alle Fontanacce,un podere dell’alto
Appennino Marradese
di Giuseppe Gurioli e Giuseppe Meucci
Questo racconto è tratto dal libro "La nostra piccola valle
dell'Eden"
Capitolo 4 LA VITA IN CASA
L’abitazione
si trovava al primo piano del fabbricato. Si entrava dal lato a monte, passando
sotto un arco del lungo porticato che proteggeva quella parete e si arrivava in
una stanza non molto grande che serviva da ingresso. Da questa stanza si poteva
andare nella “capanna” del fieno che era accanto a destra, si poteva scendere
nella stalla delle vacche sottostante o anche nella caciaia, nella cantina o
nel pollaio che erano nel seminterrato sotto il porticato, mentre per andare
nella stalla delle pecore bisognava uscire fuori. Dall’ingresso si entrava,
naturalmente, anche nella grande cucina, la stanza più importante della casa, e
nelle diverse camere che erano tutte al primo piano; poi dalla cucina si saliva
nel sotto tetto.
In
mezzo alla cucina c'era un grosso pilastro fatto di pietre, sarà stato cinquanta
centimetri per cinquanta, che partiva dal sottostante piano della stalla delle
pecore per andare a sostenere due travi del grande tetto di lastre della casa.
Quando ballavano durante le veglie ci giravano intorno.
Nella
cucina c’era un grande camino; come in tutte le case dei contadini, nel camino
era sempre presente una grossa caldaia per cuocere fagioli, patate (chi non
ricorda la caldaia piena di patate per i maiali, coperta da un sacco di iuta…
bolliva, bolliva, fintanto che le patate non si cuocevano, e i ragazzi alzavano
il sacco e le mangiavano). Così cuocevano fagioli, ciderchie e altri
legumi per gli animali. Oppure la caldaia era piena di acqua da riscaldare per
fare pastoni di farina di orzo o avena per gli animali. Una caldaia più piccola
serviva per cuocere la polenta gialla o quella di castagne. Il paiolo era
sempre sul fuoco per fare formaggio, ricotta o raviggiolo.
Non
c’era stufa, ma dei fornelli di mattoni per mettere i tegami a cuocere sulla
brace. In un primo tempo era in cucina anche il forno a legna per cuocere il
pane – venivano delle forme di un chilo o un chilo e mezzo, in tutto quindici
chili alla volta che si conservavano nella cantina – qualche arrosto e la
ciambella; poi il forno fu rifatto fuori del fabbricato.
C’era
l’acquaio di pietra; non c’era acqua in casa né tanto meno nella stalla, però
era vicina: poco sotto casa c’erano il torrente e due fontane, una per bere e
l’altra per le bestie.
In
fondo alla parete del camino una scala di legno portava nella camera dove
dormivano i bambini piccoli con gli zii
non sposati (zioni o zittelloni). Un’altra scala, sempre di
legno, portava nel camerone (o soffitta) usato nel periodo estivo
per dare da dormire ai braccianti agricoli, che erano numerosi.
Il mangiare
Quando
sedevano a tavola, a capotavola c’era lo sdor, il più anziano, che aveva
la responsabilità di dirigere l’azienda, almeno per la parte dei contadini; in
casa però comandava la donna più anziana, la zdora. Ai genitori si dava
sempre del voi.
Ecco
cosa si mangiava:
Colazione:
polenta gialla con raviggiolo, o polenta dolce con ricotta, ma prevaleva la
prima perché il castagno a quelle altitudini non c’era e quindi la farina dolce
andava comprata.
Pranzo:
minestra in brodo di pollo con pasta di spoglia fatta in casa (la pasta
non si comprava); pasta e fagioli; pasta asciutta, sempre di spoglia,
condita con funghi, o rigaglie di pollo, o formaggio di pecora grattugiata;
burro non ce n’era. Pollo lesso, arrosto o in umido con contorno di
patate o fagioli. Qualche coniglio, qualche agnello o capretto di straforo;
nessuna forma di selvaggina, dato che non si cacciava soprattutto per mancanza
di tempo. Non c’era usanza di mangiare il pesce, a parte il baccalà e l’aringa.
Cena,
alle sei: polenta, patate stufate, frittate e poco altro. Non c’era grande
varietà di verdure: l’orto si faceva, ma poco. Prima di andare a letto: una
tazza di latte.
