martedì 30 novembre 2021

Alcune ricette di fine Ottocento

In cucina con Il Piccolo

ricerca di Claudio Mercatali



Il 7 maggio del 1899 nasceva a Faenza "Il Piccolo, periodico settimanale popolare" stampato alla Tipografia Novelli. Come d'uso all' epoca per molti altri settimanali, era in 4 pagine, 49 x 39 cm e costava 3 centesimi. Era una testata cattolica, spesso in polemica con il settimanale repubblicano Il Lamone e Il Socialista. Nel 1920 cambiò nome in Idea Popolare, organo del PPI faentino e nel 1923 fu chiuso dai Fascisti. Riprese le pubblicazioni un anno dopo con il nome Il Nuovo Piccolo, però la libertà di stampa non c'era più e per venti anni si occupò solo di questioni parrocchiali e di ricorrenze religiose.



Dopo la fine della guerra ricominciò le pubblicazioni con il titolo Il Piccolo ed è tuttora in edicola, ultimo settimanale storico faentino, perché Il Lamone e Il Socialista hanno da tempo cessato.





Fin dai primi anni pubblicò tante notizie sui paesi della diocesi di Faenza e anche oltre, spedite in redazione da una fitta rete di corrispondenti. Aveva anche una nutrita varietà di rubriche, di storia locale, di astronomia, di varia attualità e di ricette, come queste che seguono, suggerite da Very, esperta cuoca della quale non conosciamo il nome. Leggiamo:





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FONTE: Emeroteca della Biblioteca Manfrediana di Faenza








mercoledì 24 novembre 2021

Dante all'Acquacheta

La bellissima e rumorosa
cascata del nostro appennino


ricerca di Claudio Mercatali


La lapide all'inizio del sentiero
che parte da San Benedetto in Alpe




Certe volte si dà il nome ai posti per quello che non sono. E' il caso della cascata dell’ Acqua Cheta, che è una fragorosa caduta d’acqua lungo una costa dell’ Appennino, nel Comune di S. Godenzo, quasi al confine con il Comune di S.Benedetto in Alpe e con Marradi.

Il Sommo Poeta fu così colpito dal rumore dell'acqua, che la paragonò alla cascata del fiume infernale Flegetonte che separa il settimo dall'ottavo cerchio dell' Inferno. I versi della Divina Commedia sono nella lapide qui accanto.

Su questi c’è una annosa discussione fra Dantisti, perché “ove dovea per mille esser recetto” è il verso misterioso che molti interpretano “ove ci dovevamo radunare in mille” intendendo “mille Guelfi bianchi”, per tentare un rientro di forza a Firenze, in mano ai Guelfi neri.

Però lo studioso Pompeo Nadiani è di diverso avviso…









Lasciamo i Dantisti alle loro dispute e andiamo più indietro del tempo di Dante. Così facendo troviamo altre notizie su questi luoghi perché la zona era terra di monasteri alto medioevali, come quello di San Benedetto in Alpe, che c’è ancora, restaurato e visitabile. 


Secondo la Regola dei frati di allora la spiritualità era compiuta se si alternavano dei periodi di vita cenobitica, comunitaria, con periodi di eremitaggio e per questo ci sono giunti i nomi Eremo dei Toschi, I Romiti e Passo dell'Eremo. Può anche darsi che questi posti fossero sede di eremiti senza Regola, ossia non appartenenti a nessun Ordine monastico. Le nebbie dell' Alto Medioevo qui avvolgono tutto e ci lasciano nel dubbio, però questo aumenta il fascino del luogo.


Ci sono diversi percorsi che portano alla cascata: dal Passo del Muraglione, dal Passo dell' Eremo e da San Benedetto in Alpe. Quest'ultimo è il più facile e segue il corso del torrente Acquacheta marcato da una segnaletica chiara.






La cascata è temporanea, spesso iperattiva d’inverno e in secca d’estate. Questo avviene perché il fosso dell’Acqua Cheta e i suoi affluenti coprono un vasto bacino ma hanno delle sorgenti deboli. Perciò la stagione migliore per vedere la caduta dell’acqua e sentire il rimbombo è l’autunno, dopo un periodo di pioggia lungo o l’inverno, se sull’Alpe c’è una coltre di neve che si sta sciogliendo.






