in un giorno di sconforto
ricerca di Claudio Mercatali
L'Istituto Ciamician,
sede della Facoltà di Chimica
Questa è la descrizione di una
giornata nera dell' inverno 1912, vissuta a Bologna da Dino Campana, allora studente
di chimica all' Università. Il poeta gira per il centro cittadino, nervoso e
insoddisfatto, e descrive cose e persone. I vari momenti della giornata non
sono in successione cronologica e forse il poeta mescola
sensazioni e immagini di un tempo più lungo. La prosa qui di seguito è la prima
stesura di quella che nei Canti Orfici sarà "La giornata di un
nevrastenico" e che nella versione provvisoria che stiamo per leggere ancora
non ha un titolo. Perché prendere questa bozza e
non la stesura definitiva? Questo interrogativo se lo pose Federico Ravagli che
per primo pubblicò il brano nel Fascicolo Marradese e si chiese:
"Siam noi i colpevoli, gli
spregiudicati, i profanatori che nella illusione di meglio apprezzare l'opera
di uno scrittore andiamo a rovistare magari fra i detriti e le scorie del suo
travaglio interiore; noi che interroghiamo carte e documenti, dove l'anima è
messa a nudo, col suo umano fardello di colpe di aberrazioni, di miserie
...".
Via Orefici
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La sartina e l’avvocato ridono e chiacchierano. I cocchieri imbacuccati tirano fuori la testa dal bavero come bestie stupite. Tutto mi è indifferente. Non mai come in questa giornata risalta il grigio monotono e sporco della città. Tutto fonde come la neve in questo pantano: e in fondo sento che è dolce questo dileguarsi di tutto quello che ci ha fatto soffrire. Tanto più dolce che presto la neve si stenderà ineluttabilmente in un lenzuolo bianco e allora potremo riposare in sogni bianchi ancora.
Notte. Passeggiata deserta sotto l'incubo dei portici. Goccie e goccie e goccie di luce sanguigna. Fuori cade la neve. Sento veramente la dolcezza dei seppelliti. Scompaio in un vico e dall'ombra un'ombra sotto un lampione s'imbianca. Ha le labbra rosse. A te a te che vuoi dall'ombra mostrarmi l'infame cadavere di Ofelia.
La prosa è bella, diretta,
durissima, più della versione definitiva.
Leggiamo:
"La vecchia città dotta e
sacerdotale era avvolta di nebbie nel pomeriggio invernale. I colli
trasparivano più lontani sulla pianura percossa di strepiti. Si vedeva vicino
in uno scorcio falso di luce plumbea lo scalo delle merci. Lungo la strada di
circonvallazione passavano sfumate figure femminili, copiosamente avvolte di
pelliccie, i cappelli romantici copiosamente ornati, passavano a piccole scosse
automatiche, rialzando la gorgiera carnosa come volatili di bassa corte. Dei
colpi sordi, dei fischi, dallo scalo continuavano ad accentuare la monotonia
diffusa nell’aria e il vapore si confondeva colla nebbia. I fili pendevano e si
riappendevano ai grappoli di campanelle dei pali telegrafici che si
susseguivano automaticamente.
... lungo la strada di circonvallazione
passavano sfumate figure femminili ...
Porta Galliera
Dalla breccia dei bastioni rossi
corrosi, nella nebbia si aprono le lunghe vie silenziose deserte. Il malvagio
vapore della nebbia intristisce tra i palazzi velando la cima delle torri, le
lunghe vie silenziose come dopo il saccheggio. Traversano la via saltellando
delle "ragazzole" artificiosamente avvolte nella sciarpa e la rendono
più vuota ancora. Come mai si vedono tante donne per questo cimitero?
Mi chiedo
e mi sembrano tanti piccoli animali saltellanti, tutte uguali, tutte nere, che
vadano a covare in un lungo letargo un loro malefico sogno.
Studentesse nel laboratorio di chimica
Numerose le studentesse sotto i
portici. Si vede subito che siamo in un centro di cultura. Parlano e cercano di
sorridere a fior di labbra. A tre a tre formano il corteo pallido e
interessante delle grazie moderne. Vanno (ore 11) a lezione da un celebre
professore che ha scoperto la cadaverina (acido ossi b caprin capronicone).
