Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

venerdì 31 luglio 2020

Gli articoli di Raffaele Bendandi


Una ricca serie 
di corrispondenze 
sulla rubrica di scienze 
del periodico Idea Popolare
Ricerca di Claudio Mercatali





Raffaele Bendandi, scienziato faentino autodidatta, astronomo, geofisico, meteorologo e altro, dal 1920 al 1923 curò la rubrica scientifica di Idea Popolare, organo del Partito Popolare faentino, che in pratica era il periodico Il Piccolo cambiato di nome. Era un foglio letto da molti qui a Marradi, perché dava ampio spazio alla cronaca del paese e il PPI era maggioritario in questo comune.
Dunque i nostri bisnonni lessero questi articoli, semplici e molto chiari anche per chi non aveva studiato le Scienze della Terra a scuola.


15 febbraio

Il pianeta Marte ha sempre suscitato curiosità nella gente e molti lo ritenevano abitabile o abitato da degli strani omini verdognoli detti "marziani" ...







4 aprile
Il terremoto del 1781 colpì l'appennino romagnolo e fu avvertito anche a Marradi.






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Con linguaggio veramente appropriato Bendandi ci dice che l'origine dei nostri terremoti è dovuta al sollevamento dell' appennino e non ha nessuna causa vulcanica. Il cosiddetto "Vulcano" del Monte Busca non è che una fuoriuscita di metano che nulla ha a che vedere con il vulcanesimo. 

Dunque questa fiammella che arde anche oggi vicino ad una vecchia casa poderale è così da almeno cento anni. 

2 maggio

Questo articolo comincia accennando ad un episodio antico: si dice che Cristoforo Colombo, trovandosi in una situazione critica in America, si sia tolto di impaccio fingendosi un mago in grado di prevedere le eclissi. Gli indigeni che lo minacciavano fuggirono quando si oscurò la Luna.


22 agosto
Le macchie solari sono zone meno luminose della superficie del nostro astro, che variano con un periodo di 11 anni. Furono scoperte da Galilei, che per questo fu considerato un visionario e condannato dal Tribunale dell' Inquisizione agli arresti domiciliari ad Arcetri.


14 novembre
Le "stelle cadenti" sono meteoriti, che si rendono visibili quando entrano nell'tmosfera della Terra, si incendiano e il genere polverizzano prima di giungere al suolo.





Ci sono diversi sciami di stelle cadenti, durante tutto l'anno  le più famose sono quelle della 
notte di S.Lorenzo (10 agosto).



sabato 25 luglio 2020

Il Galateo

Qualche regola di bon ton secondo Giovanni della Casa

ricerca di Claudio Mercatali

 


Villa La Casa, a Mucciano (Panicaglia) 

dove nacque il monsignore 


 


Certe parole entrano nel linguaggio comune con una forza incredibile e tutti le usano. La parola “galateo” è una di queste. Le famose “regole del galateo” sono entrate nell’ immaginario collettivo come le leggi della buona creanza, anche se pochi di noi hanno letto l’opera
Galateo ovvero de’ costumi di Giovanni della Casa, dove sono descritte. Però questo non è importante, perché ormai la parola galateo è un nome astratto per dire “di buona maniera”. 


Monsignor Giovanni della Casa


Giovanni della Casa quasi certamente nacque a Ronta, anche se Firenze ne rivendica i natali. Alto prelato e monsignore fu come si dice uomo di curia e d’apparato, impegnato nell’ Inquisizione e nei complicati intrecci politici del Papato nel Cinquecento.


Insomma era il contrario del bonario pievano mugellano. Per carattere era molto più deciso e di sostanza di quanto le sue leziose descrizioni lascerebbero intendere. Andiamo a curiosare nei suoi scritti per capire quali erano secondo lui i criteri della buona creanza. La sua opera si compone di trenta capitoli, qui di seguito c’è la sintesi di quattro.
Leggiamo:

 

Cap. III  Cose laide da non fare o nominare   


Percioché non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice … 

E’ perciò sconcio costume quello di alcuni che in palese si pongono le mani in qual parte del corpo vien lor voglia. Similmente non si conviene a gentiluomo costumato apparecchiarsi alle necessità naturali nel conspetto degli uomini; né, quelle finite, rivestirsi nella loro presenza; né pure, si laverà egli per mio consiglio le mani dinanzi ad onesta brigata. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare con grandissima instanzia, pure accostandocela al naso e dicendo: – Deh, sentite di grazia come questo pute! –; anzi doverebbon dire: – Non lo fiutate, percioché pute –. E così il dirugginare i denti, il sufolare, lo stridere e lo stropicciar pietre aspre et il fregar ferro spiace agli orecchi, e deesene l’uomo astenere più che può. E non sol questo; ma deesi l’uomo guardare di cantare, specialmente solo, se egli ha la voce discordata e difforme.