Fece così anche Dino Campana assieme ad un gruppo di amici di Faenza, in un anno imprecisato ai primi del Novecento. Lo vediamo qui accanto, nella tradizionale foto ricordo, davanti a un fosso completamente ghiacciato.





giovedì 18 novembre 2021

Te lo dico ... in Marradese

Tanti modi di dire in dialetto 
Ricerca di Claudio Mercatali 



Un modo di dire è un’ espressione dal doppio senso: uno figurativo e uno letterale e il primo illustra il secondo. Un esempio classico è la frase “vuotare il sacco” per dire “confessare un fatto, riferire tutto”. Ogni lingua ha i suoi modi di dire e oggi interessano quelli del Romagnolo parlato a Marradi. 

Quando si affronta il tema dei detti dialettali si rischia il più acceso campanilismo, perché ognuno pensa in cuor suo che la sua parlata abbia qualcosa in più delle altre e che i modi di dire in uso nella sua zona siano originari di quella, esportati poi altrove. Per evitare questo occorre chiarire che i detti qui di seguito sono comuni nel dialetto marradese corrente ma non si sa se sono stati inventati in questa zona e non sono più arguti di quelli in uso in altre realtà dialettali. Leggiamo:


E cȃn ed du padrǒn os morè ed fȃm 

Una punta di arguzia per significare che le cose a metà spesso sono trascurate da entrambi i proprietari. 

Non è il caso di questo cane bello grasso. 






Fèr con fèr o sguigna
Uno dei motti più noti del particolare dialetto di Campigno: significa che due pezzi di ferro senza guarnizione non legano, cioè due persone rigide sono poco solidali. Se le cose vanno avanti lo stesso il detto ha un seguito: ... però e trȇn o và ...

Do con pasa e chéld 
όn pasa gnȃnc e frèdd
E' un altro detto campignese, una specie di enunciato per una nuova legge sull'isolamento termico.


A Palazό ià el braza lǒnghi
Un detto che forse risale a prima dell’ introduzione del Sistema Metrico Decimale (a fine '700). Il Braccio di panno bolognese usato dalle tessitrici di Palazzuolo era più lungo del Braccio di panno fiorentino delle tessitrici di Marradi.

Palazό: i dà la roba e pù i l’arvό
E’ uno sfottò verso “quelli del paese accanto”, una situazione tipica delle realtà paesane di un tempo e a volte anche di quelle odierne. Si dice a chi vuole le cose indietro, che sia di Palazzuolo o no.


A Palazό a quèll cό calì un dò i tayè la mȃn

Significa “A Palazzuolo a quello che calò un due gli tagliarono la mano”. Si dice di una cosa da non fare mai più. Il “due” a Scopa, il noto gioco a carte, amplia di molto le possibilità di presa per l’avversario e si deve calare solo se si è costretti.

O m'ha badzé ǒn ed Palazό
Mi ha battezzato, badzè, (= fregato) uno di Palazzuolo, sò come vanno queste cose, ci sono già passato.


O ya dé l’emsùra

Si dice di uno che dà le misure di una cosa sua ad un altro per burla, perché se la faccia anche lui. Gigi di Monte Romano mandò al nonno del veterinario Francesco Catani le misure in lungo e in largo di un cappelletto, per dire che a casa sua lui mangiava bene. Il dott.Giovanni Catani era un ricco proprietario terriero di Lutirano, in risposta gli mandò le misure di una banconota di grosso taglio, da 1000 lire.

L’at onn' è bèl

Indica il manifestarsi di un fatto del quale non si vede il compimento ma solo l’inizio poco rassicurante.


... La tira la Corȇna encù!

Significa “spira la Corìna oggi!”. E’un vento locale caldo e umidiccio, che mette di malumore. Si dice riferito a una persona maldisposta e intrattabile.

O s’è arfàt ed nòt
Detto di una guarigione provvisoria, è derivato dalla convinzione popolare che un miglioramento meteo notturno sia effimero.

