di Michele Campana.
di Luisa Calderoni
Nel 1955, nel 70° anniversario della nascita di Dino Campana, il Club Sportivo Culturale di Marradi pubblica un giornale a numero unico titolato semplicemente “ 20 agosto “. Qui troviamo trascritti i testi di una serie di conferenze dedicate alla vita e all’opera del poeta che si erano tenute nel corso dell’anno precedente volute dal CSC in collaborazione con il “Comitato per le Onoranze a Campana”.
Tra i tanti scritti, ci aiuta a capire qualcosa di più di Dino, del suo carattere e dell’aspetto fisico, un articolo firmato da Michele Campana, omonimo di Dino e di lui coetaneo. Nell’articolo Dino è descritto in varie fasi della vita, la fanciullezza a Marradi, il periodo scolastico faentino, il periodo fiorentino. L’oratore ricorda Dino con grande partecipazione emotiva e con vivezza di particolari certo non disgiunte da una nostalgica tristezza per quegli anni felici…
“ Sento che questa sera, dinnanzi a voi, che siete accorsi così numerosi. non certo per la mia modesta eloquenza, ma per rendere onore alla grande poesia di Dino Campana, io devo parlare soltanto col cuore . E ciò per due motivi.
Non è senza commozione che ho rivisto, dopo tanti anni, questo ridente e laborioso paese della Val di Lamone, a cui mi legano tanti ricordi della mia adolescenza.
Se pure nato nella vicina Modigliana, mi son sempre ritenuto un po’ marradese. La mia famiglia è oriunda di Marradi. I miei nonni vissero a lungo nel Conventaccio e mio zio Pietro ebbe bottega, fin quasi allo scoppio della prima guerra mondiale, proprio sul Ponte, non troppo lontano dalla casa abitata dai maestri Campana. E’ quindi spiegabile che io, venendo a Marradi, ospite dei nonni e dello zio, conoscessi Dino Campana e fin da bimbo mi legassi a lui, con un’amicizia che si prolungò negli anni.
Il secondo motivo per cui debbo parlare col cuore è che, venendo qui, ogni strada, ogni angolo del paese mi hanno parlato di lui; ed il l’ho rivisto come se fosse ancora vivo e operante.
Era un bel bambino, con una faccia tonda, paffuta , rosea, circondata da una massa di capelli biondi, con due occhi grandi e penetranti di un grigio che toccava il celeste dei laghi; ed un naso un po’ caparbio, un po’ all’insù, che lasciava scoperte le due narici. Tale si mantenne fino ai vent’anni, crescendo di media statura, di larghe spalle, di petto saldo, forte. Era vivacissimo, irrequieto, non stava mai fermo; sembrava che avesse l’argento vivo, o il fuoco, nel sangue; e menava volentieri le mani senza risparmio.”
... era un bel bambino,
con una faccia tonda, paffuta ...
Sotto: la classe 3a elementare del 1894.
Il maestro è Torquato Campana, lo zio di Dino.
“All’età di 12 anni, nell’ottobre del 1897, fummo tutti e due inviati a studiare nel Collegio dei Salesiani a Faenza. Eravamo nati nello stesso anno: io l’8 gennaio, lui il 20 agosto. Frequentammo per tre anni le stesse classi, dalla terza ginnasiale alla licenza. Allora nel Ginnasio si incominciava a prendere conoscenza dei grandi poeti italiani, prima la “Gerusalemme Liberata” del Tasso e poi “L’Orlando Furioso” dell’Ariosto.
I due libri ci appassionarono fino all’entusiasmo. Dino era felicissimo nel mandare a memoria le ottave più drammatiche di quei due poemi. La poesia di lui ebbe le prime radici ed i primi germi da quei canti.
Nel collegio, dopo le ore di studio, si usava scendere nel vasto cortile per la ricreazione; e si giocava a salti, corse, palla al tamburello, palla avvelenata (…) Ma Dino, insofferente dei giochi che dilettavano tutti gli altri, un giorno mi disse:” Non mi piacciono questi giochi troppo comuni: Inventiamone un altro più difficile ed anche più nobile.”
Anche in ciò era la testimonianza di una insofferenza a compiere atti troppo normali, e di una sua originalità ad ogni costo.