Sono ancora di quelli che, tossendo e starnutendo, fanno sì fatto lo strepito che assordano altrui; e di quelli che, in simili atti, poco discretamente usandoli, spruzzano nel viso a’ circostanti …

 

Il continuo sbadigliare secondo il Monsignore è sintomo di scarsa educazione, e anche per noi oggi è così: “Dee l’uomo costumato astenersi dal molto sbadigliare, percioché pare che colui che spesso sbadiglia amerebbe di esser più tosto in altra parte che quivi, e che la brigata, ove egli è, et i ragionamenti et i modi loro gli rincrescano. Quando altri sbadiglia colà dove siano persone ociose e sanza pensiero, tutti gli altri, come tu puoi aver veduto far molte volte, risbadigliano incontinente, quasi colui abbia loro ridotto a memoria quello che eglino arebbono prima fatto, se essi se ne fossino ricordati. Et ho io sentito molte volte dire a’ savi litterati che tanto viene a dire in latino sbadigliante quanto neghittoso e trascurato…”

Il soffiarsi il naso, l’odorare o l’assaggiare sono mo­menti delicati: “Non si vuole anco, soffiato che tu ti sarai il naso, aprire il moccichino e guardarvi entro, come se perle o rubini ti dovessero esser discesi dal cièlabro, … Sconvenevol costume è anco, quando alcuno mette il naso in sul bicchier del vino che altri ha a bere, o su la vivanda che altri dee mangiare, per cagion dal naso possono cader di quelle cose che l’uomo ave a schifo. Né per mio consiglio porgerai tu a bere altrui quel bicchier di vino al quale tu arai posto bocca et assaggiatolo, salvo se egli non fosse teco più che domestico; e molto meno si dee porgere pera o altro frutto nel quale tu arai dato di morso.”.

Perché il libro del Monsignore si chiama Galateo? Ecco la spiegazione.  

Cap. IV Aneddoto di Messer Galateo e del Conte Ricciardo (riassunto) 

Sappi che in Verona ebbe già un Ve­scovo il cui nome fu messer Giovanni Matteo Giberti … Avenne che, passando in quel tempo di là un nobile uomo, nomato Conte Ricciardo, egli si dimorò più giorni col Vescovo e con la famiglia di lui ... E percioché gentilissimo cavaliere parea loro e di bellissime maniere, molto lo apprezzarono; se non che un picciolo difetto avea ne’ suoi modi; e il Vescovo propose che fosse da farne aveduto il Conte. Al commiato il Vescovo, chiamato un suo famigliare, gli im­pose che, montato a cavallo col Conte, per accompagnarlo … per dolce modo gli venisse di­cendo quello che essi aveano proposto tra loro. Era il detto famigliare Messer Galateo. Costui, cavalcando col Conte … con lieto viso gli venne dolcemente così dicendo: – Signor mio, voi siete il più leggiadro et il più costumato gentiluomo che mai paresse al Vescovo di vedere; solamente un atto difforme voi fate con le labbra e la bocca, masticando con uno strepito molto spiacevole ad udire. Questo vi manda significando il Vescovo … Il Conte, che del suo difetto non si era mai aveduto, udendoselo rimproverare, arrossò così un poco … e disse: – Direte al Vescovo che, se tali fossero tutti i doni che gli uomini si fanno infra di loro, quale il suo è, eglino troppo più ricchi sarebbono che essi non sono. E di tanta sua cortesia e liberalità verso di me ringraziatelo sanza fine, assicurandolo che io del mio difetto sanza dubbio dili­gentemente mi guarderò; et andatevi con Dio.

