Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

giovedì 31 agosto 2017

1177 L'arrivo dei Fabroni a Marradi

1177 Piero di Matteo fugge
da Pistoia
 con i suoi tre figli
Ricerca di Claudio Mercatali




Secondo la storiografia più accreditata il paese Marradi sarebbe stato fondato dai  Fabroni, esuli da Pistoia a seguito delle lotte cittadine del XII secolo. Però questa è  una leggenda e in quanto tale vera solo in parte.



Lo stemma dei Fabroni
(con tre martelli da fabbro)



Sembra di questa opinione anche lo storico Michelangelo Salvi, che scrisse le Historie di  Pistoia  nel 1656  e ci dice che i Fabroni, giunti qui da noi, ben presto entrarono in conflitto con i Mariscotti e i Ceroni, che erano famiglie del posto.  




Questo significa che probabilmente  il paese c’era già e i Fabroni lo ampliarono ma non lo fondarono.




Del resto nel 1177 al tempo dell’arrivo di Piero di Matteo Fabroni c'erano già  i monaci della Badia del Borgo, che almeno dall’anno Mille governavano il territorio e amministravano il paese. Come abbiamo già visto in un’altra ricerca del blog  i  primi scritti che attestano l’esistenza del borgo di Marradi sono appunto dei contratti di compravendita stilati dai monaci vallombrosani.

Però lasciamo a Michelangelo Salvi il compito di dire come andarono le cose nel 1177 e negli anni seguenti. 


venerdì 25 agosto 2017

Una strana battaglia a Marradi fra Fiorentini e Veneziani

da una Cronaca 
di Nicolò Machiavelli
ricerca di Claudio Mercatali


 
Nicolò Machiavelli

La storia che stiamo per leggere è un episodio di un fatto storico più grande, che semplificando si può riassumere così: nel 1498 Pisa si era ribellata a Firenze e cercava di riacquistare l’indipendenza, persa quasi cento anni prima. I Pisani, per sostenere l’assedio dei Fiorentini chiesero aiuto alla Repubblica di Venezia che quell'anno aveva conquistato la Romagna sottraendola al pontefice. 
I Veneziani accettarono e per alleggerire l’assedio di Pisa inviarono un esercito verso la Toscana, lungo la valle del Lamone.
L’esercito veneziano, partito da Faenza, risalì lentamente la valle fino a Marradi e pose l’assedio al Castellone. Però le cose andarono per le lunghe e arrivò un esercito fiorentino. Così i due contendenti si trovarono uno di fronte all'altro. 
 
Ecco come Nicolò Machiavelli
descrive la situazione nei:

Discorsi sopra prima deca di Tito Livio, Libro III al paragrafo 18, intitolato “Nessuna cosa è più degna d’uno capitano, che presentire i partiti del nimico”.

“… può spesso occorrere che due eserciti, che siano a fronte l'uno dell'altro, siano nel medesimo disordine, e patischino le medesime necessità; e che quello resti poi vincitore è il primo ad intendere le necessità dello altro.

Io voglio dare di questo uno esemplo domestico e moderno. Nel 1498, quando i Fiorentini avevano uno esercito grosso in quel di Pisa, e stringevano forte quella città, della quale avendo i Viniziani presa la protezione, non veggendo altro modo a salvarla, diliberarono di divertire quella guerra, assaltando da un'altra banda il dominio di Firenze e, fatto uno esercito potente, entrarono per la Val di Lamona, ed occuparono il borgo di Marradi, ed assediarono la rocca di Castiglione, che è in sul colle di sopra.


Sopra: il Castellone di Marradi.



Il che sentendo i Fiorentini, diliberarono soccorrere Marradi, e non diminuire le forze avevano in quel di Pisa; e fatte nuove fanterie, ed ordinate nuove genti a cavallo, le mandarono a quella volta: delle quali ne furono capi Iacopo IV d'Appiano, signore di Piombino, ed il conte Rinuccio da Marciano. Sendosi adunque, condotte queste genti in su il colle sopra Marradi, si levarono i nimici d'intorno a Castiglione, e ridussersi tutti nel borgo. Ed essendo stato l'uno e l'altro di questi due eserciti a fronte qualche giorno, pativa l'uno e l'altro assai e di vettovaglie e d'ogni altra cosa necessaria: e non avendo ardire l'uno d'affrontare l'altro, né sappiendo i disordini l'uno dell'altro, deliberarono in una sera medesima l'uno e l'altro di levare gli alloggiamenti la mattina vegnente, e ritirarsi in dietro; il Viniziano verso Bersighella e Faenza, il Fiorentino verso Casaglia e il Mugello.

