Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

domenica 30 dicembre 2012

Lino Fabbri racconta ...




La vita negli anni ’30
alle Fontanacce,un podere dell’alto Appennino Marradese
di Giuseppe Gurioli e Giuseppe Meucci




Questo racconto è tratto dal libro "La nostra piccola valle dell'Eden"


Capitolo 4        LA VITA IN CASA

La cucina
L’abitazione si trovava al primo piano del fabbricato. Si entrava dal lato a monte, passando sotto un arco del lungo porticato che proteggeva quella parete e si arrivava in una stanza non molto grande che serviva da ingresso. Da questa stanza si poteva andare nella “capanna” del fieno che era accanto a destra, si poteva scendere nella stalla delle vacche sottostante o anche nella caciaia, nella cantina o nel pollaio che erano nel seminterrato sotto il porticato, mentre per andare nella stalla delle pecore bisognava uscire fuori. Dall’ingresso si entrava, naturalmente, anche nella grande cucina, la stanza più importante della casa, e nelle diverse camere che erano tutte al primo piano; poi dalla cucina si saliva nel sotto tetto.
In mezzo alla cucina c'era un grosso pilastro fatto di pietre, sarà stato cinquanta centimetri per cinquanta, che partiva dal sottostante piano della stalla delle pecore per andare a sostenere due travi del grande tetto di lastre della casa. Quando ballavano durante le veglie ci giravano intorno.
Nella cucina c’era un grande camino; come in tutte le case dei contadini, nel camino era sempre presente una grossa caldaia per cuocere fagioli, patate (chi non ricorda la caldaia piena di patate per i maiali, coperta da un sacco di iuta… bolliva, bolliva, fintanto che le patate non si cuocevano, e i ragazzi alzavano il sacco e le mangiavano). Così cuocevano fagioli, ciderchie e altri legumi per gli animali. Oppure la caldaia era piena di acqua da riscaldare per fare pastoni di farina di orzo o avena per gli animali. Una caldaia più piccola serviva per cuocere la polenta gialla o quella di castagne. Il paiolo era sempre sul fuoco per fare formaggio, ricotta o raviggiolo.
Non c’era stufa, ma dei fornelli di mattoni per mettere i tegami a cuocere sulla brace. In un primo tempo era in cucina anche il forno a legna per cuocere il pane – venivano delle forme di un chilo o un chilo e mezzo, in tutto quindici chili alla volta che si conservavano nella cantina – qualche arrosto e la ciambella; poi il forno fu rifatto fuori del fabbricato.
C’era l’acquaio di pietra; non c’era acqua in casa né tanto meno nella stalla, però era vicina: poco sotto casa c’erano il torrente e due fontane, una per bere e l’altra per le bestie.
In fondo alla parete del camino una scala di legno portava nella camera dove dormivano i bambini piccoli con gli zii  non sposati (zioni o zittelloni). Un’altra scala, sempre di legno, portava nel camerone (o soffitta) usato nel periodo estivo per dare da dormire ai braccianti agricoli, che erano numerosi.



Le Cortecce



Il mangiare
Quando sedevano a tavola, a capotavola c’era lo sdor, il più anziano, che aveva la responsabilità di dirigere l’azienda, almeno per la parte dei contadini; in casa però comandava la donna più anziana, la zdora. Ai genitori si dava sempre del voi.
Ecco cosa si mangiava:
Colazione: polenta gialla con raviggiolo, o polenta dolce con ricotta, ma prevaleva la prima perché il castagno a quelle altitudini non c’era e quindi la farina dolce andava comprata.
Pranzo: minestra in brodo di pollo con pasta di spoglia fatta in casa (la pasta non si comprava); pasta e fagioli; pasta asciutta, sempre di spoglia, condita con funghi, o rigaglie di pollo, o formaggio di pecora grattugiata; burro non ce n’era. Pollo lesso, arrosto o in umido con contorno di patate o fagioli. Qualche coniglio, qualche agnello o capretto di straforo; nessuna forma di selvaggina, dato che non si cacciava soprattutto per mancanza di tempo. Non c’era usanza di mangiare il pesce, a parte il baccalà e l’aringa.
Cena, alle sei: polenta, patate stufate, frittate e poco altro. Non c’era grande varietà di verdure: l’orto si faceva, ma poco. Prima di andare a letto: una tazza di latte.
L’uso del vino non era consueto, dato che anche questo andava comprato; capitava quindi che le rare volte che il contadino scendeva in paese per il mercato o per la fiera, quando passava dall’osteria si ubriacasse dopo pochi bicchieri perché disabituato al vino. Il vino usava solo al tempo dei lavori estivi, quando la famiglia mezzadrile teneva braccianti a opera, che erano in tutto a suo carico. Lo stesso valeva per i salumi, che venivano dal maiale allevato nel podere, e che andava risparmiato (ne toccava mezzo al contadino per le persone della famiglia, più gli operai che venivano per i lavori del fieno e del grano, anche 10-15 alla volta per molti giorni). La salsiccia si manteneva nell’olio di oliva: la famiglia Fabbri se lo permetteva perché in Maremma avevano parenti che li rifornivano di olio in cambio di formaggio o altro. Il salame si conservava nella cenere.