Come ci si deve comportare a tavola? Sentiamo:

 Cap. V A tavola: modi dei commensali e dei servitori 



Annibale Carracci, il mangiatore di fagioli

… Dee adunque l’uomo costumato guardarsi di non ugnersi le dita sì che la tovagliuola ne rimanga imbrattata, percioché ella è stomachevole a vedere; et anco il fregarle al pane che egli dee mangiare, non pare polito costume. I nobili servidori, i quali si essercitano nel servigio della tavola, non si deono per alcuna condizione grattare il capo né altrove dinanzi al loro signore quando e’ mangia, né porsi le mani in alcuna di quelle parti del corpo che si cuoprono, né pure farne sembiante, sì come alcuni trascurati famigliari fanno, tenendosele in seno, o di dirieto nascoste sotto a’ panni; ma le deono tenere in palese e fuori d’ogni sospetto, et averle con ogni diligenza lavate e nette, sanza avervi sù pure un segnuzzo di bruttura in alcuna parte. E quelli che arrecano i piattelli o porgono la coppa, diligentemente si astenghino da sputare, da tossire e, più, da starnutire …


Annibale Carracci, il bevitore

E se talora averai posto a scaldare pera d’intorno al focolare, o arrostito pane in su la brage, tu non vi dèi soffiare entro, percioché si dice che mai vento non fu sanza acqua. Non offerirai il tuo moccichino comeché sia di bucato a persona: percioché quegli a cui tu lo proferi no ‘l sa, e potrebbelsi avere a schifo. Quando si favella con alcuno, non gli si dee l’uomo avicinare sì che se gli aliti nel viso, percioché molti troverai che non amano di sentire il fiato altrui, quantunque cattivo odore non ne venisse.


E con gli altri come ci si deve comportare? 

Cap.VI Comportamenti da tenere in compagnia 

Tu dèi sapere che gli uomini naturalmente appetiscono più cose e varie, e alcuni vogliono sodisfare all’ira, alla gola, altri alla libidine et altri alla avarizia et altro ma, comunicando infra di loro, non chiedono alcuna delle sopradette cose, come se elle non consistano nel favellar delle persone, ma in altro. Appetiscono quello che può conceder loro il comunicare insieme; e ciò pare che sia benevolenza, onore e sollazzo. E non si dee dire né fare cosa per la quale altri dia segno di poco amare o di poco apprezzar.

Addormentarsi quando si è in compagnia è segno di scarso apprezzamento: “… Poco gentil costume pare che sia quello che molti sogliono usare, di volentieri dormirsi colà dove onesta brigata si segga e ragioni, percioché, così facendo, dimostrano che poco gli apprezzino e poco lor caglia de’ loro ragionamenti …

Farsi i fatti propri è segno di noia: “… E per questa cagione il drizzarsi ove gli altri seggano e passeggiar per la camera pare noiosa usanza. Sono ancora di quelli che si dimenano e sbadigliano, rivolgendosi ora in su l’un lato et ora in su l’altro, e pare segno evidente che la brigata con cui sono rincresce loro. Male fa similmente chi, tratte fuori le forbicine, si dà a tagliarsi le unghie, quasi che egli abbia quella brigata per nulla e si procacci altro sollazzo per trapassare il tempo. Non si deono anco tener quei modi che alcuni usano: cioè cantarsi fra’ denti o sonare il tamburino con le dita o dimenar le gambe; percioché questi così fatti modi mostrano che la persona sia non curante d’altrui”.

Non sta bene voltarsi di spalle o far vede la biancheria: “… Oltre acciò, non si vuol che l’uomi mostri le spalle altrui, né tenere alto l’una gamba sì che quelle parti che i vestimenti ricuoprono si possano vedere: percioché cotali atti non si soglion fare, se non tra quelle persone che l’uom non riverisce”.

