiano (1900) e nel 1925 era Mansionario nella cattedrale di Modigliana. Attivissimo nell' Azione Cattolica aveva fondato il Reparto Esploratori Cattolici, nome curioso di un gruppo di scout. Era quindi in contrasto netto con i fascisti dell' Opera Balilla di Modigliana, che cercavano di aggregare i ragazzi nelle organizzazioni del partito.

  Don Valentini in una foto dei primi anni Settanta.
 
 
 
 
Per questo fu nominato parroco di San Pietro in Lutirano (1929 - 1936) con la speranza che in quel paesino si mettesse tranquillo.

Dall' articolo de La Stampa sappiamo che non fu così e nel 1936 il vescovo lo nominò arciprete di San Domenico, la chiesa vescovile di Modigliana, per i suoi meriti e forse anche per tenerlo meglio sott' occhio. Nel 1960 era pievano a Rocca San Cassiano e fu colpito da ictus. Rimase paralizzato e tornò a vivere come privato, fino al 1972, a Lutirano, dove c'erano i ricordi dei suoi trent'anni. Morì a Ravenna nel 1978 ed è sepolto a Modigliana.

 Mario Montefiori

 Nell' articolo si parla anche di Montefiori " ... sturziano popolare accanito ... ". La descrizione corrisponde bene a Giuseppe, attivista del PPI, ex assessore e ancora meglio a suo fratello Mario, materassaio, sacrestano della chiesa arcipretale di Marradi, detto "fiorett".
Mario, consigliere comunale del Partito Popolare nei primi anni Venti, fu uno degli otto consiglieri (su venti) che ebbero l'ardire di presentarsi al consiglio comunale dell' 8 gennaio 1923 l'ultimo prima del fascismo. La Marcia su Roma era avvenuta due mesi prima e gli oppositori rischiavano l'olio di ricino e la bastonatura.

Il sacrestano probabilmente aveva l' appoggio implicito dell' arciprete don Luigi Montuschi, che agiva indirettamente. L'azione di disturbo era però fastidiosa e, come racconta il maestro Giuseppe Biagi nel suo libretto intitolato "E mi arziprit" ad un certo punto il segretario del fascio marradese, un certo Ugo Grossi, fece venire degli squadristi da fuori, perché non era opportuno coinvolgere i fascisti locali in una lite con il prete. E così un gruppo di loro si presentò ad una festa all' asilo in cui c'era don Montuschi e la cosa si risolse all' ultimo momento quando il prete aveva una sedia in mano.
Però nei primi anni Trenta ogni forma di dissenso cessò e il clero locale in generale non fu apertamente avverso al Fascismo. L'articolo qui sopra dice infatti: " ... su venti sacerdoti in tutto il comune, due giovanissimi e zelanti, con precedenti di rilievo a loro carico si sono gettati in una attività extra religiosa con la solita tinta antifascista; comunque arrecanti intralcio alle nostre organizzazioni e istituzioni fasciste". Chi erano? Uno era don Valentini, e l'altro? Il ricordo si è perso e forse non lo sapremo mai.

 
Fonti: Don Anselmo Fabbri, per la vita di don Valentini. Archivio storico del quotidiano La Stampa. Pino Bartoli, Fuochi sulle colline.

 

mercoledì 17 gennaio 2018

A Gamogna lungo una via antica

Il sentiero del rosario
ricerca di Claudio Mercatali

  

La via classica dal Passo dell'Eremo a Gamogna parte dal podere Case Nuove, dove c'è un sentiero segnato chiaramente. Questa strada campestre nel primo tratto è recente.



La viabilità antica era più in alto, nel sito detto La Spingarda, ma era disagevole e negli anni Cinquanta l' ing. Bubani, del Consorzio di Bonifica di Brisighella, la sostituì con quella odierna, per dare finalmente un accesso agevole al monastero.
Il lavoro rimase incompiuto, perché con l'abbandono delle campagne era diventato quasi inutile.

Però adesso non dobbiamo passare di qui.
 
