angolo che ride
Leonardo Chiari
Quando pensiamo al rapporto tra Dino Campana e Marradi, il suo paese d’origine, ci viene subito in mente qualche parola come “difficile” o “conflittuale”; per non dir di peggio. Può anche darsi che l’idea di un Campana odiato dal suo paese che lo chiamava “e màt” e gli tirava i sassi sia un po’ esasperata; magari enfatizzata da quei giornalisti, in primo luogo Sebastiano Vassalli, che a Marradi, sulle tracce del poeta, non si erano poi trovati così bene; e per ripicca spararono sui marradesi.
È innegabile, tuttavia, che il rapporto tra Campana e il suo paese natale sia, quantomeno, “difficile”: è lui stesso a dircelo. Certo non è facile capire in cosa consistesse, esattamente, questa difficoltà di rapporti (anche i biografi tentennano).
Per esempio bisogna ricordare i 44 sottoscrittori che aiutarono il poeta a far pubblicare il suo capolavoro, i Canti Orfici, proprio a Marradi, nel 1914. E i marradesi presenti nei Canti Orfici? C’è «Catrina» (romagnolo per “Caterina”), una fanciulla di Campigno, contadina, che seduce la fantasia di Campana che la paragona a una specie di madonna di Dante e dello Stilnovo. C’è la «bona gente» di Orticaia (Gamberaldi) che lo accoglie, pare, dolcemente al termine del suo pellegrinaggio a La Verna. Ma siamo pur sempre nei confini, nelle frazioni, come Campigno e Gamberaldi; degli abitanti di Marradi “centro” non si parla; oppure se ne parla, nelle lettere, ma di certo non in modo edificante: ad esempio, è lo stesso poeta a dirci che quella famigerata dedica a «Guglielmo II Imperatore dei Germani» la aggiunse nei Canti Orfici per «far dispetto al farmacista al Sindaco all’arciprete».
Date queste premesse, sembrerebbe che il poeta di Marradi non amasse particolarmente il suo paese. Eppure quando parla di Marradi, come ne La Verna, Marradi (Antica volta. Specchio velato), tutto è ridente, ride tutto: «Il mattino arride sulle cime dei monti» (un verso rifatto forse sulla traduzione di uno del Romeo e Giulietta di Shakespeare: «il mattino sulla cima dei bruni monti sorride»); il Castellone ride; stando a un’altra versione, si legge: «Il vecchio castello che ride sereno sull’alto»; il campanile di Marradi ride: «Una cupola rossa ride lontana con il suo leone»… insomma: a Marradi ride tutto; o meglio ridono gli elementi naturali e architettonici. Si obietterà che in questo ritratto di Marradi si fornisce una veduta aerea, dall’alto, cioè non si scende in paese, e soprattutto non vi sono i marradesi, a parte una «Venere», chissà chi è, che «passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale».
Marradi
Il vecchio castello che ride sereno sull’alto
La valle canora dove si snoda l’azzurro fiume
Che rotto e muggente a tratti canta epopea
E sereno riposa in larghi specchi d’azzurro:
Vita e sogno che in fondo alla mistica valle
Agitate l’anima dei secoli passati:
Ora per voi la speranza
Nell’aria ininterrottamente
Sopra l’ombra del bosco che la annega
Sale in lontano appello
Insaziabilmente
Batte al mio cuor che trema di vertigine.
Marradi (Antica volta. Specchio velato)
Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di un triangolo desolato si illumina il castello, più alto e più lontano. Venere passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale. Il fiume si snoda per la valle: rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro: e più veloce trascorre le mura nere (una cupola rossa ride lontana con il suo leone) e i campanili si affollano e nel nereggiare inquieto dei tetti al sole una lunga veranda che ha messo un commento variopinto di archi! Quello che voglio sostenere, però, è che l’immagine di Marradi che ride viene proprio da un marradese, che noi di Marradi conosciamo bene: Anacleto Francini, che di “riso” se ne intendeva. Commediografo, showman, giornalista, paroliere, autore della canzone Creola, Anacleto Francini, in arte “Bel Ami”, è stato un amico di Campana, tanto che quest’ultimo, in una lettera del 1915, lo raccomanda a Papini. Il poeta aveva persino recitato, nel Teatro Animosi, in ben due commedie di Bel Ami.
Ebbene, il 1° Aprile 1906 Anacleto Francini aveva pubblicato, sul Corriere della Romagna Toscana, una lunga poesia intitolata Marradi. Si tratta di un componimento di 48 versi, in strofe saffiche (3 endecasillabi e 1 quinario), di gusto carducciano (viene in mente Piemonte di Carducci).
Marradi
Ille terrarum mihi praeter omnes Angulus ridet…Hor. (Quell’angolo di terra pù di ogni altro mi sorride … Orazio)
Da l’onda, specchio nobile di gelsi,che si dissolve in cascatelle argute,
emergon, ricchi di vigneti, i colli
del mio paese.