Appoggiarsi alla spalla e “dare di gomito” a chi ascolta non è educato: “… Dee l’uomo recarsi sopra di sé e non appoggiarsi né aggravarsi addosso altrui; e, quando favella, non dee punzecchiare altrui col gomito, come molti soglion fare ad ogni parola, dicendo: – Non dissi io vero? –  Eh, voi? – Eh, messer tale? – e tuttavia vi frugano col gomito”.

sabato 18 luglio 2020

Filippo Pananti

Un arguto poeta di Ronta, famoso
per gli epigrammi
ricerca di Claudio Mercatali


Filippo Pananti nacque a Ronta del Mugello nel 1776 e vi morì nel 1837. Poeta e personaggio sui generis, ebbe una vita avventurosa e interessante.Lasciamo che sia lui stesso a raccontarcela:

“...E' un mezzo secolo e vari anni di più che sono nato in Ronta, piccola ma graziosa terra del Mugello, bella provincia della Toscana. La mia famiglia era civile ed assai comoda, ma in seguito ha sofferto disastri e perdite considerevoli. Ebbi la prima educazione nel collegio di Pistoia, fui poscia all'Università di Pisa ed ebbi la laurea; ma, simile in questo solo a tanti altri celebri amanti delle Muse, ebbi avversione all'esercizio dell'arte legale. Passai in Francia e fui due anni professore nelle scuole celebri di Sorèze.
Passai colà giorni felicissimi, ma d'un animo inquieto mantenendomi sempre, viaggiai in Spagna, corsi tutta la Francia, i Paesi Bassi, l'Olanda, e venni in Inghilterra, ove la guerra riaccesa mi chiuse.



Dimorai dieci anni nella Gran Bretagna e vi fui professore di lingua italiana, poeta a quel teatro italiano, e giornalista, facendo guadagni molto considerabili. Sembrandomi d'essere sufficientemente provvisto, pensai di riposarmi dalle fatiche letterarie, m'imbarcai per la Sicilia con l'idea di fare un viaggio nella Grecia e nel Levante, e poi riposarmi; ma per via caddi in potere dei pirati algerini, che mi tolsero la più gran parte de' miei beni che io aveva affidata al mare in una speculazione mercantile. Perdei anco la libertà, ma questa la riebbi subito per la potente prestazione del console d'Inghilterra...”

Questo dei pirati algerini da molti è considerato un episodio esagerato. Il fatto è che con Pananti non si riesce sempre a capire dove finisce la verità e comincia il novellare. Lo studioso Giuseppe Giusti ce lo descrive così:

“… era lepidissimo raccontatore da tenere a bada la brigata tutta una sera. Parlava pronto e brioso come scriveva: era semplice negli abiti, e anco un po’ al di là … Per le vie, per le conversazioni stava a balzello di modi e di detti arguti: e beccatone uno che gli paresse il caso, via a farne un raccontino o un epigramma”.

L’epigramma a detta degli esperti è: “la ristretta essenza della satira” perché breve e di concetto arguto. I poeti latini erano specialisti in questo e ci sono giunti gli epigrammi di tono aspro di Giovenale e Marziale, quelli un po’ comici di Catullo e Orazio e altri ancora un po’ sentenziosi.

Villa Pananti è un grande edificio lungo la Faentina vecchia, subito dopo Ronta, nella viuzza che si prende a ripiego quando è chiuso il passaggio a livello di Panicaglia.


Negli Epigrammi di Filippo Pananti troviamo tutti e tre i tipi:


 Pananti era sempre arguto e pungente. Qualche esempio?  Leggiamo:


Pananti scrisse anche due poemetti in sesta rima, che si intitolano La Caccia alla civetta e La Tesa del paretaio. Anche qui la poesia acuta e un po’ pungente non manca. Leggiamo La Civetta e facciamo un po’ di metrica:




Oltre che poeta Filippo era anche un appassionato di cavalli da corsa. Nell'estate del 1790 vinse la corsa dei cavalli sciolti, che si teneva qui a Marradi in occasione della Festa della Madonna del Popolo, e si meritò una citazione nella Gazzetta Toscana, che è qui sopra.



domenica 12 luglio 2020

Il sentiero di Garibaldi Seconda parte

Da Gamberaldi a Gruffieto
sulla via percorsa da Garibaldi
nel 1849
resoconto di Claudio Mercatali



Giuseppe Garibaldi lasciò un ricordo leggendario nella gente. Durante le sue imprese era spesso in fuga, tallonato da gendarmerie di vario tipo. Non fu mai catturato, perché trovava sempre appoggio e aiuto. Questa che segue è la cronaca di un trekking lungo il cosiddetto "sentiero di Garibaldi" percorso dall'Eroe nel 1949, alla fine della Prima Guerra di Indipendenza, inseguito dagli Austriaci. Siamo a Gamberaldi, fra Marradi e Palazzuolo sul Senio, diretti a Gruffieto e poi, volendo, alla Badia di Susinana. 