L’è l'aqua ed luy clà fà maturé i marǒn.
La pratica agraria dice che se non piove d’estate i marroni non maturano. Si usa per dire che in un certo evento mancano le premesse per una favorevole conclusione.


L’ha dbù l’aqua di alòcc

Si dice che l’acquedotto degli Allocchi dà un’ acqua buona e il forestiero che l’ha bevuta tornerà.


Sit edbù dl’asì ȃnch encù?
Hai bevuto dell’aceto anche oggi? Detto a una persona brusca e acida.

En tla caléda tόtt i zòcc i rulla
In discesa tutti i ceppi rotolano. Per dire che se non ci sono problemi tutte le cose vanno da sole.

Tu sì piò endrì dla martinécca

La martinicca era un freno a ceppo dietro al barroccio.

L’è lǒng còm una mèssa cantéda
La messa cantata ha un rituale che dura molto.

Onn’ emporta arvolté la pieda s' lè bruséda.
Ossia è inutile insistere su qualcosa che è ormai andata male.

O va cǒm una pàla da sciòp
Va forte come una palla da schioppo. Detto di uno veloce, rapidissimo nelle sue cose.

L’è sudge cǒm e bastǒn de poléi
Il bastone del pollaio serviva per ammucchiare la cacca delle galline.

O t'ha merlé

Ti ha merlato, fregato. Il merlo è un uccello vispo e svelto.

L’è un pόre cùc
Il cuculo ha la nomea di essere un po’ lamentoso e depone le uova nei nidi altrui per non allevare i piccoli.


O magnarèbb e fug

Detto di una persona che sa fare cose che sembrano impossibili. Questi qui accanto sono “i mangiatori di fuoco” alla festa per E lǒm a Mérz del 28 febbraio 2014, a Popolano.

On sa fè niȃnc a pianté i ciud
Detto di uno che non sa fare niente. Per piantare un chiodo basta battere per bene con un martello e non servono abilità particolari.




L’an sa fé niȃnc a sré i caplìtt

Detto di una che non sa fare niente. Per chiudere i cappelletti (sré) si mette il ripieno (l’intrìs) nella sfoglia e si avvolge come si vede qui accanto.

La s’ è vésta la pǒnta de nés
E’ una stizzita critica per una ragazza che si atteggia perché è accorta di essere desiderata.

L’hai gì la lévre a e rosp: “t’andarì ȃnch fόrt ma la faza t'un lì”
Disse la lepre al rospo: andrai anche forte ma la faccia non ce l’hai. Riferito ad una persona che si vanta in modo poco credibile di qualcosa.

L'è proprie un vdòc
E' proprio un pidocchio, un avaro.

O l'ha compré con un sciòc ed frusta
L'ha comprato con uno schiocco di frusta, ossia è stato svelto e l'ha pagato poco.

Perchè l'amicizia l'as mantȇnga o tòcca chè ǒna sportȇna la vega e ǒna la vȇnga
Un invito a contraccambiare.

O torrèbb sò ȃnch l'ǒmbra di fòss
Prenderebbe (o mangerebbe) anche l'ombra dei fossi. Detto di un avido o di un famelico.

O cǒnta cǒm e dò ed brèscla
Conta come il due di briscola, cioè poco.


L'è lǒnga la guiéda!
La guiéda è il filo da cucire infilato nell'ago. E' un detto esclamativo per significare che c'è ancora molto da fare.

T' un si méi te mang
Non sei mai nel manico, ossia non sei mai pronto per fare quel che c'è da fare.

Tut i sas i và a la maséra, tutti i sassi vanno nella mucchia (la maséra era la catasta dei sassi utilizzabili che si accantonavano vicino a casa). E' l'equivalente di "piove sul bagnato".


O fìva querza drètta (stava lì impalato). Detto di chi assiste a un evento e fà finta di niente.