L’uso
del vino non era consueto, dato che anche questo andava comprato; capitava
quindi che le rare volte che il contadino scendeva in paese per il mercato o
per la fiera, quando passava dall’osteria si ubriacasse dopo pochi bicchieri
perché disabituato al vino. Il vino usava solo al tempo dei lavori estivi,
quando la famiglia mezzadrile teneva braccianti a opera, che erano in tutto a
suo carico. Lo stesso valeva per i salumi, che venivano dal maiale allevato nel
podere, e che andava risparmiato (ne toccava mezzo al contadino per le persone
della famiglia, più gli operai che venivano per i lavori del fieno e del grano,
anche 10-15 alla volta per molti giorni). La salsiccia si manteneva nell’olio
di oliva: la famiglia Fabbri se lo permetteva perché in Maremma avevano parenti
che li rifornivano di olio in cambio di formaggio o altro. Il salame si
conservava nella cenere.
I funghi (i porcini) venivano fritti in padella o seccati per i sughi. Si raccoglievano anche prugnoli per mangiare, non per vendere; non si vendeva quasi nulla, anche perché il paese era distante. Per frutta, alle Fontanacce c’erano: pere giugne, selvatiche, i frutti di un ciliegio domestico e di ciliegi selvatici. Si preparavano le percadè, pere selvatiche raccolte e scottate (cioè appena appassite) nel forno dopo tolto il pane e mangiate: venivano dolci come l’uva passa. Usava anche metterle in dei sacchetti e mangiarle nell’inverno. Questa operazione si faceva fino a che le pere selvatiche reggevano sull’albero; non erano buone da conservare da verdi perché marcivano.
Per
dolce si faceva la brazadela. Al posto del caffè si usava l’orzo, o
anche il grano, tostato e macinato: veniva fuori un biberone.
Altri aspetti della vita quotidiana
Nelle
campagne, gli uomini si facevano sia la barba che i capelli con la solita
macchinetta. Questo perché la lama del rasoio era particolarmente delicata e
arrotarla era difficile, quindi molti avevano baffi e barba lunga tagliati
anche con le forbici. I bambini venivano tosati a zero; alle bambine si
spuntavano i capelli in casa. Per lavarsi, le donne usavano la saponetta.
Per
la lavatura di lenzuoli, tovaglie e altra biancheria di casa il procedimento
era quello della conca con ranno (cenere), andato avanti anche fin dopo
gli anni cinquanta. Indumenti intimi, camicie o altro venivano lavati a parte.
Molti tessuti, come quelli di lenzuoli e asciugamani, erano di canapa e a
Marradi nei pressi di S. Adriano c’era la gualtiera (o valchiera)
che serviva per trattare la canapa. Non c’era gabinetto. Per i bisogni più
semplici si ricorreva all’orinale, soprattutto da parte degli anziani: alla
mattina veniva vuotato dalla finestra. I bisogni più grossi venivano
soddisfatti fuori casa se il tempo lo permetteva, sennò nella stalla. C’era
anche chi dormiva nella stalla: il bovaro, un uomo non sposato (uno zitellone)
Le cure per i malanni consistevano in decotti di camomilla o malva; applicazioni di mattoni caldi o impacchi di crusca; caligine (fuliggine) da respirare. “Mela cotta, merda fatta” insegnava un detto, scurrile ma facile da ricordare in caso di difficoltà. Quando una parente partoriva i contadini la andavano a trovare portando in regalo una gallina vecchia, pelata. “Fa buon brodo”, si diceva, e il brodo era ritenuto salutare per la partoriente. Il regalo si contraccambiava alla prima occasione.
La
sera si diceva il rosario. La casa veniva illuminata con lampade a petrolio o a
carburo, candele, lanterne a spirito o benzina. Anche per lavorare nella
stalla, per governare le bestie o quando partoriva una vacca, si adoperava la
lanterna a petrolio o le candele. A volte era possibile procurarsi per bruciare
qualche tronco intero, che veniva portato a casa a strascico dai buoi; poi
messo intero nel camino, senza segare (la fatica l’abbiamo fatta…). Lo
facevano scorrere via via che bruciava e i bambini la sera ci stavano a cavallo
sopra.
I bambini
I
bambini più piccoli dormivano con gli zioni in una camera dove si
arrivava salendo una piccola scala di legno che partiva dalla cucina. Questa
stanza aveva una finestra che guardava verso Pian Baruzzoli, senza telaio né
vetri: in inverno, per ripararsi dal freddo, questa apertura veniva chiusa con delle
tavole e imboiacata con la cacca fresca delle vacche, con aggiunta di
acqua. La boiaca si seccava e faceva funzione di isolamento, però la
stanza rimaneva al buio e all’alba la sveglia era il canto del gallo. La
finestra si riapriva in primavera.