Alfredo Oriani

La tappa di oggi è il seguito di quella da Popolano a Gamberaldi, già descritta in questo blog alla data 6 luglio 2020. Al 1 luglio c'è anche la biografia di don Giovanni Verità, protagonista del racconto che state per leggere.
In Toscana e in Romagna ci sono decine di case con la lapide a ricordo di una sosta di Garibaldi. Le storie sono tante ed è difficile anche contarle. Leggiamo l'aneddoto descritto da Alfredo Oriani nel libro "Fino a Dogali". I personaggi sono: don Giovanni Verità, il prete patriota scomunicato, di Modigliana, che fa da guida, un mulattiere e due Garibaldi. Due? eh si! proprio due ...

Dal Libro Fino a Dogali

... Partirono in una notte cupa; sempre pei monti giunsero sopra la Badia di Susinana, antico feudo del celebre Maghinardo. Erano sfiniti. Don Giovanni vi conosceva un mulattiere, che abitava presso il mulino, e pensò di svegliarlo per chiedergli i muli. Nascose i due compagni in una fratta e avanzandosi sotto la casa lanciò un sasso alla finestra del mulattiere. I monti neri nella notte, appena divisi dal fiume, parevano più sinistri in quella gola; l'acqua mormorava sotto il ponte con lamento continuo. La finestra si aperse.
- Chi va là?  - Sono io, Don Giovanni di Modigliana.  - Oh! che c'è? - Scendi.
- Che c'è? Vengo subito: come mai lei qui? vengo, ecco!
E si sentiva il mulattiere meravigliato di quella visita parlare ad alta voce nella camera vestendosi. Poco dopo aperse l'uscio di casa; teneva una lanterna in mano. Don Giovanni vi soffiò sopra. - Che c'è?  - Sono io, zitto! Hai i muli a casa, Pio Nono?
Era questo il soprannome del mulattiere, e ricordandoselo Don Giovanni sorrise.




L'antico ponte dal molino alla Badia di Susinana

- Ne ho uno solo. - Basterà: mettigli il basto, debbo andare a Palazzuolo. Ho meco due signori, sono stanchi. Che cosa vuoi?! non conoscono la montagna.

- Già, signori di città... ci vuole altro per i nostri monti. Lei, viene da Modigliana? - Sì.
- Entri, sarà stanco, mi faccia l'onore... Ecco, veda; ho ancora in casa due fiaschi. Ma perché mi ha spento il lume? scoppiò improvvisamente a dire.
- Via via, fa presto; non entro. Ho lasciato quei signori, vado a trovarli. Metti il basto al mulo e sali sulla strada: noi vi saremo.
Lo lasciò. Dopo cinque minuti Pio Nono apparve sulla strada tenendo il mulo per la briglia: la bestia s'arrampicava con passo violento, si sentivano i suoi ferri battere contro i ciottoli.
- Ohè, piano! urlava Pio Nono,trattenendola per la catena.
La bestia era impetuosa, nera e piccola. Pio Nono ansava.
- Ecco! esclamò scorgendo il gruppo dei signori. È un mulo troppo vivo, e lo frenava con visibile sforzo, mentre colla voce sembrava incoraggiarlo, superbo di quella sua vivacità.
I tre parlamentarono; il capitano Leggero dovette inforcare il mulo. - Io vado innanzi, disse Don Giovanni a Pio Nono traendolo in disparte mentre teneva sempre la catena del capezzone nella mano, e il mulo impaziente scalpitava sbuffando: lasciami cento o centocinquanta passi di scampo; se incontro una pattuglia... - Ah! - esclamò soffocatamente Pio Nono. - Hai capito! Io torno addietro, tu caccia il mulo nel bosco, nel campo, nascondilo o, se non è possibile, ripara i due. Io fischierò, in una stretta faccio fuoco.


