martedì 22 dicembre 2020

Canti Orfici

La ragione di un titolo
Claudio Mercatali


Nell’inverno del 1913 Dino Campana andò a Firenze a cercare un editore per il manoscritto dei suoi componimenti. Il quadernino si chiamava Il più lungo giorno ed era quanto di più caro aveva. Lui stesso scrisse:

"… venuto l'inverno andavo a Firenze al Lacerba a trovare Papini che conoscevo di nome. Lui si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) e me lo restituì il giorno dopo e in un caffè mi disse che non era tutto quello che si aspettava ma che era 'molto molto' bene e mi invitò alle Giubbe rosse per la sera... per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cose che avevo, che l'avrebbe stampato. Ma non lo stampò. Io partii non avendo più soldi (dormivo all'asilo notturno ed era il giorno che facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire) e poi seppi che il manoscritto era passato in mano di Soffici. Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per averlo e mi decisi di riscriverlo a memoria...".

Il seguito della storia è ben noto: dopo un duro lavoro di riscrittura fatta soprattutto a memoria e durato sei o sette mesi, il libro fu pubblicato nell’ estate del 1914 dalla tipografia Ravagli di Marradi con il titolo Canti Orfici. Il quaderno originario fu ritrovato solo nel 1971 in casa di Ardengo Soffici e pubblicato da Vallecchi nel 1973.

Che cosa intendeva il poeta con il titolo Il più lungo giorno?

Non lo sappiamo perché Campana non ce lo dice e nei suoi appunti non c’è nessuna traccia che possa servire per una ipotesi.

Chi era Orfeo?

Secondo il mito greco Orfeo era così bravo con la lira che al suono del suo strumento e alla sua voce si ammansivano anche le belve. Era innamorato della ninfa Euridice, che un giorno fu morsa da un serpente e morì. Orfeo disperato scese agli Inferi e con la dolcezza della sua musica, convinse Plutone e Proserpina a restituirgli l’amata. Però gli Dei posero una condizione: non doveva voltarsi a guardarla finché non avesse raggiunto il Regno dei vivi. Ma proprio sulla porta dell’Ade si voltò e la perse per sempre.


  

Antonio Canova, Orfeo ed Euridice


Perché il poeta cambiò il primo titolo con Canti Orfici nei sette mesi di lavoro infernale di riscrittura?

Non sappiamo nemmeno questo ma qualche traccia c’è, perché Campana parte spesso da un fatto reale che poi trasfigura fino a renderlo difficilmente riconoscibile.
Dunque forse Dino Campana si riconobbe in Orfeo: Euridice per lui era la sua arte poetica, persa per colpa di un serpente (Ardengo Soffici o Giovanni Papini), e patì le pene dell’inferno per riscrivere tutto.

Che cosa fece il mitico Orfeo dopo la perdita definitiva di Euridice?

Secondo il poeta Virgilio pianse per sette mesi (per il poeta Ovidio, sette giorni). Non riusciva più a pensare ad altro e rifiutava tutto e tutti. Nella versione virgiliana le donne dei Ciconi (gli abitanti della Tracia) in preda all'ira lo fecero a pezzi e ne sparsero i resti per la campagna. Questo finale del mito sembra confermare l’ipotesi: nei mesi passati nella soffitta di casa e nel podere Orticaia, a Marradi, a riscrivere le poesie divenne insensibile ad ogni altra cosa, si isolò e fu rifiutato da tutti più di quanto era stato fino ad allora. Non dimentichiamo che nell’ ultima pagina del libro c’è un verso di Walt Whitman tratto da Song of Myself:



They were all torn
and cover'd with
the boy's blood

(L'originale di Whitman è: "The three were all torn and cover'd with the boy's blood" ossia "I tre uomini erano tutti laceri e ricoperti dal sangue del ragazzo"). Questa frase per Campana era importante, e nel marzo 1916 scrisse a Emilio Cecchi:

"Se vivo o morto lei si occuperà ancora di me la prego di non dimenticare le ultime parole che sono le uniche importanti del libro. La citazione è di Walt Whitman che adoro nel Song of myself quando parla della cattura del flour of the race of rangers". Campana quindi si identifica con un giovane della poesia di Whitman massacrato a tradimento.

Il poeta mentre riscriveva i Canti Orfici probabilmente si rese anche conto che la sua mente peggiorava in modo inesorabile. Rivolto indietro per riscrivere le sue amate poesie forse sentì che la sua arte poetica stava per svanire così come svanì Euridice quando Orfeo si voltò a guardarla. Infatti dopo il 1914 prese il sopravvento la malattia. I suoi pochi scritti successivi sono frammenti con qualche sprazzo di genio ma per lui la stagione alta della poesia era passata. Ecco quindi quale potrebbero essere le ragioni del titolo: la fatica infernale della riscrittura, il rifiuto di tutto e di tutti, proprio come Orfeo, la convinzione di aver scritto un capolavoro e la sensazione che il progredire del suo male stava facendo svanire il suo estro.


Per altre ipotesi:

Stefano Drei, Orfeo, Ofelia e una piazza (su Internet) e su La piè anno LXXXII n°1 2013 (Drei espose la sua ipotesi anche alla Corte delle Domenicane, a Marradi, al centenario dei Canti Orfici).
Neuro Bonifazi: Dino Campana, la storia segreta e la tragica poesia. Longo Editore Ravenna, 2007 (Il libro fu presentato anche a Marradi alla Corte delle Domenicane, in occasione del genetliaco di Dino Campana con introduzione del Dr. Andrea Gialloreto dell’Univ. di Chieti).
Federico Ravagli: Dino Campana e i goliardi del suo tempo. Editrice Marzocco, Firenze, pg 127

  

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