Venuta adunque la mattina, ed avendo ciascuno de' campi incominciato ad avviare i suoi impedimenti; a caso una donna si partì dal borgo di Marradi, e venne verso il campo fiorentino, sicura per la vecchiezza e per la povertà, desiderosa di vedere certi suoi che erano in quel campo: dalla quale intendendo i capitani delle genti fiorentine, come il campo viniziano partiva, si fecero, in su questa nuova, gagliardi; e mutato consiglio, come se gli avessono disalloggiati i nimici, ne andarono sopra di loro, e scrissero a Firenze avergli ributtati e vinta la guerra. La quale vittoria non nacque da altro che dallo avere inteso prima dei nimici come e' se n'andavano: la quale notizia, se fusse prima venuta dall'altra parte, arebbe fatto contro a' nostri il medesimo effetto”.

Dunque i Fiorentini vinsero quasi per caso. Stavano per ritirarsi ma cambiarono idea perché una vecchietta li informò che i Veneziani stavano smobilitando. Da questo Machiavelli ricava la conclusione che “Nessuna cosa è più degna d’uno capitano, che presentire i partiti del nimico”.

sabato 19 agosto 2017

Amerigo di Giovanni Manfredi

Il diplomatico signore 
del Castellone
ricerca di Claudio Mercatali

  

I Manfredi furono signori del Castellone e quindi di Marradi per circa 80 anni (dal 1351 al 1428). Pur non essendo nobili di stirpe si trovano spesso citati con il titolo di conti.
Il primo conte fu Giovanni di Alberghettino, poi suo figlio Amerigo e in ultimo Ludovico, figlio di quest' ultimo. Di Giovanni e di Ludovico abbiamo già detto nelle ricerche che sono nell' archivio tematico alla voce Storia del 300 e del 400, e quindi ora tocca ad Amerigo.
Egli era figlio di Giovanni di Alberghettino Manfredi, l'aggressivo feudatario signore del Castellone di Marradi nella seconda metà del Trecento. Sua madre era figlia di Maghinardo Novello, l'ultimo degli Ubaldini di Palazzuolo, che fomentò una rivolta a Susinana e venne arrestato e decapitato a Firenze.



E possibile che Amerigo, viste le disavventure di suo padre Giovanni e la fine tragica del nonno materno, avesse capito che con il Comune di Firenze era meglio ridursi a miti consigli. Del resto anche suo padre Giovanni di Alberghettino, negli ultimi anni di governo della Rocca del Castellone si era messo al servizio della Signoria, svolgendo all'occorrenza anche qualche compito di polizia, come la riconsegna dei fuoriusciti e dei rivoltosi in fuga da Firenze dopo le varie fazioni che capitavano in città in quel secolo.

Ecco qui accanto una notizia tratta da uno storico antico, Marchionne di Coppo Stefani, che parla proprio di questo. Il documento è un autografo di Giuseppe Matulli, l'autore del Libro La via del grano e del sale, che è la principale fonte di notizie per la storia di Marradi del Trecento.



Giovanni e Amerigo cedettero a Firenze il castello di Bocconi, fra S.Benedetto e Portico, in cambio di protezione. Un accordo di questo genere si diceva di accomandigia ed era in pratica un assoggettamento.

In compenso i Fiorentini lasciavano che la famiglia Manfredi governasse Marradi, perché a loro in fondo interessava soprattutto che la via lungo la valle fosse libera e sicura, per il commercio del grano e del sale.

Questo è un evento importante per la storia dell'alta valle del Lamone, perché segna l'ingresso ufficiale dei Fiorentini qui da noi e la perdita di influenza di Faenza, anche se il definitivo passaggio di Marradi e Modigliana sotto Firenze avverrà più tardi, nel 1428.
Il fatto è registrato anche nelle Historiae di Faenza, di Giulio Cesare Tonducci, come si può leggere qui sotto.

  

Finirono così le guerricciole fra feudatari e almeno una parte dei soprusi. I Marradesi del tempo saranno stati senz' altro contenti di questo. Però continuarono gli intrighi, perché Amerigo, secondo la tradizione di famiglia, non perdeva occasione per tramare contro gli odiati cugini, i Manfredi di Faenza.

Da Giulio Cesare Tonducci apprendiamo che il signore del Castellone riuscì a combinare un matrimonio doppio, fra due sue figlie e due rampolli della famiglia Da Polenta, che signoreggiava a Ravenna. I Manfredi videro in questi matrimoni un progetto di aggiramento ai loro danni e minacciarono un intervento armato, che però non ci fu. Di Amerigo sappiamo poco altro. Fu molto prolifico, perché ebbe anche tre figli maschi, Ludovico, Jacopo e Giovanni. Il primogenito Ludovico gli succedette e fu l'ultimo signore del Castellone.