Fumano ne la stanca opra dïurna,
pei maggesi odorati di ginestra
i bianchi bovi; un fioco scampanìo
giunge col vento.
E van le chiostre dei selvaggi montivia digradando in fosche lontananze,
e l’ardue schiene curvano a la furia
degli aquiloni
che esercitano i tuoi ruderi informi,
vecchio castello, su cui tanta il tempo
ala distese, pallido fantasma
di medio evo.
Ma tu ricordi quando alle Scalelle,
fiero insorgendo al mercenario insulto,
da le sudate glebe erse la fronte
il montanaro,
e a mezzo solco abbandonato il curvo aratro, in lancia trasmutò la marra,
e il castaneo flaüto silvestre
in oricalco.
Scagliò agli eccelsi vertici il solenne
vindice grido, e le vendute schiere
el Conte Lando attese al varco,
come tigre in agguato.
Allor si franse a l’improvviso assalto
l’ira de l’empie torme e la baldanza,
e giacque: un raggio livido di sole
come uno scherno
illuminò le fuggitive terga
fra’l tuon de’ tronchi e de’ macigni immani,
come valanghe, ne le valli fonde
precipitanti.
Or quei monti una mite aura di pace
recinge, e i campi ove biondeggia il giugno;
ne la gloria del sole aureo sorride
Cerere amica,
lieta pei boschi e l’ubertose valli,
tra l’ondeggiar de’ clivi e dei frumenti,
e i verdi paschi, e i placidi meandri
del mio Lamone;
e nei solcati colli ove la spica
cresce nudrita dal sudore umano,
palpita eterno il canto de la vita
e del lavoro. Il cuore della poesia (vv. 17-36) è dedicato alla celebre battaglia delle Scalelle, quando i contadini marradesi, il 25 luglio 1358, sconfissero il Conte Lando e le sue schiere di mercenari. Anacleto Francini si rivolge, in un bellissimo endecasillabo, direttamente al “Castellone”: «Ma tu ricordi quando alle Scalelle…» (v.17). Ed ecco, nel racconto della battaglia, lo stile s’innalza, sfiorando le vette dell’epica. C’è anche, incastonato nei versi, un accenno all’origine del nome “Marradi”, che probabilmente viene da “marra”, cioè una piccola zappa con ferro triangolare: «in lancia trasmutò la marra» (v. 22): il soggetto è il montanaro che trasforma la sua zappa in una lancia da scagliare in testa al Conte Lando. Inoltre, subito dopo, c’è un richiamo a un altro emblema di Marradi, il castagno: questa volta è il «castaneo flaüto silvestre», con cui i contadini marradesi si trastullavano bucolicamente, a essere tramutato in strumento bellico, l’«oricalco», cioè la tromba di guerra.
Ma torniamo a Marradi che ride. Vi sono diversi indizi che Campana conoscesse questo componimento. Senza entrare troppo nei tecnicismi, Marradi di Francini si apre con l’immagine dell’acqua - specchio, un’ immagine che è anche in Marradi (Antica volta. Specchio velato) di Campana. Francini chiama il Castellone: «Vecchio castello»; e così fa anche Campana quando scrive, nei suoi appunti del Quaderno, «Il vecchio castello che ride sereno sull’alto». In Francini c’è «ne la gloria del sole aureo sorride Cerere amica» (Cerere è la dea dei campi) e in Campana: «traspare il sorriso di Cerere bionda» (siamo nel diario de La Verna). Entrambe le «Cerere» dei due poeti sorridono. Per la verità, vi sono tanti altri dati che fanno sospettare che Campana, almeno quando scriveva di Marradi, avesse in mente proprio la poesia Marradi dell’amico Anacleto Francini; ma per ora fermiamoci qui.
Vorrei invece attirare l’attenzione su un altro dettaglio. Intanto vale la pena ricordare che «il vecchio castello» e la «cupola rossa» di Campana ridono anche perché hanno una porta (un arco, una volta) che nel poeta suggeriscono l’immagine di un volto sorridente. Ma c’è un dettaglio interessante, dicevo, nella poesia di Bel Ami. In epigrafe, sotto il titolo Marradi, si legge infatti una citazione del poeta latino Orazio: «Ille terrarum mihi praeter omnes / Angulus ridet…» (Odi, II, 6, vv. 13.14) che in italiano si può tradurre con “quell’angolo di terra mi sorride più di qualunque altro”. Anche qui c’è il riso. Orazio parlava delle colline vicino a Taranto; Anacleto Francini, Bel Ami, che cita Orazio, parlava, chiaramente, di Marradi. In realtà la locuzione di Orazio «Angulus ridet» era già al tempo di Francini quasi proverbiale per denotare un luogo appartato, naturale, lontano dal caos cittadino, che ride, cioè rende felici (per chi sa goderselo). Marradi era questo per Bel Ami. Sarà stato così anche per il suo amico Campana?