Le Fontanacce



I funghi (i porcini) venivano fritti in padella o seccati per i sughi. Si raccoglievano anche prugnoli per mangiare, non per vendere; non si vendeva quasi nulla, anche perché il paese era distante. Per frutta, alle Fontanacce c’erano: pere giugne, selvatiche, i frutti di un ciliegio domestico e di ciliegi selvatici. Si preparavano le percadè, pere selvatiche raccolte e scottate (cioè appena appassite) nel forno dopo tolto il pane e mangiate: venivano dolci come l’uva passa. Usava anche metterle in dei sacchetti e mangiarle nell’inverno. Questa operazione si faceva fino a che le pere selvatiche reggevano sull’albero; non erano buone da conservare da verdi perché marcivano.
Per dolce si faceva la brazadela. Al posto del caffè si usava l’orzo, o anche il grano, tostato e macinato: veniva fuori un biberone.

Altri aspetti della vita quotidiana
Nelle campagne, gli uomini si facevano sia la barba che i capelli con la solita macchinetta. Questo perché la lama del rasoio era particolarmente delicata e arrotarla era difficile, quindi molti avevano baffi e barba lunga tagliati anche con le forbici. I bambini venivano tosati a zero; alle bambine si spuntavano i capelli in casa. Per lavarsi, le donne usavano la saponetta.
Per la lavatura di lenzuoli, tovaglie e altra biancheria di casa il procedimento era quello della conca con ranno (cenere), andato avanti anche fin dopo gli anni cinquanta. Indumenti intimi, camicie o altro venivano lavati a parte. Molti tessuti, come quelli di lenzuoli e asciugamani, erano di canapa e a Marradi nei pressi di S. Adriano c’era la gualtiera (o valchiera) che serviva per trattare la canapa. Non c’era gabinetto. Per i bisogni più semplici si ricorreva all’orinale, soprattutto da parte degli anziani: alla mattina veniva vuotato dalla finestra. I bisogni più grossi venivano soddisfatti fuori casa se il tempo lo permetteva, sennò nella stalla. C’era anche chi dormiva nella stalla: il bovaro, un uomo non sposato (uno zitellone)



Il tabernacolo



Le cure per i malanni consistevano in decotti di camomilla o malva; applicazioni di mattoni caldi o impacchi di crusca; caligine (fuliggine) da respirare. “Mela cotta, merda fatta” insegnava un detto, scurrile ma facile da ricordare in caso di difficoltà. Quando una parente partoriva i contadini la andavano a trovare portando in regalo una gallina vecchia, pelata. “Fa buon brodo”, si diceva, e il brodo era ritenuto salutare per la partoriente. Il regalo si contraccambiava alla prima occasione.
La sera si diceva il rosario. La casa veniva illuminata con lampade a petrolio o a carburo, candele, lanterne a spirito o benzina. Anche per lavorare nella stalla, per governare le bestie o quando partoriva una vacca, si adoperava la lanterna a petrolio o le candele. A volte era possibile procurarsi per bruciare qualche tronco intero, che veniva portato a casa a strascico dai buoi; poi messo intero nel camino, senza segare (la fatica l’abbiamo fatta…). Lo facevano scorrere via via che bruciava e i bambini la sera ci stavano a cavallo sopra.