La via che interessa ora passava dal podere Fontana Bianca, a metà fra i Passi dell' Eremo e della Peschiera, e l'imbocco oggi è fra questi due valichi nel punto più basso della strada Marradi - S.Benedetto, dove comincia la campestre che scende ai Molinelli.

Qui accanto si vede  la zona di Fontana Bianca nel 1994, quando ancora c'era qualche rudere.
 
 
  

La stessa zona nel 2014
 
Oggi Fontana Bianca è solo un mucchio di sassi, lungo la campestre che scende ai Molinelli.
Negli anni Novanta qui è stato costruito il Metanodotto Algerino ed è rimasta la traccia di un' ampia strada dell'ex cantiere.
 
 
 
 
L'imbocco è  a valle della strada provinciale, facile da trovare perché é l'unica diramazione che c'è qui. Si tratta di scendere fino al primo podere, Poggiolo del Forcone, e di proseguire per due o trecento metri.

Ora cerchiamo l'inizio del mitico Sentìr dla preghìra o Sentiero del Rosario, come lo chiamano a Marradi.
Si dice che nei festivi i devoti contadini dell' alta valle Acerreta lo percorressero pregando, quando andavano a Gamogna per soddisfare il precetto.

 
... si pesticcia un po' di fango ... e si imbocca il Sentiero della Preghiera (o del rosario).... poi la via diventa ampia ed agevole ...

Andiamo per questa via, nel suo tracciato settecentesco, cartografato nel Catasto Leopoldino del 1822 ma riconoscibile anche nella carta IGM del 1929. 
 
Ricordo che prima del 1994, dopo le piogge d'autunno, dalle sorgenti qui vicino sgorgava veloce un fiotto limpido e forse da questo viene il nome del podere. Oggi la fonte principale in parte si è persa, e attorno gemono delle sorgentelle che versano un filo d'acqua.
Il fosso che scende dal Passo dell'Eremo tracima spesso e si riversa lungo la strada, però si guada facilmente.
Si pesticcia un po' il fango fatto dall'acqua delle sorgentelle disperse e poi si prende il sentiero a mezza costa, accidentato ma con pochi dislivelli, visto che Fontana Bianca e Gamogna sono circa a 800m di altitudine. La direzione è esattamente a nord e avendo una bussola ci si può orientare anche così, al bivio dei tanti sentierini che si incontrano strada facendo.

All'inizio il sentiero non incoraggia per niente, perché  i rami dei pruni e delle rose canine fanno corona e intralciano il passo. Poi la via diventa ampia e agevole, quasi fino al podere Perticozze, di cui rimane solo una stesa di sassi senza nemmeno un muro sbrecciato. Qui il muschio e i ginepri hanno preso il sopravvento, la natura ha cancellato la casa, che fu la prima di questa zona ad essere abbandonata, nel 1918, quando si perse la sorgente.
 
 

 
 
Lungo il percorso si incontrano diverse risorgive, perché le condizioni sono favorevoli e c'è l'acqua migliore del Comune di Marradi.

 
La vista del sentiero dalle Perticozze
 
 
 
 Si vedono tante cose dalle Perticozze, il sito è in alto, nell' orlo di un dirupo: si vede la traccia del sentiero già percorso, quello ancora da percorrere (in giallo qui sopra), e anche il torrente Acerreta fino a Ponte della Valle.

 La valle di Lutirano dalle Perticozze
 
 
 
 
Non viene spontaneo pensare che qui siamo nella valle dell' Acerreta (quella di Lutirano) perché questo sentiero insolito confonde un po' i riferimenti. Però dalle Perticozze tutto si chiarisce.  Ora la via corre in piano, a mezza costa, e va diritto al Vallone di Gamogna.

Dalle Perticozze comincia una parte poco agevole del trekking, perché per qualche centinaio di metri il sentiero si restringe e c'è appena il posto per mettere i piedi. Ad un certo punto una frana lo interrompe e costringe ad un passaggio difficile, a carponi, sull'orlo di una riva non tanto rassicurante. Nel 2013 la situazione era così.