Con Ludoivico riaffiorò l'aggressività del nonno Giovanni e anche l'arroganza nei confronti dei Fiorentini, che ad un certo punto lo invitarono a Firenze "per intendersi" ma non appena giunto in città lo imprigionarono nel carcere delle Stinche e non lo liberarono più.

Era il 1428 e a Marradi arrivarono le milizie del Comune di Firenze comandate da Averardo de' Medici, per snidare definitivamente i fratelli di Ludovico dal Castellone. L'assediò durò un mese ed ebbe successo. I Manfredi del ramo marradese furono esiliati e si perse di loro ogni traccia.

La passeggiata al Castellone è un classico per i marradesi. In primavera si può partire dal Ponte di Camurano e seguire la strada campestre che sale lungo il fosso del Frassino. 


Chi vuole seguire la via medievale può partire dalla stazione di Biforco e seguire il percorso illustrato in un pannello molto chiaro che si trova lì. Che cosa si vede dal Castellone?


 Accanto: visuale sud 
Sotto: visuale nord


    

 
 
Clicca sul testo 
e sulle immagini
se vuoi un ingrandimento.



 

martedì 15 agosto 2017

Boote e la Corona boreale

Due belle costellazioni
nel cielo d'estate
ricerca di Claudio Mercatali



Boote è una delle 48 costellazioni di Tolomeo e secondo il mito è dedicata a Icario, l'uomo al quale Dioniso insegnò a coltivare la vite e a fare il vino. Però quando Icario offrì ai suoi vicini questa nuova bevanda, essi si ubriacarono e credendo di essere stati avvelenati lo riempirono di botte tanto che morì.

Per arrivare qui la via classica è dal Grande Carro: si prolunga il timone, mantenendone la curvatura, fino ad una stella molto luminosa, Arturo, la più brillante in questa parte del cielo. Il nome in greco significa "la guardiana dell' Orsa", perché è vicino all' Orsa Maggiore. La forma della costellazione non dà una figura precisa: qualcuno dice che è una ipsilon rovesciata qualcun altro ci vede un aquilone, con Arturo proprio nel punto in fondo alla coda.

Arturo è forse la più tipica stella gigante rossa e il suo colore tendente all' arancione è già evidente a occhio nudo e diventa inconfondibile con il binocolo.

 La corona boreale è una costellazione piccola ma facile da trovare. Il nome già ci dice che dobbiamo cercare un semicerchio di stelle, cinque visibili ad occhio nudo e altre con il binocolo, che sono appena a destra di Boote.



Alfa Coronae, Alpecca, è una stellina di magnitudine 2,2 che si confonderebbe con molte altre se non fosse in mezzo all'asterismo come una gemma in un diadema.
 

Perché questa costellazione si chiama così?

Il mito dice che la principessa Arianna aiutò l'eroe Teseo a uccidere il Minotauro, che si nascondeva in un labirinto, e per ritrovare la via d'uscita gli diede un gomitolo da srotolare in modo da avere una traccia per il ritorno. E' il famoso "filo di Arianna" versione antica delle moderne strisce indicatrici verniciate sui pavimenti degli edifici con tanti corridoi. Teseo promise di sposarla, ma la abbandonò nell' isola di Nasso. Di lì passò Dioniso (o  Bacco, dio del vino) che la vide piangere e la sposò donandole un diadema d'oro, poi tramutato in costellazione.
 
Teseo uccide il Minotauro
 
 

venerdì 11 agosto 2017

Marradi negli anni Trenta


Una serie di immagini
dalla collezione
di Giuseppe Farolfi
 
 
 
 
 

 
 
Il paese, visto dalla zona di Villa Grilli. Negli anni Trenta era circondato da campetti terrazzati, spesso lavorati a vigna e zappati.
 
La "marra" nei secoli antichi era uno zappetto adatto a dissodare terreni pietrosi e probabilmente da questo viene il nome "Marrato o Marradi".
 
 
 
 
Il paese visto dal monte di fronte, con la prospettiva sinistra - destra rispetto alla foto precedente.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Questa è la visuale all'imbocco della strada per Palazzuolo sul Senio. Siamo nel 1946, il Ponte Grande è appena stato ricostruito e ha le spalline di cemento. Si vedono ancora le macerie di alcune case.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Queste che seguono sono tutte immagini
di via Fabroni negli anni Trenta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La differenza più evidente rispetto 
oggi è che mancano i marciapiedi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La gente è vestita a festa e probabilmente
questa è una domenica mattina.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Qui, e anche nella foto precedente, si vede che la fontana pubblica vicino al convento delle Suore Domenicane non è dov' oggi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Anche piazza Scalelle era senza marciapiedi.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Clicca sulle immagini
se le vuoi ingrandire.
 