Don Giovanni Verità


- Oh!  - Non hai paura tu? Pio Nono non rispose. - Siamo intesi? - Ma chi sono? - Umh!
E Don Giovanni si mise l'indice sulla bocca; si trasse il fucile dalla spalla, l'armò.
- Vado innanzi, siamo intesi. Don Giovanni si perdette alla prima svolta del sentiero. Pio Nono era rimasto pensieroso. Amico di Don Giovanni e conoscendone le azioni, pensò tosto che quei due signori fossero due banditi, come si diceva nel linguaggio del popolo, ma importanti. V'era dunque un pericolo serio ad accompagnarli.

Ma Pio Nono era naturalmente coraggioso. I due tacevano; quello a piedi camminava alla testa del mulo. Pio Nono colla catena del capezzone nelle due mani stava indietro il più possibile e si faceva quasi trascinare per moderare l'andatura della bestia. Pensava fra sè inquieto:
- Piano, Garibaldi! gridò improvvisamente. I due si voltarono. - Garibaldi! ripetè Pio Nono dando uno strappone al mulo. Garibaldi gli si avvicinò.
- Che cosa c'è? Mi avete chiamato? - Chiamato? Che! È il mulo che non vuole andar piano. Don Giovanni mi ha pure detto di andare adagio. È il mulo, sa, ha quattr'anni, è troppo ardente. L'ho comprato due anni fa a Scaricalasino (... è il vecchio nome di Monghidoro). Era grande come un porco, ma bello veh! Me lo sono fatto io. Gli ho messo sul groppone sino a due balle da quattrocento libbre l'una; pare una bugia a dirlo. E sa come me lo hanno battezzato? Indovini? ma già, ha sentito come lo chiamo; gli dicono Garibaldi.



Il capitano Leggero (al secolo Giovan Battista Culiolo)


- Ah! Garibaldi sorrise voltandosi al capitano Leggero.
- Da quanto tempo, questi domandò, chiamate così il vostro mulo?
- Oh! non è molto, da quando è incominciata la rivoluzione. Garibaldi è il migliore soldato, e il mio mulo è il miglior di tutti: non è vero tu, Garibaldi?
Si voltò alla bestia, scuotendo la catena. Il mulo s'impennò quasi. - Piano, piano: vuoi proprio fare il Garibaldi? E dopo una pausa: Anche lui chi sa dov'è, poveraccio!



Modigliana, il monumento a don Verità


L'accento di quest'ultima frase era così buono che Garibaldi commosso gli tese la mano.
- Che cosa vuole? rispose Pio Nono imbarazzato da quel gesto.
- Garibaldi sono io: vi stringo la mano, non posso ringraziarvi altrimenti.
E la voce e l'attitudine del Generale furono così epicamente semplici, che l'altro comprese di botto: e abbacinato, più incerto ancora dopo aver compreso, tremante di un sentimento inesplicabile allora e che neppure in seguito è mai riuscito a spiegarsi, lasciò sfuggirsi la catena.
- Eh via! Pio Nono, seguitò allegramente il Generale: non c'è da ridere piuttosto? In quel momento riapparve Don Giovanni. - Niente? gli domandò il capitano Leggero.
- Che c'è? - Don Giovanni! esclamò ancora attonito il mulattiere: è lui Garibaldi, non il mio mulo. Don Giovanni comprese che Garibaldi si era nuovamente scoperto e voltandoglisi bruscamente: - Ma Generale... - Oh! questo Pio Nono non è come quell'altro, non tradirà.

Vent'anni dopo Pio Nono mi raccontava in una bettola di Palazzuolo il grande aneddoto della sua vita. - E il mulo? gli chiesi. - Di quelli non ne ho avuti più. - Come Garibaldi.
- Con tutto il rispetto di lei e di lui, già!
Ora Pio Nono dev'essere molto vecchio, ma siccome fa ancora il carbonaio e la fuliggine dei sacchi gli tinge barba e capelli, è impossibile indovinare quanti anni abbia ...
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E ora andiamo. La zona fra Marradi a Palazzuolo si presta al trekking, però la via esatta percorsa dall' Eroe dei due Mondi non si sa. Come mai? A pensarci bene non è poi tanto strano che uno in fuga per mezza Italia non prenda nota di tutti i monti che attraversa. All' andata seguiremo il sentiero segnato dai ragazzi dell'AGESCI (Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani). Al ritorno passeremo dal monte sopra a Gruffieto lungo la via che porta a Gamberaldi.