... a un certo punto una frana lo interrompe ...



Poi il sentiero spiana e senza problemi si arriva al fosso del Vallone.
 
 
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L'incrocio con la classica mulattiera per Gamogna è proprio accanto alle rovine di questo podere abbandonato.

   

Il podere Vallone di Gamogna,
crocevia della viabilità in questi siti.

 




Come riferimento cartografico si può usare una normale tavoletta IGM o una carta dei sentieri, ma è più elegante la cartografia del Granduca Leopoldo (1822) visto che il sentiero era già allora praticabile come oggi.

 NOTA

Un rosario dura una mezzoretta ma io ho impiegato di più per arrivare al Vallone. Evidentemente chi abitava da queste parti aveva le gambe più allenate delle mie.




 

mercoledì 10 gennaio 2018

Tommaso Minardi


Un bravo artista di famiglia
faentina e marradese

ricerca di Claudio Mercatali
 
  Autoritratto
 
Tommaso Minardi, disegnatore e pittore, nacque a Faenza nel 1787 da Carlo Minardi, tintore faentino e Rosa Stanghellini, di Marradi. Il cognome Stanghellini un tempo era comune qui in paese e si trova in tanti documenti antichi.  Rosa da sposata si trasferì a Faenza ed ebbe cinque figli.
La casa di famiglia è in pieno centro, a Faenza, e oggi è come si vede qui sotto:
 
Da suo figlio Tommaso ci è giunto questo delicato ricordo di lei: “ Mia Madre, Rosa Stanghellini, di Marradi, era un angelo d' anima, di fisionomia significante, vivacità e modestia mirabile. Perduto il povero mio Padre nel 1822, non ancora settuagenario, primo mio pensiero fu quello di far venire mia Madre e ...”.

 
Fin da ragazzo Tommaso mostrò una predisposizione innata per il disegno e la pittura, tanto che fu inviato a Roma perché affinasse la sua arte.
Nei primi tempi visse alla bohémien in una soffitta, come si vede in questo autoritratto ...
Però era così bravo che nel 1818, a 31 anni, venne nominato Direttore dell’ Accademia di Belle Arti di Perugia, con una lettera di presentazione di Antonio Canova, uno dei più grandi scultori dell’epoca.
Per tutte le altre notizie del Nostro conviene leggere direttamente la biografia di don  Antonio Montanari (1871) che era un suo contemporaneo e quindi aveva notizie più precise e dirette.

A noi non rimane che ammirare i quadri di Minardi e soprattutto i suoi disegni:
 Anatomia
di nudo maschile 1836

Il sogno di san Giuseppe (Vangelo di Matteo 1,18 - 24 )
"Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria ..."

 
 


La “Missione degli Apostoli” 1864
Quirinale, Sala degli Ambasciatori

 

Erminia fra i pastori è un personaggio della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso.
 
 
 
 Però Minardi è soprattutto un ritrattista e un disegnatore di volti espressivi:


Una testa con barba e baffi,
1815 - 1817 circa: 
Studio di espressione 
 
 
 
 

Sbalordito + assorto, 1815 -1817 circa
Studio di espressioni


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Uomo giovane e vecchio 1815 circa







 
 
Due teste di vecchio barbuto 1816







 
 
 
Testa di fanciullo 1820 – 1830
 
 
 
  Studio di teste barbute
 
 
 
  
 
Minardi era anche uno spiritoso interprete di racconti biblici:
Quando gli Ebrei entrarono a Canaan il re Balac, intimorito, chiamò il profeta Balaam perché li maledicesse.  
Però Geova mandò un angelo con la spada incontro a  Balaam per fermarlo.  La sua asina lo vide, si accovacciò e non volle andare avanti. Balaam  adirato cercò in ogni modo di farla alzare. L’asina gli disse: ‘Se vado avanti l’angelo ti ucciderà’. Allora l’angelo comparve anche a Balaam e gli disse: ‘Perché maltratti la tua asina? Se lei non avesse deviato da me, ti avrei colpito a morte, senza farle del male’.
 