"Per sua proposta imparammo a memoria alcuni brani del Tasso, prima, e poi dell’Ariosto (…). Ricordo ancora con quanto orgoglio e con quanto impeto Dino declamava a gran voce quei versi. Ci eravamo armati di due pertiche rubate nell’orto; e, tenendole strettamente in mano, come due lance in resta, correvamo in tondo per il cortile, fingendo di cavalcare e poi ci lanciavamo incontro, gridando ad alta voce i versi e tentando di imitare tutti gli atti descritti dai poeti. Si facevano finte, si tiravano colpi, si scansavano. Colui che veniva colpito per prima da un colpo di lancia, perdeva il gioco. Dino metteva tanto impeto nei suoi assalti che era difficile difendersi. (…) Questo gioco durò quasi due, e ci alimentò della grande poesia del Cinquecento, (…) la nostra vita sbocciava in questa atmosfera.
Ma al terzo anno, nella quinta ginnasiale, ci misero a contatto con la prima cantica della Divina Commedia. Si studiarono e si mandarono a memoria i canti più facili (…). Dino aveva sempre in mano il libro e lo leggeva e lo studiava anche durante la ricreazione ed il refettorio. Un giorno mi disse :” Ma tu, l’hai capito Dante? Hai sentito che verità, che forza, e soprattutto che musica? Diverse da quelle dell’Ariosto e del Tasso.” (…) Un altro giorno mi disse:” Hai considerato come l’Alighieri usi le parole in funzione di musica? Nel canto V, a Francesca da Rimini, creatura d’amore e di gentilezza, mette in bocca questo verso: “farò come colui che piange e dice”, parole dal suono dolcissimo. Ma nel canto XIII fa dire al Conte Ugolino: “parlare e lagrimar vedraimi insieme”, che son parole aspre, forti, come si addicono ad un personaggio d’odio e desideroso soltanto di vendetta.”
La casa di famiglia, a Marradi.
A ripensarci adesso, si trova che quelle scoperte erano semplicemente sorprendenti in un ragazzo di 15 anni e non provenivano certo da spiegazioni dei nostri insegnanti. Io penso che da queste prime osservazioni e scoperte sia nato, e si è poi sviluppato, quell’ardore quasi parossistico di raggiungere con la parola e col verso una musicalità assoluta, che non tenesse conto più di logica né di sintassi, ma che diventasse soltanto un canto altissimo di pensiero e di vita”
A ripensarci adesso, si trova che quelle scoperte erano semplicemente sorprendenti in un ragazzo di 15 anni e non provenivano certo da spiegazioni dei nostri insegnanti. Io penso che da queste prime osservazioni e scoperte sia nato, e si è poi sviluppato, quell’ardore quasi parossistico di raggiungere con la parola e col verso una musicalità assoluta, che non tenesse conto più di logica né di sintassi, ma che diventasse soltanto un canto altissimo di pensiero e di vita”
Alcune riflessioni…
“ Hanno detto che beveva troppo e che l’alcool distrusse l’equilibrio della sua intelligenza. Sciocchezze, che voi, amici marradesi, dovete smentire con energia. Gli piaceva il vino, questo concentrato di sole italico, questo alto segno delle civiltà mediterranee. Io ne ho bevuto certamente più di Dino e ne bevo ancora e, pur lavorando intensamente col pensiero, non ho mai perduto il lume della intelligenza. Per spiegare le sue stranezze si è parlato anche di contrasti in famiglia (…) Non si è neppure, da alcuni biografi, risparmiata la santa memoria della madre, che io ho conosciuta come una donna di alto sentimento e che voleva bene ai suoi figli, a tutti i suoi figli, con lo stesso spirito di sacrifico fino allo spasimo.
La verità è un’altra e ben più nobile. Nel sogno dell’ impossibile che aveva preso Dino fin dall’adolescenza per contenere i più ampi orizzonti del suono di alcune parole e far riprodurre ad esse persino i colori, la sua mente si è torturata e si è consunta in mezzo all’incomprensione dei più, che guardavano di lui solo le apparenze esteriori e non conoscevano quale fuoco lo bruciasse (…) .”