Il Romagnolo non è una lingua scritta e non ha tutte le regole grammaticali o lessicali per esserlo. La dizione scritta delle frasi è quindi difficile e anche opinabile. Qui sono state seguite le indicazioni del glottologo Schurr per quanto riguarda gli accenti, ossia:

Le vocali con l’accento circonflesso, ȃ ǒ ȇ indicano una pronuncia detta nasalizzata se sono seguite soprattutto dalle consonanti m e n. Per chi non è romagnolo la vocalizzazione nasale è quella che un francese fà quando dice il cognome del presidente Macron. Se siete toscani potete provare a tapparvi il naso e farlo anche voi cercando di marcare la enne il meno possibile, ma non otterrete dei grandi risultati perché i fonemi del tosco sono altri.
Le vocali dentro la parola dove cade l’accento (le toniche) vanno accentate, cosa che in italiano non si fà quasi mai ma in francese si fà spesso. Le vocali e ed o possono avere due tipi di accento: rivolto all’ indietro indica una pronuncia aperta come in pèsca (il frutto) e rivolto in avanti una pronuncia chiusa come in pésca (lo sport) oppure come in còsto e in costόro. 
                                                           .......................................

Nella parte alta del Comune di Marradi comincia la parlata mugellana, ricchissima di detti, motti, lazzi e frizzi. Da noi ce ne sono pochi:

Qui si imbotta per lo zipolo

Ossia si riempie la botte attraverso lo zipolo. Per dire che si fanno le cose a rovescio. Lo zipolo è il rubinetto che serve per spillare il vino.

Per i bìscher oggnè e Paradìs
E' la traduzione del detto originale toscano: Per i Bischeri un c'è paradiso.
I Bischeri erano una famiglia fiorentina che aveva una casa dove ora c'è il duomo. Al tempo della costruzione della chiesa il Comune di Firenze acquistò gli edifici circostanti per demolirli ma i Bischeri rialzavano di continuo il prezzo finché un giorno per motivi che non si sanno, la loro casa prese fuoco e non incassarono niente.


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Marradi, piantan fagioli e nascon ladri
E’ uno sfottò nei nostri confronti. L’avrebbe detto Dante Alighieri quando gli rubarono l’ombrello una volta che passò da Marradi. Qui accanto c'è una feroce critica al deputato marradese Celestino Bianchi, fatta da un suo concorrente alle elezioni politiche del 1861, che prende spunto proprio dai fagioli.

Non ne so più ma ci sono molti altri modi di dire. Se qualcuno me li dice li aggiungerò.


venerdì 12 novembre 2021

Il limo del Lamone

Il trasporto delle terre fertili 
nella pianura
ricerca di Claudio Mercatali


Il Lamone nasce alla Colla di Casaglia, nel podere Crucifèra, di fianco al Passo, ma raccoglie anche alcune sorgentelle del podere Camera de' Bovi. 




Il nome Camera de' Bovi sembra indicare un comodo rifugio per il bestiame al pascolo libero, che ancora oggi si pratica qui, ma non è così: don Bovi era un prete del Settecento che girava le campagne per predicare e si fermava a dormire lassù. Ecco qui accanto un articolo della Gazzetta Toscana del 1777 che parla della sua venuta annuale.





Il torrente diventa un fiume vero e proprio dopo qualche chilometro, a Crespino del Lamone, quando riceve le acque del Fosso del Lago. Anche questo è un nome fallace perché è la errata traduzione in italiano del romagnolo antico Lagõna, lacuna, che indicava un sito ricavato per disboscamento. Ci sono altri esempi a Marradi (Pian di Laguna, Lago, Berlago) tutti in cima ai monti e non è possibile che qui ci siano stati laghi da tutte le parti.



Il fiume è gagliardo fin dall' inizio e arriva all' Adriatico dopo 98 Km, a Marina Romea. Dal punto di vista idrologico fino quasi a Faenza (50 km) è in fase erosiva, poi fino a Ravenna è nella fase del trasporto e nell' ultimo tratto deposita tanta terra. 






Nella relazione che stiamo per leggere l'ing. Capo del Genio Civile di Ravenna dice che questo fiume può depositare ogni anno tre milione di metri cubi di terre fertili, che sono uno spessore di tre metri su un chilometro quadrato, ossia su 100 ettari. 