 
 
Nel 1854 Minardi si ammalò e fu sul punto di morire, ma poi si riprese.
Nelle crisi profonde, come capita anche a noi, la memoria corre indietro, ai ricordi dell'infanzia ...
 
 
 ... e Minardi disse al suo amico e biografo Guglielmo De Sanctis che sua madre gli raccontava che ...
Leggete qui sopra, soprattutto la pagina in giallo, che è una bella e fantasiosa  immagine della valle del Lamone alla fine del Settecento. 
"... Ma eccomi a dirti alcune cose curiose della mia vita. Quando mia madre fu di me gravida desiderò rivedere i suoi parenti in Marradi in compagnia del marito. Sta Marradi in Toscana, sul declivio degli Appennini, ai confini della Romagna ..."

giovedì 4 gennaio 2018

Gli ultimi giorni di libertà del poeta

 4.01.1918   Dino Campana allo sbando
per le vie di Firenze nel ricordo
di Leonetta Cecchi Pieraccini
ricerca di Claudio Mercatali




 Leonetta Cecchi Pieraccini, pittrice, moglie del critico letterario Emilio Cecchi, conobbe Dino Campana e molti altri artisti e letterati del primo Novecento, per le frequentazioni che essi avevano di continuo con suo marito. Nel 1952 raccolse i suoi ricordi nel libro Visti da vicino, edito da Vallecchi, la casa editrice che ha pubblicato molti saggi sul nostro poeta.

Ora siamo nel gennaio 1918, nei giorni precedenti al ricovero definitivo al manicomio di Castelpulci e Dino Campana è ormai allo sbando per le vie di Firenze ... Leonetta Cecchi Pieraccini ci dice che …

 

Durante l'anno 1917 i nostri rapporti furono più saltuari e vaghi. Spesso il Campana spariva per mesi senza dare segno di sé. Nell'estate ci fece sapere di essersi ritirato a Marradi perché là possedeva una casa ... (anzi due). E nel foglio aveva disegnato un quadrato e una croce: che bellissima casa - Dove starò finalmente - Fra tutta gente per bene. Intanto anche il Cecchi aveva lasciato Firenze per il fronte. ...
Partito?, scrive il Campana in un giorno dell'Ottobre: Una delle mie ultime certezze che viene, speriamo per poco, a mancare ...
 
Quanto a me, un po' malconcio come sono non mi resta che mettermi a rimorchio. Ora sono con la mia famiglia. Vedremo, vedremo, senza troppa curiosità mi dico ormai.




Durante l'anno 1917
i nostri rapporti
furono più saltuari e vaghi ...
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... e nel foglio aveva disegnato un quadrato e una croce ...

 
E così avvenne che per vari altri mesi non ricevetti sue visite né lettere. Lo seppi tornato a Firenze, verso la fine dell' anno, e che si era messo a bere, e che aveva ripreso le consuetudini di clamorose chiassate e bizzarrie nei locali notturni della città.







Finché una mattina di gennaio 1918 (il quattro precisamente) suonò alla porta di casa che non eran neanche le nove. Una sua visita a quell'ora e dopo tanta assenza, mi fece temere qualche grave motivo, e il mio timore divenne persuasione quando scorsi il disgraziato amico che camminava su e giù per la stanza. Era convulso e indomito come una belva in gabbia. Non mi pare che ci scambiassimo neanche un saluto: restammo uno di fronte all' altro a scrutarci, direi sospettosi; finché Campana, incoraggiato da un mio vago invito, proruppe a dire che doveva liberarsi , con la confessione, di una grave, orribile colpa.
 
Santo cielo! O è ubriaco, oppure ha tentato di ucciderla (Sibilla Aleramo), mi dissi, e attesi, impietrita dallo sgomento. Intanto egli prese a dar sfogo al suo travolgente delirio con un tumulto di parole e di gesti, seguitando ad andare su e giù per la stanza, e dicendo cose che se smentirono il mio sospetto del delitto mi dettero la misura del disordine pauroso della sua mente.
 