L'andata
Alla villa di Gamberaldi si prende a destra, verso i poderi Perdolina e Cà Nova. La nostra via parte proprio da questa casa, attraverso una scaletta nell'aia, che porta ad un cancello.

Gamberaldi, dalla Perdolina







Il sentiero sale serpeggiando nel bosco, sempre nascosto, come è logico visto che Garibaldi era un uomo in fuga. I segnali sono fitti e si vedono bene anche in mezzo alla vegetazione.
Dobbiamo seguire quelli giallo - blu dell' AGESCI e ignorare quelli bianco - rossi del CAI.


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Dopo aver sudato un po' si arriva al crinale e la visuale si apre. Si vede la pala eolica di Spianamonte, che è lungo il sentiero di Garibaldi che va da Popolano a Gamberaldi. 

Ne abbiamo già parlato su questo blog, nell'articolo "Il sentiero di Garibaldi, prima parte" che è in archivio. Poco distante c'era il confine fra il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio e quindi per Garibaldi cominciava il pericolo.

Oggi più semplicemente si passa dalla Toscana all' Emilia Romagna, in fondo alla sperduta valletta del torrente Sintria. Il posto è selvaggio e non c'è nessuna casa, perché è siccitoso e il torrente dalla tarda primavera all'inizio dell' autunno è quasi sempre in secca. La mancanza d'acqua scoraggia anche la selvaggina e infatti non si sente nessun rumore. Sembra quasi che non ci siano animali e forse è proprio così. Si sente solo lo scricchiolare dei rami dei pini, oggi che tira un vento teso, e questo tutto sommato mette una certa inquietudine anche a me, che di solito giro i monti da solo.

Il sentiero scende al Sintria e risale sul versante opposto, che è a solame e meno cupo. Sono le sei di mattina e il sole illumina il crinale sopra ai ruderi del podere Casetta. Al crinale fra Sintria e Senio un vistoso segnale indica la via. Siamo sempre sul confine Toscana - Emilia Romagna, cioè proprio ai limiti dello Stato Pontificio. 
I fuggitivi mantennero questa direzione per qualche chilometro, per poter sconfinare in uno stato o nell' altro a seconda delle necessità.

I ruderi del podere Casetta





Al crinale un vistoso segnale indica la via.


L'agitato don Giovanni Verità aveva pensato proprio a tutto e Garibaldi lo ringraziò nel canto XII del Poema autobiografico  "… un dolce ricordo a Modigliana, ove gentile di Cristo un sacerdote all’ospitale sua magion mi raccolse, ed instancabil guida seguimmi tra i dirupi e l’erte dell’appennino …".

E finalmente compare Gruffieto, là in basso. La bella villa è a poca distanza da qui, ma Garibaldi andava di fretta e non si fermò. E' un complesso di edifici del Settecento, che dalla fine dell' Ottocento alla metà del Novecento fu proprietà della famiglia Tolone - Andreani di Marradi, e dimora preferita del senatore Gaspare Finali, il patriota garibaldino che trascorse gli ultimi anni della sua vita qui da noi e al quale abbiamo intitolato una via.





Il sentiero prosegue passando più alto rispetto alla villa ma volendo da Gruffieto c'è anche una strada che passa da Valpedro e poi da Campo al Buio fino all'incrocio con la strada asfaltata che sale dalla Badia di Susinana.


Garibaldi proseguì per Palazzuolo scendendo da Salecchio o scese alla Badia di Susinana? Secondo il racconto di Alfredo Oriani sembra vera la seconda ipotesi.








Il ritorno

Per il ritorno dal nostro trekking si può passare dalla strada vicinale Gruffieto - Gamberaldi, che a metà dell' Ottocento era l'asse viario principale per queste lande. Naturalmente Garibaldi e don Giovanni Verità non la potevano seguire, perché passa da un podere all' altro e tutti si sarebbero accorti del transito dei fuggitivi. Però il sito è panoramico e merita. Dopo un'ora di piacevole cammino, quasi tutto in discesa, si arriva di nuovo alla villa di Gamberaldi .





lunedì 6 luglio 2020

Il sentiero di Garibaldi Prima parte

Da Popolano a Gamberaldi
lungo il sentiero
di Garibaldi in fuga
resoconto di Claudio Mercatali


Don Giovanni Verità 
porta Garibaldi a spalla


La Repubblica Romana del 1849 fu uno Stato sorto a seguito di una rivolta popolare che provocò la fuga del papa Pio IX a Gaeta il 24 novembre 1848. L’atto costitutivo del nuovo stato all’Articolo 1 recitava: “Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano”.