Nei secoli passati furono provati diversi sistemi per sfruttare tutto questo ben di Dio e per capirli bene prima di andare avanti serve un breve inquadramento dei fiumi romagnoli vicino a Ravenna.




Il Po di Primaro era un ramo deltizio del Po, che da Ferrara scendeva verso Argenta e poi sfociava nell' Adriatico passando appena a sud delle valli di Comacchio. Il suo percorso dava tanti problemi e venne tagliato e interrotto. Nel tratto in secca da Argenta al mare venne fatto confluire il fiume Reno. Il tracciato antico di questi due fiumi si vede ancora.




Il Lamone nel Medioevo sboccava nel Po di Primaro, così come il Reno e questo aumentava la portata d'acqua provocando continui straripamenti. 




Nel Cinquecento al tempo del papato di Gregorio XIII il Reno e il Lamone vennero portati al mare ognuno per suo conto, con un lavoro enorme di scavi e canalizzazioni, che durò tanti anni a fasi alterne e con diversi ripensamenti. 
La storia in questo articolo del 1912, è dell'ing. Mederico Perilli.



sabato 6 novembre 2021

Biforco nel Seicento

Lo storico faentino Francesco
Maria Saletti descrive Biforco

ricerca di Claudio Mercatali


Biforco nel 1947

E’ una fortuna quando si trovano vecchie descrizioni di posti e paesi, perché a leggerle si fa un salto nel passato. Tante cose si ritrovano uguali o si riconoscono, di altre si recupera la memoria, di altre ancora è svanita ogni traccia. Succede anche questo, in fondo i secoli non passano invano. Francesco Maria Saletti era uno storico faentino del Seicento che scrisse i Commentari di Val d’Amone. Sofisticato e dotto, si esprimeva spesso in latino e si fa fatica a ricavare le notizie da lui. Però ora la sua penna ci interessa poco: invece ci interessa molto quello che vide quando passò da Biforco in un anno imprecisato, circa alla metà del Seicento.

 


Nei secoli passati Biforco era diviso in due parti:

 “…prima castello, et al presente villa, o contrada non solo bella … ma di sito tanto ampia che in due portioni uguali si trova divisa … una delle quali detta Biforco di sopra e l’altra, che unita a questa se ne va con Marradi a terminare, Biforco di sotto è chiamata ...”


 Biforco di sopra (a sin.) e Biforco di sotto (a dx) a fine Ottocento. la chiesa di Cardeto, in alto a sinistra sullo fondo, non ha ancora il campanile. 

Nei documenti antichi il nome Biforco è spesso alternato a Castellum, perché:
 “ … crederei che fosse quell’istesso castello in cui Antonino Pio imperatore, nel suo Itinerario, pose la prima stazione da Faenza … “

Si parla anche di Camurano (Camorana). Apprendiamo così che questo paesino è citato nel testamento di Maghinardo Pagani, il potente feudatario morto nel 1305 al castello di Benclaro (Casa Cappello, a S.Adriano). Camurano è uno dei siti più antichi del comune di Marradi.

“… alla destra del fiume, si vede Camorana, come la chiamò Maghinardo Pagani nel suo testamento … vicino alla quale villetta circa due tiri di mano trovasi un borghetto di case col nome di Biforco di sopra dove, sopra un ponticello che le sorge in faccia, vedesi la parrocchiale di S.Giacomo, e nel piano la chiesina dé santi Francesco e Carlo senza cura, dalla comunità di Marradi per sua devozione negli anni andata eretta; e quivi passando il fiume medesimo, sopra un ponte di pietra che vi sta fabbricato, entrasi in un altro borghetto di case simile al suddetto … Biforco di sotto, dentro al quale è un’altra chiesina sotto l’invocatione di S.Maria ad Nives, e poco più in basso un convento dé padri Serviti, dalla famiglia Fabroni con la sua chiesa sotto il titolo dell’Annunziata edificato. Donde per fianco viene da un torrente o rivo del medesimo nome irrigato che in detto luogo di Biforco di sotto col Amone unendosi, e seco per la distanza di un miglio solo incaminandosi, se ne va al castello di Marradi a ritrovare. ”


Biforco si chiama così perché è alla confluenza del Fosso di Campigno con il fiume Lamone, che scendono da due valli contigue che qui si biforcano, rispetto a chi sale verso la Colla di Casaglia.