"Il responsabile della guerra sono io. Il responsabile della guerra sono io" badava a ripetere, smaniando e battendosi furiosamente i pugni sul petto. E mi si arrestava di fronte come se volesse da me conferma: "Mi crede? Mi comprende?".

Io avevo assunto quel contegno di attenzione rispettosa e consenziente che è prudenza usare con i dementi (ero giunta naturalmente alla facile diagnosi); ma pur sforzandomi di non dimostrarlo non nego che mi sentissi piuttosto impaurita e preoccupata. E le ore passavano ed egli seguitava a parlare, parlare, sghignazzare, gridare, ridere, quasi piangere quando, dopo lunghe divagazioni, tornava al punto focale di quella sua immane colpa che così spiegava.

In lui, Dino Campana, in lui solo, albergava lo spirito puro della poesia italiana; un' empia anima femminile era riuscita, attraverso l'amore carnale, a carpirglielo e a farne scempio prostituendo alle persone più indegne (e qui i nomi più assurdi); da questo maleficio, a cui si erano allegate tutte le persone del suo mondo, dal padre al padrone di casa, dagli amici ai nemici, ai conoscenti, era sorto il caos: dal caos la guerra. Egli era una vittima, non un carnefice, ma egualmente colpevole per non aver avuto la capacità di custodire e salvare il tesoro divino affidatogli.

Non è il caso di insistere a ricordare le aberrazioni di una mente ottenebrata. Dirò piuttosto che era stupefacente, come in tanto farneticare, volta a volta pregno d'ambascia o di scherno beffardo, i suoi vaneggiamenti si illuminassero di continuo di espressioni bellissime, degne delle sua magica poesia o del suo mordente spirito critico.

Era quasi mezzogiorno quando mi riuscì di escogitare una concreta via d'uscita con la proposta, dal Campana accettata, di recarsi assieme a rilevare una mia bambina da scuola. Avevo riflettuto che potevo soltanto così procurarmi la possibilità di incontrare qualche persona di conoscenza che mi assistesse nelle mia difficile situazione.

Ci avviammo. Era una giornataccia di tramontana, quella tramontana tempestosa che ho sperimentato soltanto a Firenze e a Volterra. Appena imboccata piazza Donatello una folata di vento portò via il cappelluccio di feltro del Campana, e un' infilata di mulinelli lo trascinò su per i viali come una ruzzola in corsa.



Campana si slanciò a corrergli dietro con un accanimento e un'energia di cui non l'avrei ritenuto capace in quelle condizioni di spirito. Dopo vari insuccessi e rinnovate galoppate lungo il viale Principe Eugenio egli riuscì a ghermire il conteso cappello, e quasi sorrideva, rasserenato, nell' arruffio dei capelli e della barba, mentre tornava verso di me riaggiustandone la forma sbertucciata e pulendolo con il gomito. Lo sfogo fisico della corsa lo aveva scaricato; ed egli era tornato di colpo la mite persona, cauta e riservata, dei periodi normali. Si scusò di avermi inutilmente infastidito, mi ringraziò di averlo ascoltato con benevolenza, si congedò cortese e compìto. Lo stravagante incontro si concluse nel più convenzionale e borghese commiato. Seppi che il poverino girò ancora per qualche giorno per Firenze, in preda a frequenti accessi di agitazione. Poi, che si era ritirato a Marradi, dalla famiglia. Di là scrisse poche righe per chieder notizie dell'amica Sibilla, una seconda per inviare le poche battute del dialogo di Faust e Mefisto, e sbagliò, sulla sopraccarta, il mio nome di battesimo. Poi più nulla.

Anche oggi è il 4 gennaio, cento anni dopo quello che è raccontato qui sopra. Sembra che sia passato tanto tempo, ma in fondo 100 anni non sono un gran che ...