I bambini
I bambini più piccoli dormivano con gli zioni in una camera dove si arrivava salendo una piccola scala di legno che partiva dalla cucina. Questa stanza aveva una finestra che guardava verso Pian Baruzzoli, senza telaio né vetri: in inverno, per ripararsi dal freddo, questa apertura veniva chiusa con delle tavole e imboiacata con la cacca fresca delle vacche, con aggiunta di acqua. La boiaca si seccava e faceva funzione di isolamento, però la stanza rimaneva al buio e all’alba la sveglia era il canto del gallo. La finestra si riapriva in primavera.

Gli zoccoli fatti in casa


Ai bambini la Befana portava caramelle, marroni cotti, carbone, mandarini, noccioline, noci. I giochi erano: un cariolo per i maschi, una bambola per le bimbe; ma di tempo per giocare ce n’era poco. I bambini nelle campagne non andavano all’asilo, né tanto meno a scuola. Non avevano, i più, la balia, il pediatra, il medico. Se campavano, bene; altrimenti nel cimitero c’era il posto per gli angelini. Nel podere, dopo smoccolati servivano ed avevano ognuno una funzione: c’era un vero e proprio sfruttamento minorile. Che fino al secondo dopoguerra nelle campagne fossero tutti più o meno analfabeti, questo si sapeva: il contadino i figli a scuola non li poteva mandare, anche perché il proprietario pretendeva il suo reddito. Poveri, analfabeti e in debito coi padroni: questa era la condizione normale dei contadini.



 La valle del fosso
del Lavane



L’inverno
Lavori che si facevano durante l’inverno: il governo degli animali, la stalla, la sistemazione del letame (il letame ben ammucchiato e stagionato veniva tagliato a fette con la tagliola). Quando nevicava, c’era da fare la rotta (cioè aprire un passaggio nella neve) per l’abbeveratoio che alle Fontanacce era vicino a casa, ma anche per i pagliai del fieno e della paglia. Questi venivano tagliati con la tagliola e messi nelle ghébe, delle ceste grandi di vimini, fatte artigianalmente da qualche vicino, e portate sulla schiena nella stalla. La foglia veniva data alle bestie così come la paglia, per alimento. La paglia aveva poca sostanza, ma l’inverno era lungo particolarmente in montagna e le scorte erano poche, e questi materiali servivano per la masticazione e per riempire lo stomaco del bestiame.
Bisognava anche pensare alla legna da ardere: quando nevicava i contadini approfittavano per fare un po’ di scorta di legna verde. Nelle case fredde di campagna usava riscaldare il letto col prete e lo scaldino. Sul comodino si teneva una candela con fiammifero pronto per l’uso; nello sportello sottostante, l’orinale che la mattina si vuotava dalla finestra. I vecchi si mettevano in testa una papalina di lana e calzettoni ai piedi. I vetri delle finestre erano ghiacciati.
Nel 1933, il 21 febbraio, partorì la mamma di Fabbri. Nevicava forte, non c’era tempo da perdere. A Pian Baruzzoli c’era una donna anziana che si difendeva a far da balia; bisognava andarla a prendere, altrimenti si doveva andare a San Benedetto o a Marradi, molto più lontano. Portarono la balia sotto braccio perché non era in grado di camminare dalla neve che c’era: la traccia che avevano fatto per andare, al ritorno era tutta coperta. Nacque una bella femmina, di nome Eva.

Aggiungiamo questa nota al testo:
A Marradi nevicava spesso, soprattutto sui monti. Parlando della neve, si chiedeva: “Quanta niv sel fat?” Allora, secondo la quantità, la risposta poteva essere:
La fa la traza (fa la traccia), ognè meza scherpa (ce n’è mezza scarpa), l’ariva a e znoc (arriva al ginocchio), l’è ona forcatura (arriva al cavallo dei pantaloni), l’ariva a la zintura (arriva alla cintura), l’è elta com un om (è alta come un uomo).