Ai
bambini la Befana portava caramelle, marroni cotti, carbone, mandarini,
noccioline, noci. I giochi erano: un cariolo per i maschi, una bambola
per le bimbe; ma di tempo per giocare ce n’era poco. I bambini nelle campagne
non andavano all’asilo, né tanto meno a scuola. Non avevano, i più, la balia,
il pediatra, il medico. Se campavano, bene; altrimenti nel cimitero c’era il
posto per gli angelini. Nel podere, dopo smoccolati servivano ed
avevano ognuno una funzione: c’era un vero e proprio sfruttamento minorile. Che
fino al secondo dopoguerra nelle campagne fossero tutti più o meno analfabeti,
questo si sapeva: il contadino i figli a scuola non li poteva mandare, anche
perché il proprietario pretendeva il suo reddito. Poveri, analfabeti e in
debito coi padroni: questa era la condizione normale dei contadini.
La valle del fosso
del Lavane
L’inverno
Lavori che si facevano durante l’inverno: il governo degli animali, la stalla, la sistemazione del letame (il letame ben ammucchiato e stagionato veniva tagliato a fette con la tagliola). Quando nevicava, c’era da fare la rotta (cioè aprire un passaggio nella neve) per l’abbeveratoio che alle Fontanacce era vicino a casa, ma anche per i pagliai del fieno e della paglia. Questi venivano tagliati con la tagliola e messi nelle ghébe, delle ceste grandi di vimini, fatte artigianalmente da qualche vicino, e portate sulla schiena nella stalla. La foglia veniva data alle bestie così come la paglia, per alimento. La paglia aveva poca sostanza, ma l’inverno era lungo particolarmente in montagna e le scorte erano poche, e questi materiali servivano per la masticazione e per riempire lo stomaco del bestiame.
Bisognava
anche pensare alla legna da ardere: quando nevicava i contadini approfittavano
per fare un po’ di scorta di legna verde. Nelle case fredde di campagna usava
riscaldare il letto col prete e lo scaldino. Sul comodino si teneva una
candela con fiammifero pronto per l’uso; nello sportello sottostante, l’orinale
che la mattina si vuotava dalla finestra. I vecchi si mettevano in testa una
papalina di lana e calzettoni ai piedi. I vetri delle finestre erano
ghiacciati.
Nel
1933, il 21 febbraio, partorì la mamma di Fabbri. Nevicava forte, non c’era
tempo da perdere. A Pian Baruzzoli c’era una donna anziana che si difendeva
a far da balia; bisognava andarla a prendere, altrimenti si doveva andare a
San Benedetto o a Marradi, molto più lontano. Portarono la balia sotto braccio
perché non era in grado di camminare dalla neve che c’era: la traccia che
avevano fatto per andare, al ritorno era tutta coperta. Nacque una bella
femmina, di nome Eva.
Aggiungiamo
questa nota al testo:
A Marradi nevicava
spesso, soprattutto sui monti. Parlando della neve, si chiedeva: “Quanta niv
sel fat?” Allora, secondo la quantità, la risposta poteva essere:
La fa la traza (fa la
traccia), ognè meza scherpa (ce n’è mezza scarpa), l’ariva a e znoc
(arriva al ginocchio), l’è ona forcatura (arriva al cavallo dei
pantaloni), l’ariva a la zintura (arriva alla cintura), l’è elta com
un om (è alta come un uomo).
Il monte Pollaio
Mentre “la nev l’è
srena” (la neve è serena), quando brilla ed è ghiacciata in modo uniforme,
con sfumature celestine.
Anche quando non nevica,
in inverno si assiste a fenomeni comuni come la galaverna e lo svidrio:
La galaverna è ghiaccio
che si deposita in forma di aghetti leggeri, sugli oggetti come i rami degli
alberi quando l’aria è molto umida, la temperatura scende sotto zero e c’è
vento. La galaverna è preceduta da dense nebbie e si deposita nelle parti degli
oggetti sottovento, formando splendidi “fiori” bianchi sugli alberi spogli.
Svidrio è chiamato
invece il ghiaccio che si forma quando la temperatura si abbassa sotto zero
dopo la pioggia. Allora l’acqua gela a terra o sugli alberi, formando ghiaccio
compatto.
Parlando di maltempo in
generale, c’era il detto “Nebbia ti mont a spentacc, acqua a sagat”
(Nebbia allargata sui monti, pioggia in quantità. Detto di Teresina Vinci,
Podere Colombaia).