Sorrisi, aria di mistero. Ce n'è una che per novità atteggia la bocca a un riso
mefistofelico: ah! il riso mefistofelico della signorina intellettuale! Entrano
sospirando ne’ l'Università.
(Dal caffè) E’passata la Russa. La piaga
delle sue labbra ardeva nel suo viso pallido. E’venuta è passata portando il
fiore e la piaga delle sue labbra. Con un passo elegante, troppo semplice e
troppo conscio è passata. La neve seguita a cadere e si scioglie indifferente
nel fango della via.
La sartina e l’avvocato ridono e chiacchierano. I cocchieri imbacuccati tirano fuori la testa dal bavero come bestie stupite. Tutto mi è indifferente. Non mai come in questa giornata risalta il grigio monotono e sporco della città. Tutto fonde come la neve in questo pantano: e in fondo sento che è dolce questo dileguarsi di tutto quello che ci ha fatto soffrire. Tanto più dolce che presto la neve si stenderà ineluttabilmente in un lenzuolo bianco e allora potremo riposare in sogni bianchi ancora.
C’è uno specchio avanti a me e
l’orologio batte: la luce mi giunge dai portici a traverso le cortine della
vetrata. Scrivo.
Notte. Passeggiata deserta sotto l'incubo dei portici. Goccie e goccie e goccie di luce sanguigna. Fuori cade la neve. Sento veramente la dolcezza dei seppelliti. Scompaio in un vico e dall'ombra un'ombra sotto un lampione s'imbianca. Ha le labbra rosse. A te a te che vuoi dall'ombra mostrarmi l'infame cadavere di Ofelia.
Tristezza acuta. Epilogo. Mi ferma
il mio antico compagno di scuola, già allora bravissimo ora di già in belle
lettere guercio professor purulento che mi confessa guardandomi con un sorriso
lercio e mi dice potresti provare a mandare qualcosa all’Amore Illustrato.
Sopraggiunge lo sciame aereoplanante
delle signorine intellettuali che ride e fa glu glu mostrando i denti che
sembra in caccia dei nemici della scienza e della cultura, (diplomabili
diplomabili professionali) che va a frangersi ai piedi della cattedra dove un
illustre somiero ramperà col suo carico di nera scienza catalogale. Poi ho
incontrato uno del mio paese e riodo le grida degli sciacalli urlanti che mi
attendono ancora lassù. (Udiste voi nell'ora della terribile angoscia la folla
gridare barabba barabba; vedeste barabba guardare su voi con lo stesso
disprezzo del vostro segretario comunale?). Veramente non posso suicidarmi
senza essere vigliacco. E poi oramai ...
Finale. Sull'uscio di casa rivolgo il consueto
sguardo d'addio al classico baffuto colossale emissario della polizia nazionale
incaricato della mia sorveglianza (e il mio pensiero va a te venerato
professore e senatore che credo ci hai lo zampino) non che agli assistenti.
(Non che a Giuda, il mio migliore amico impiegato all'Università!)".
Ah! i diritti della vecchiezza!
Ah! quanti maramaldi!
La caricatura di un "polismano",
la
guardia, in bolognese
Federico Ravagli conclude:
"Così ha fine la penosa avventura di una giornata di esaltazione e di
follia. Numerosi personaggi visti, o appena intravisti, animano la scena dei
Canti Orfici: qui si aggiungono figurine e figurette, appena abbozzate e
fuggevoli, che son, purtroppo, creature non già dell'arte, ma della psicopatia.
Così, a quelle battute meditate e squillanti, s'uniscono queste note sorde,
questi accenti d'angoscia, buttati giù senza preoccupazioni letterarie, malati
d'incubo, inquinati di sospetto, quasi grido dell'anima esacerbata".
Fonte: da Federico Ravagli,
Fascicolo Marradese, Firenze,
Giunti Bemporad Marzocco 1972
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