“ Alla fine del ginnasio, lo perdei come condiscepolo. Io andai a Firenze e lui a Torino, a Carmagnola e poi all’ Università di Bologna. Seppi che aveva perduto anche un anno negli studi, colpito da certi sintomi, che avevano giustamente preoccupato i suoi famigliari. (…)
Nel 1906 incontrai Dino a Modigliana, dove era ospite di una zia paterna maritata Pianori. Appena mi vide, dopo i convenevoli imposti dalla nostra amicizia, mi informò che studiava chimica a Bologna. Alla mia sorpresa ed anche al mio rammarico, perché avesse prescelto una tale materia lui così innamorato della poesia, mi rispose con una rumorosa risata, non abituale in lui, ma che tutto lo scuoteva, come un attacco nervoso. Quando ebbe calmato il riso, aggiunse:” Volevo far presto per liberarmi da questa noia degli studi accademici. Ma la poesia non l’ho abbandonata. Mi rumina dentro, ogni tanto mi vien su qualche verso, anche quando meno ci penso. Succede come di quei motivi musicali, che sembrano scaturire dal nostro subcosciente, e che noi continuano a ripetere infinite volte cantando o zufolando. La poesia è il meglio di me. E poi vedrai, vedrai: ti farò presto una sorpresa.”
Trascorsero altri otto anni senza che lo rivedessi e si arrivò al 1914, l’anno di incubi e di lotte per lo scoppio della prima guerra mondiale. Le vicende della vita e la ragion del pane mi avevano portato a dirigere il Giornale del Commercio di Firenze (…) Ed ecco che, un giorno di fine estate di quell’ anno, mi vedo comparire negli uffici del Giornale del Commercio, che erano in via Ricasoli, dove ha sede oggi La Nazione, Dino Campana.
Quasi non lo riconoscevo, tanto era cambiato. Si era fatta crescere una barbaccia incolta del color del rame, che gli arrivava a mezzo petto ed era spartita da due enormi baffi, ancor più rossicci. Vestiva un abito che un tempo doveva essere nero, ma diventato verdicchio per il lungo uso; ed in più macchiato di polvere.
Dino Campana secondo il pittore
Giovanni Costetti
Mi sparò a bruciapelo questa rivelazione: “ Ho mantenuto la mia promessa. Ho pubblicato un libro di poesie. E’ il più gran libro che sia stato scritto durante la nostra generazione. Se lo vuoi vieni a conquistartelo.”
Per compiacerlo, ed anche colpito dalla novità, abbandonai il mio lavoro e lo seguii passo passo per via Ricasoli. Girammo intorno a Santa Maria del Fiore , entrammo in via Proconsolo: Tentai di interrogarlo. Mi disse soltanto che aveva molto viaggiato e che si era stabilito in Campigno presso una famiglia di pastori, e si trovava bene. Aggiunse che io, borghese, non potevo capire la bellezza di quella vita.
Allorché fummo dalla parte posteriore di Palazzo Vecchio, mi fece svoltare per il vicolo del Corno, che allora era una delle vie più malfamate di Firenze . Entrammo in uno di quegli alberghetti (…) notoriamente covo di ladri e di donne da marciapiede.
Fiirenze, via del Corno.
Salimmo a fatica i cento e più gradini di una scala semibuia e sgangherata per raggiungere l’ultimo piano dove c’era la camera del suo alloggio; ma che dico camera? Una stamberga, una soffitta di miseria, che faceva pietà. Si accostò al lettuccio di ferro, rugginoso e sgangherato; e di colpo abbalinò il materasso. Scoperse, quant’era la grandezza del letto, un piano di libretti dalla copertina gialla con un titolo nero a caratteri un po’ fantasiosi; ed io lessi “Canti Orfici”, “Canti Orfici” infinite volte. Mi porse una copia ed in tono perentorio mi disse:” Lire 2,50.” Io estrassi dal borsellino una moneta da 5 lire e, non senza ironia, gli risposi:” Affinché non ti incomodi a darmi il resto, vendimene un’altra copia.” Battè più volte i sopraccigli, non so se per stizza o per contentezza . Mi porse la seconda copia e mi congedò senza parlare. Ma quando fui in fondo alla prima rampa di scale, si affacciò all’uscio e gridò :” Tu non capirai nulla di questa poesia, ma ti ringrazio lo stesso.” Era davvero un bel modo di ringraziare!
Fiirenze, via del Corno.
Salimmo a fatica i cento e più gradini di una scala semibuia e sgangherata per raggiungere l’ultimo piano dove c’era la camera del suo alloggio; ma che dico camera? Una stamberga, una soffitta di miseria, che faceva pietà. Si accostò al lettuccio di ferro, rugginoso e sgangherato; e di colpo abbalinò il materasso. Scoperse, quant’era la grandezza del letto, un piano di libretti dalla copertina gialla con un titolo nero a caratteri un po’ fantasiosi; ed io lessi “Canti Orfici”, “Canti Orfici” infinite volte. Mi porse una copia ed in tono perentorio mi disse:” Lire 2,50.” Io estrassi dal borsellino una moneta da 5 lire e, non senza ironia, gli risposi:” Affinché non ti incomodi a darmi il resto, vendimene un’altra copia.” Battè più volte i sopraccigli, non so se per stizza o per contentezza . Mi porse la seconda copia e mi congedò senza parlare. Ma quando fui in fondo alla prima rampa di scale, si affacciò all’uscio e gridò :” Tu non capirai nulla di questa poesia, ma ti ringrazio lo stesso.” Era davvero un bel modo di ringraziare!