 
 
 
 
 
 
 
Il paese è sempre stato molto devoto alla Madonna del Popolo.
Nei primi anni Cinquanta venne fatta una colletta per arricchire la statua della Vergine e del bambin Gesù con due corone d'oro del peso di 600g.

lunedì 7 agosto 2017

La Littorina

Il treno più famoso
della linea Faentina.


 
Che cos'era una Littorina? Per chi ha una certa età (oltre i 60 anni) questa è una domanda con una risposta ovvia: era il treno, di colore marroncino, diesel, che aveva sostituito le locomotive a vapore nella nostra linea Faentina.
Gli esperti in cose ferroviarie ci spiegano che, a voler essere precisi, il nome “Littorina” venne coniato nel 1932 quando Mussolini fece visita alla città di Littoria, oggi Latina, giungendo su una ALn (Automotrice Leggera a nafta). Quel termine rimase poi nell’uso popolare, esteso a tutto il materiale rotabile leggero, anche a trazione elettrica.
Dunque la risposta alla domanda di prima è meno ovvia di quello che sembra e, a seconda delle linee, ci sono Littorine FIAT, Ansaldo, e OM di vari modelli. Anche oggi nelle automotrici che ogni tanto fanno servizio nella nostra linea quando il moderno treno Alstom Minuetto  è in manutenzione c'è scritta, su un fianco, la sigla Aln 668 seguita da un numero di matricola, che sarebbe una specie di targa. Però per noi, anziani pendolari della Faentina, la classica Littorina è la OM 772 che si vede nella foto qui sopra.

Queste motrici diesel entrarono in servizio agli inizi del 1934 e fu un evento commentato anche dalla stampa. In effetti il servizio migliorava sensibilmente, per i tempi di percorrenza e perché i viaggiatori arrivavano a destinazione senza essere affumicati.

 Nel Messaggero del Mugello leggiamo che:
"... ci viene assicurato che il percorso Borgo S.Lorenzo - Firenze sarà coperto in appena trenta minuti ...".

Non era vero, però i vantaggi furono enormi lo stesso. Come stavano le cose prima dell' entrata in servizio delle Littorine?
Ecco qui di seguito gli orari della Faentina, dall' inaugurazione (1893) fino al 1957, quando il servizio era coperto dalle OM 772 che vediamo in questa foto.

















Anno 1893 Il primo orario
della ferrovia Faenza - Firenze






Prima della ferrovia per andare a Firenze si poteva prendere la diligenza di Giovan Battista Neri, il mercoledì e la domenica.





 

 

A destra: l'orario del 1910








L'orario estivo
del 1933









L'orario
invernale
1933







 
 
L'orario
del 1957
 
 

martedì 1 agosto 2017

Uomini visti

Giuseppe Ravegnani
parla di Dino Campana

ricerca di Claudio Mercatali



Giuseppe Ravegnani, romagnolo di S.Patrignano (Rimini) conobbe Dino Campana.
Giornalista e direttore della biblioteca Ariostea di Ferrara scrisse diverse cose sul nostro poeta. Questa che segue è la cronaca del suo incontro con Campana a Ferrara, un giorno dell' agosto 1915. Sentiamo come lo racconta:

... Finalmente me lo vidi capitare a Ferrara, e fu quello il nostro primo incontro, che merita un po' di cronaca.




Era un pomeriggio afoso di fine agosto. Il mio studiolo, nonostante aprisse una gran finestra sul giardino e sull'orto, era una specie di fornace accesa; e io stavo boccheggiando in maniche di camicia, con un libro sui ginocchi, stordito da quel caldo che quasi bruciava la pelle. Un po' appisolato com'ero, non avevo sentito mia madre entrare e avvicinarsi alla poltrona, su cui riposavo.

 "C'è lì fuori" disse mia madre tutta allarmata "uno strano tipo, una strana faccia, che domanda di te ..."    Chi è? domandai.
"Non lo so. Non lo conosco. Non mi ha detto il nome. Ha detto solo che è un tuo amico".
Va bene. Fallo passare.
"Ma che razza di amici ti sei messo dattorno ... Sarà certo qualche scroccatore ..." aggiunse mia madre, voltandomi le spalle.


