venerdì 20 settembre 2019

1690 La frana di Boesimo

La più grande
nella valle del Lamone
in epoca storica.
Ricerca di Claudio Mercatali
 

 
La media valle del Lamone ha una fragilità geologica dovuta ai forti spessori di terra che coprono lo zoccolo roccioso del versante destro. Per questo nel corso dei secoli nella zona di S.Cassiano ci sono state due frane di milioni di metri cubi di terra e pietrame ogni volta. Una avvenne nel 1939, fra S.Cassiano e S.Eufemia e l’altra nel 1690, a Boesimo, con effetti fino al comune di Marradi, a Marignano.

 
 
Ecco come lo storico Antonio Metelli descrive la frana di Boesimo:

“… Stava per finire l’ inverno del 1690 orrido per la copia delle acque cadute dal cielo e per le nevi, che al sopraggiunger de’ nuovi tepori di primavera si liquefacevano. Per questo la superficie del suolo divenne fradicia, e i più reconditi seni della terra immollati ne furono. Alla destra del Lamone si stende il monte Budrialto. Aspro e biforcuto su un fianco forma una pendice detta di monte Caruso e volge le sue acque al Lamone mediante il torrente Boesimo, che vi mette foce a dieci miglia da Brisighella e sei da Marradi.
  
 
Correvano i primi giorni di aprile, e coloro che su quei gioghi e su quella pendice abitavano, attendevano alle campestri faccende, quando si udì d’un tratto muggire Budrialto e con così alto fragore che gli animi ne rimasero incerti e attòniti. Allo strano e inopinato caso fu da ognuno creduto che di nuovo la terra tremasse (= che fosse un terremoto) ma avendo taluno veduti scorrere i dossi del monte e viste larghe e profonde fessure nel terreno, di ciò che era prestamente si accorse, talché molti ripararono in fretta nei luoghi vicini con gli armenti e le cose loro.
 
 
Budrialto appariva avvolto da una rada nebbia e c’era chi affermava di avervi visto notte tempo dei fuochi. Gli occulti fremiti e i cupi fragori non erano ancora cessati e anzi dopo otto giorni essi erano venuti crescendo, finché all’alba dell’ undicesimo giorno, non reggendosi più il Caruso, diveltosi da Budrialto con orrendo fracasso si scoscese e si rovesciò nel torrente Boesimo e corso oltre il fiume Amone e trovato a riscontro il monte delle Volpare (= in fondo al versante di Monte Romano) la terra ammonticchiatasi e ripegatasi sopra se stessa si arrestò.
 
 
All’enorme peso tremò la valle e fu udito il rimbombo fino a Faenza. Poi venuto il giorno grande stupore mostrò la gente. Il letto del Boesimo e del torrentello della Pliserìa era chiuso, ed era chiuso anche il Lamone e qua e là si vedevano sparse grandi querce che poco prima erano in cima al monte. Di là avallando lo sguardo si vedeva l’immensa ruina, di macigni orrida e mista, cenerognola di colore e putendo di zolfo giaceva secondo la forma che il caso o il proprio peso le aveva dato.
 
Di quattro case travolte e sprofondate non rimase traccia e in una di questa, chiamata Torricella morirono dieci persone e altri sei poderi rimasero sconquassati e sconvolti. Il fianco del Budrialto, dal quale si era staccato il Caruso appariva nudo e deforme per uno spazio di due miglia. Grosso era allora l’Amone per le nevi, e anche il Boesimo, sicché vennero a formarsi due grandi laghi e quello dell’Amone si distese per due miglia e mezzo di modo che le acque cresciute in altezza per quattro cubiti sommersero altri quattro poderi. Il letto del Boesimo si alzò fino a lambire la chiesa.

A Ravenna s’ebbe avviso di questa catastrofe perché le acque del Lamone sparirono con grande sorpresa di tutti e lasciarono l’alveo asciutto mettendo sospetto che fosse successo qualcosa di grave sugli appennini. Per la qual cosa il Legato Pontifico mandò a Brisighella un incaricato, che si mise d’accordo con un ingegnere mandato dal Granduca di Toscana, visto che quei luoghi erano di confine, e deliberò di aprire un sollecito varco all’Amone. Però i laghi vi durarono lungamente e poi, colmatisi e rosi di nuovo dalle acque, il fiume venne a ripristinarsi.

Le robuste braccia degli agricoltori, quell’ inselvatichito suolo dissodando lo vennero addomesticando di modo che sorsero prati pingui e colti là dove c’era una squallida e deserta ruina”.
 
 

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