Seppi poi che andava in giro per i maggiori caffè fiorentini e offriva in vendita il suo libro, dicendo a tutti:” Questo è il più gran libro di poesia che sia stato scritto nella nostra generazione.”
Molti clienti dei caffè, colpiti dalla stranezza di questo tipo, che aveva più del bandito che non dello scrittore, compravano il libro; e lui invariabilmente, porgendo la copia, ne stracciava con gesto nervoso la terza pagina del frontespizio, dove era stampato: “ A Guglielmo II Imperatore dei Germani l’autore dedica.” E sempre esclamava:” Questo non vi interessa.”
Ebbe la fortuna di incontrare al Caffè delle Giubbe Rosse uomini superiori di intelligenza e di coscienza , come Giovanni Papini, Ardengo Soffici,Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper, che fu poi l’eroe del Podgora, e altri. I quali da principio si diedero a canzonare lo stravagante poeta, ma appena ebbero gettato gli occhi sul suo libretto, capirono subito la straordinaria importanza della sua parola. E di lì cominciò, seppur lentamente, la notorietà e la gloria” .
A sinistra:
il caffé Paszkowski, un altro locale famoso, a Firenze, frequentato da Dino Campama.
Gli anni finali…
il caffé Paszkowski, un altro locale famoso, a Firenze, frequentato da Dino Campama.
Gli anni finali…
“ Un destino crudele era già in agguato. I suoi nervi consumati dal fuoco dei sogni impossibili, incominciavano a cedere. Si avvicinava il momento della tragica conclusione. La sua opera apparve come un baleno, che incrina la volta celeste con strisce magnifiche, guizzanti luce, ma per un attimo: poi lo schianto della saetta e la fine.
Una sera del 1915, quando già era scoppiata la guerra tra l’Italia e gli Imperi Centrali,ed anch’io mi preparavo a partire per il fronte, udii una lunga violenta scampanellata alla porta. Abitavo il via Milazzo, una strada allora buia e semideserta del Campo di Marte. Erano le 22, dunque un’ora insolita per visite. Andò ad aprire mia suocera. Mise per precauzione la catena, come usa a Firenze; e dallo spiraglio domandò chi fosse. Ma diede un grido, rinchiuse con un tonfo la porta e si precipitò da me, esclamando in spavento:” C’è una che cerca di voi. Ma non ci andate. Se vedeste che faccia. Pare un brigante.”
Erano tempi tranquilli e non c’era d’aver paura di banditi e di rapine: Mi affrettai a spalancare la porta e mi trovai di fronte Dino Campana. La sua barba era ancora più arruffata, il vestito quasi bianco per forse un dito di polvere. Mi guardava con occhi stranamente fissi, quasi fosforescenti. Disse:” Vengo da Campigno a piedi. Ho fame.”
Null’altro. Lo feci entrare nella stanza dove mangiavamo e mia moglie gli mise dinanzi ciò che fu possibile trovare in casa a quell’ora tarda; e cioè una pagnotta di pane da un chilo, un po’ d’affettato che era rimasto di cena, una formetta intera di cacio pecorino ed un mezzo fiasco di vino. Si gettò con voluttà su quei cibi e masticando in furia divorò tutto, tutto. Mia moglie cercò di interrogarlo sulle ragioni per cui era venuto a piedi e con un appetito così arretrato. Rispose, mugolando fra i bocconi parole incomprensibili. Capimmo soltanto che era venuto a Firenze per arruolarsi volontario nell’esercito. Aggiunse: ”La guerra una cosa tremenda, ma un poeta deve fare anche questa esperienza.” Si alzò e, senza ringraziare, senza salutare, si avviò alla porta e scomparve nel buio della notte.
Capii dal suo contegno che qualcosa non andava più bene nel suo cervello.
Sparì nel buio della notte, e non l’ho rivisto più. Ma mi è rimasto il suo libretto dalla copertina gialla, che mi parla ancora di lui, della sua vita, dei suoi sogni ed anche della sua tragica immeritata fine.”