Il monte Pollaio

Mentre “la nev l’è srena” (la neve è serena), quando brilla ed è ghiacciata in modo uniforme, con sfumature celestine.
Anche quando non nevica, in inverno si assiste a fenomeni comuni come la galaverna e lo svidrio:
La galaverna è ghiaccio che si deposita in forma di aghetti leggeri, sugli oggetti come i rami degli alberi quando l’aria è molto umida, la temperatura scende sotto zero e c’è vento. La galaverna è preceduta da dense nebbie e si deposita nelle parti degli oggetti sottovento, formando splendidi “fiori” bianchi sugli alberi spogli.
Svidrio è chiamato invece il ghiaccio che si forma quando la temperatura si abbassa sotto zero dopo la pioggia. Allora l’acqua gela a terra o sugli alberi, formando ghiaccio compatto.
Parlando di maltempo in generale, c’era il detto “Nebbia ti mont a spentacc, acqua a sagat” (Nebbia allargata sui monti, pioggia in quantità. Detto di Teresina Vinci, Podere Colombaia).





mercoledì 26 dicembre 2012

La macelleria Consolini di Marradi


Gestita per 126 anni
dalla stessa famiglia.
di Claudio Mercatali



Ci sono certe botteghe che sono passate dai nonni ai figli e ai nipoti. Nel caso della Macelleria Consolini si va ancora più indietro, perché l'attività fu iniziata dal bisnonno.
La ditta fu fondata nel 1886, da Lorenzo Consolini detto Lorenzone, che la passò al figlio Amerigo, che a sua volta la passò al figlio Lorenzo, padre di Amerigo, l'attuale proprietario. Indovinate come si chiama il figlio primogenito di Amerigo ...



 
Lorenzo Consolini, Lorenzone,
il fondatore della Ditta.
 
L'Italia del 1886 era molto diversa da quella di oggi. Roma era capitale solo da 16 anni. Leone XIII in lite con il governo italiano minacciò di trasferirsi in Austria (ma poi ci ripensò). La compagnia di navigazione Rubattino acquistò la baia di Assab, in Eritrea, e così cominciò la nostra avventura coloniale. Quando il negus etiope Menelik ci sconfisse ad Adua (1896) Lorenzo Consolini faceva il macellaio già da dieci anni.

 
A fianco: Marradi, anno 1900 E' arrivata la ciccia alla macelleria e le donne accorrono. Era importante arrivare presto, perché allora non c'erano i frigoriferi e la carne peggiorava alla svelta.
 
Il consumo della carne non era certo come quello di oggi. Chi aveva pochi soldi mangiava ciccia una volta ogni tanto, specialmente per le feste. Lorenzo (il nipote del fondatore) raccontava che un contadino, nella bottega per comprare l'agnello pasquale, gli disse: "tratèm ben, ch'à so vnu anc l'etràn!".

I macellai erano spesso accusati di mettere nella salsiccia la carne di bue o di pecora e chi ha una certa età ricorda che Lorenzo tritava la carne e la insaccava davanti al bancone, perché tutti i clienti potessero vedere che carne usava. Oggi non si potrebbe fare, le regole igieniche attuali non lo consentono.
Fino agli anni Sessanta lungo le pareti laterali erano appesi i quarti di bue e, secondo l'uso del paese, il venerdì santo le bestie macellate venivano messe in bella mostra e la luce rimaneva accesa, finché non era passata la processione del Gesù Morto. Oggi anche questo è vietato per motivi igienici, e poi la sensibilità della gente è cambiata e l'esposizione delle bestie macellate non è per niente gradita. Una volta invece la vista dei tranci permetteva alla massaia di capire se la carne era fresca e se aveva il timbro a inchiostro del veterinario che l'aveva controllata al macello.


Anni Cinquanta, da sinistra: Domenico Razzi, Pietro Mercatali (Cicetto, un altro macellaio),  Lorenzo Consolini, Ulderigo Consolini, ... ?..., Antonio Razzi. Sono al macello comunale, contenti perché hanno finito la macellazione e il bue in quarti è sul carro. Si parte per andare alla bottega. Oggi un trasporto fatto in questo modo non è nemmeno immaginabile.





Anni Sessanta. A sinistra: Fulvio Sartoni, che poi aprirà una bottega in proprio, apprendista, assieme a Lorenzo Consolini.



Clicca sulle immagini 
se le vuoi ingrandire








Anni Ottanta: la bottega allestita
per l'esposizione del Venerdì Santo.
(con le galline spennate al Piano Bar)







 

IL CONCORRENTE
Luigi Ciani era un altro macellaio, che il 25 aprile 1925 scrisse all'Economo dell'Ospedale S.Francesco di Marradi per far presente che anche lui ... leggi qui a sinistra ...