La chiesa di San Giacomo è Cardeto, ma la chiesina dei santi Francesco e Carlo dov’era? E Santa Maria ad Nives? A dire il vero qui Saletti fa confusione perché Santa Maria ad Nives (alle Nevi) è la chiesa di Albero. Invece la chiesina di San Francesco e Carlo era all’ imbocco del ponte del Castellaccio e fu distrutta nel 1944. Poi Saletti parla di un ponte, di fronte all’ Annunziata:

 

 “ … si vede all’altra parte del fiume, e sulla ripa di quello, l’antico palazzo in cui da Antonio Fabroni fu ricevuto papa Giulio II, detto al presente il Casone dé Fabroni, con la sua torre, e loggia davanti,, secondo il costume delle famiglie più nobili, e con un ponte di pietra al dirimpetto, che per servitio di esso all’altra ripa si appoggia; il tutto fassi dal medesimo Antonio, se non da altri più vecchio, ivi costrutto, leggendosi tuttavia sotto uno dé capitelli delle colonne della medesima loggia questa memoria in una pietra intagliata, cioè: Antonio Fabroni fece fare questo palazzo …”.

Dai Commentari di Saletti, ricaviamo anche delle notizie sul mitico monastero di Biforco, di cui già nel Seicento non c’era più traccia:

 “… Affermerò probabilmente non solo che in questo eremo di Biforco risplendeva una congregazione di sante persone, ma che anco nell’anno 1070 … quella continuava… e di assai quantità di religiosi cresciuta”.

Se si cerca di approfondire si sconfina nella leggenda ed emerge la figura del beato Pietro da Biforco, sul quale merita spendere qualche parola perché forse è il monaco della Grotta del Romito. Nella illustrazione qui accanto Romoaldo Maria Magnani (1741) lo descrive. Ne parla anche frà Serafino Razzi, un monaco camaldolese del Seicento.


“ … Biforco è piccolo castello sopra Marradi … quivi era un monastero dedicato a S.Benedetto, il quale fu donato da S.Enrico imperatore a S.Romoaldo nell’anno 1012, affinché vi ponesse i monaci del suo istituto, che viveano in molta osservanza; il che ricavasi da un diploma spedito a detto S.Romoaldo da quel principe … In questo luogo di Biforco vissero in santità molti religiosi e fra questi si segnalò un tal monaco Pietro nativo di questo paese … e fabbricossi a Biforco una picciola celletta larga quattro braccia. Quivi menando una vita eremitica e solitaria era da tutti stimato e tenuto per uomo grave e da bene. Era d’una incredibile astinenza, facendosi soltanto di pochi legumi dopo tramontato il Sole. Sì assiduo nel fare orazione e nel dire salmi che non si saziava di consumarvi la maggior parte del giorno in un silenzio profondo. Amava la povertà in sommo grado, nella cella e nel vestito, volendo che così fossero alcuni pochi suoi discepoli … e venne a tale perfezione di vita, che non più sembrava uomo mortale, finché terminato il corpo di vivere se ne passò al Signore con placida morte sul principio del decimoprimo secolo di nostra Redenzione …”

 Non si sa altro del beato Pietro da Biforco; peccato perché questo personaggio “che si faceva soltanto di pochi legumi dopo tramontato il Sole” e viveva “in una picciola celletta larga quattro braccia” (0,58 cm x 4 = 2,32 m) ha un non so che di simpatico. Il nostro viaggio nel Seicento a Biforco finisce qui. Abbiamo letto la descrizione di Cardeto e dell’Annunziata, che c’erano già, del ponte del Casone, che c’era ma oggi non c’è più e del monastero del beato Pietro, che forse non è mai esistito.


Per ampliare

I Commentari di Val D'Amone, traduzione curata dal prof. Pietro Lenzini e altri.