Però il papa reagì da Gaeta con la scomunica dei nuovi governanti Armellini, Mazzini e Saffi e dei patrioti come Goffredo Mameli e Giuseppe Garibaldi che erano accorsi a difesa. Ma soprattutto il papa chiamò i Francesi che intervennero con un corpo di spedizione e assediarono Roma. Il confronto fu impari e nonostante l’accanita resistenza la Repubblica cadde il 4 luglio 1849. Giuseppe Garibaldi fuggì e di nascosto con pochi dei suoi si diresse in Romagna, con l’intenzione di andare in soccorso di Venezia, che si era ribellata agli Austriaci. Però a Ravenna i Garibaldini furono intercettati e dispersi. Sono le giornate tristi della Pineta di Ravenna, dove muore Anita e dove comincia l’ennesima fuga, questa volta verso il Granducato di Toscana, che era più tollerante nei confronti dei patrioti.


Ecco, questo è il contesto storico minimo per capire il percorso che faremo attraverso i nostri monti. Garibaldi entrò nel Granducato dal Passo del Trebbio, sopra a Modigliana, dove lo aspettava don Giovanni Verità, prete patriota, scomunicato, personaggio popolarissimo e fuori da tutte le misure, considerato quello che in teoria avrebbe dovuto essere tenuto conto del suo abito. Con la guida di don Verità iniziò un cammino attraverso i nostri monti, che aveva per meta la costa del Tirreno, dove una nave avrebbe atteso l’eroe per portarlo in salvo in Piemonte.

Don Giovanni Verità ritratto da Silvestro Lega.


La gendarmeria del Granduca Leopoldo II aveva ordine di chiudere un occhio e di lasciar passare il gruppetto dei transfughi, che percorreva i monti mantenendosi sempre sul confine con la Romagna, senza oltrepassarlo mai per non cadere nelle mani della Gendarmeria Pontificia e degli Austriaci.


Non si sa di preciso se nell’estate del 1849 Garibaldi, il fido capitano Leggero e don Giovanni siano giunti a Popolano scendendo da Galliana o dal Passo della Cavallara e comunque ora il nostro trekking parte di qui, dietro la Dogana, dove passava la strada Faentina antica. I tre imboccarono la via verso Valnera, sotto lo sguardo apparentemente distratto dei doganieri granducali e sparirono alla vista prima possibile.







All'inizio la vecchia Faentina è un singolare percorso solo pedonale pieno zeppo di tabernacoli ed ex voto..













Per salire nella mulattiera di Valnera bisogna attraversare il ponte di Buscone, chiuso al transito veicolare perché pericolante.









La mulattiera sale in costa sopra le ferrovia. Il paesaggio è incantevole.










La valle del Lamone verso Galliana. E' possibile che Garibaldi sia arrivato da Modigliana passando di là.






Ca d'Go' è una casa poderale proprio al confine con la Romagna. Ormai siamo al crinale e fra poco comincerà la discesa verso la chiesa di Valnera.










La mulattiera che stiamo percorrendo è una via antica, che compare nel Catasto Leopoldino del 1822.

Valnera è una chiesina in fondo al Rio di Campodosio, sempre al limite con la Romagna.



Ricomincia la salita verso Gamberaldi, lungo la valletta di Cà d'band (Casa del bando, del divieto).
Dopo un po' la visuale si apre verso Monte Romano.




... E infine si giunge a Spianamonte, un podere che non a caso si chiama così. L' accanto tre cocuzzoli danno un aspetto caratteristico al sito e si chiamano I tre monti.






Ed eccoci a Gamberaldi, località apparentemente remota ma in realtà crocevia della viabilità medioevale e di quasi tutti i trekking in questi luoghi.



Garibaldi e i suoi due amici andavano di fretta e tirarono diritto ma noi oggi faremo tappa qua, visto che non siamo inseguiti dalla Gendarmeria Pontificia.  Un'altra volta riprenderemo il racconto.