Di Campana uomo molto si è scritto, lavorando di fantasia. Chi lo ha detto bello come Shelley, scomposto come Dioniso, spettinato come Verlaine. Altri lo hanno paragonato a un brigante" a un frate camaldolese, a un tedesco spiaccicato, a uno scampaforche, a un fauno dorato", a un Giove ubriacone, a un "giramondo che, parlando, cantava come un fringuello" e chi più ne ha più ne metta.

 Insomma poète maudit; e per dargli come tale l'aureola di rito, gli hanno fatto fare una trentina di mestieri, alcuni veri, altri inventati. Il vero Campana era diverso.


Dunque, uscita mia madre, dopo un attimo entrò un ragazzone, dagli occhi chiarissimi, di un celeste che sfumava nel grigio, i capelli di un biondo caldo, la pelle del viso tesa e stillante di sudore. Indossava un abito sgualcito; la camicia aperta sul petto: le scarpe ricoperte di polvere. Appena mi vide, tese il braccio in un gesto un po' ieratico e un po' teatrale: Tu sei Ravegnani? Domandò e senza darmi tempo di rispondere, cominciò a declamare con voce dolce, con pronuncia pulita, leggermente venata dalle cadenze della sua terra:

Non so se tra le roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote.
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora della Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina ...

 A quei versi balzai in piedi: Campana! dissi, allegro e meravigliato. "Si, Campana. Vengo da Bologna in bicicletta per trovarti. Un accidente di caldo" e mi gettò le braccia al collo.


 Cominciammo a parlare. Dino si gettò su una sedia, accanto alla finestra. Io lo guardavo contro la luce bianca che veniva dal giardino. C'era attorno a lui una specie di leggenda, quasi un mito: i suoi vagabondaggi, i suoi mestieri, le sue stranezze, le sue ire, la sua poesia. Invece, lì davanti a me, il tronco solido, il viso aperto, non c'era che un ragazzone dall'aspetto trasandato e innocente, lo sguardo puro, un sorriso tranquillo sulle labbra sane.




Le parole che diceva erano discrete, rotte da silenzi. A tratti scattava in piedi, si muoveva per la stanza, si fermava a guardare i libri dentro la scansia. Il colloquio andava avanti a strattoni, ma niente c'era in lui di difficile, di bizzarro, di annebbiato, di ribelle. Dopo i primi momenti, dopo le prime parole, lo vidi più taciturno che loquace, più pensoso che estroso; e appunto il suo carattere doveva essere così, temperante, indulgente, bonario.

Ma assai diverso mi apparve non appena cominciammo a girare per le belle strade di Ferrara, piene di armonia e di colori. Sembrò stuzzicato da qualcosa di bollente, di intemperante: una specie di felicità vertiginosa cominciò a battergli il corpo, ad accendergli le parole.

Camminava a lunghi passi in mezzo alla strada, parlando ad alta voce, e muovendo le braccia per l'aria come ali di mulino. La gente lo guardava, specialmente le donne, che a Ferrara sono belle, d'una bellezza pesante di sensualità. Campana se ne accorse; e ogni tanto a quegli sguardi, mi strizzava l'occhio felice: "Le ferraresi sono belle, granite ..." andava ripetendo. Poi, più ragazze vedeva, brune, bionde, e più forte declamava i suoi versi, che sembrava li offrisse a quegli incontri: " ... matrone di Spagna, dagli occhi torbidi e angelici, dai seni gravidi di vertigine ... o Siciliana proterva opulenta matrona a le finestre ventose del vico marinaro ... la rosabruna incantevole, dorata da una chioma bionda ...". Io cercavo di frenarlo, richiamandolo alle bellezze cittadine, al color rosso delle case ferraresi, al ricco splendore delle antiche chiese, al dolcissimo concerto delle campane, che riempivano l'aria azzurra della prima sera. Dino un po' mi ascoltava serio, faceva si col capo, si fermava a osservare ora una finestra ora un cornicione di cotto; ma appena una donna lo guardava, come balzando mi prendeva un braccio, stringendomelo fino a farmi male: "Oh! Hai visto! Opulenta! Imperiale! Notturna colomba! Ecco la poesia! Nasce in quest' aria!".




Il duomo di Ferrara



Più tardi, come arrivammo in piazza del duomo, e la facciata meravigliosa apparve, chiara contro il cielo notturno, le trine dei marmi splendenti, Dino si gettò nel mezzo e gesticolando ripeté ad altissima voce, una due volte: "La sera si veste di velluto, la sera si veste di velluto ...". E rideva felice. La gente si fermò a guardarlo. Ma davvero era una sera bellissima, piena di stelle e di fuoco.