E' rimasto anche il ricordo che Lorenzone, nel giorno di S.Lorenzo, suo onomastico e festa del patrono di Marradi, metteva un banchetto fuori dal negozio e offriva una fetta di cocomero ai passanti, cosa assai gradita a chi negli anni Trenta era bambino.

 
Il conto della Macelleria Consolini
alla Congregazione di Carità, cioè
alla Associazione che gestiva l'Ospedale 
S.Francesco di Marradi, per la fornitura
del novembre 1935.


venerdì 21 dicembre 2012

L'evoluzione del Castellaccio



Da mansione romana 
a romitorio,
da fortezza medioevale
ad abitazione
della “poetessa” 
Maria Rosa …
di Alessandro Mazzerelli





Il ponte di Biforco 
visto dal  Castellaccio


“BIFORCO (Biforch): nome applicato a varie località, ove si dividono o convergono due strade o due fiumi” .
Con questa semplice definizione lo storico Emilio Rosetti in “ La Romagna “, Ed Hoepli-Milano, 1894 , ci chiarisce l’origine del nome di questa grossa frazione di Marradi e poi prosegue:

“BIFORCO, frazione di Marradi con 2044 abitanti, dei quali 843 concentrati nella borgata situata alla confluenza del Rio di Campigno nel Lamone, due chilometri a libeccio di Marradi, e proprio ai piedi del colle isolato, su cui torreggia la Rocca di Castiglione. Qui pure si divide la strada del Lamone. L’una, la più antica, segue la valle del Rio di Campigno al Passo delle Scalelle e di Belforte; mentre l’altra (ora la più frequentata), continua pel Lamone verso Crespino e al Passo di Casaglia per discendere poi nel Mugello.
In Biforco fu un antico castello, che seguì sempre le sorti della Rocca di Castiglione e di Marradi. Nel 1371 Castrum seu Rocha Bifurchi era posseduto dal Conte Guidone di Battifolle.


Non lungi da Biforco al Passo delle Scalelle, vicino ad Albero, il dì 25 luglio 1358 i fieri valligiani disfecero la terribile Compagnia Grande del Conte Corrado Lando Alamanno facendo lui stesso prigioniero. Costui aveva abbandonato Francesco Ordelaffi messo alla stretta in Forlì dal cardinale Albornoz per passare in Toscana a migliori servigi.

Lanfranco Raparo, la battaglia 
delle Scalelle


Il paese di Biforco, molto frequentato dai passeggiatori domenicali di Marradi, ecclesiasticamente si divide in Biforco di Sopra e Biforco di Sotto. Il primo appartiene alla vicina parrocchia di San Jacopo di Cardeto ed il secondo a quella di San Lorenzo di Marradi. Dell’antico monastero di Biforco, fondato dai Vallombrosani nel 986, come quello di Crespino, non esistono più tracce da molto tempo.”

Secondo Alessandro Mazzerelli, autore dell’articolo “ Il Castellaccio è una mansione romana” pubblicato recentemente su questo blog, e che proprio al Castellaccio ha una sua dimora, l’antica mansione nelle varie fasi di trasformazione subite nel corso dei secoli, ha purtroppo cambiato connotazione e si son perse le tracce del suo utilizzazione come monastero in epoca medievale ma, sostiene il Mazzerelli, questa fu la sede anche dell’antico romitorio come attestato da vari storici.

Nelle “VITE degli Uomini Illustri per Santità della Diocesi di Faenza del B.PIETRO da BIFORCO, Camaldolese, l’anno 1013” leggiamo:

…”Biforco è picciolo castello sopra Marradi, come si è notato nell’antecedente descrizione della Diocesi, territorio una volta, ed oggi Diocesi di Faenza. Quivi era un monastero dedicato a San Benedetto, il quale fu donato da S. Enrico Imperatore a S. Romualdo abate ancora vivente nell’anno 1012, affinché ivi ponesse i suoi monaci del suo instituto, che vivevano in molta osservanza: il che ricavasi da un diploma spedito a detto S. Romualdo da quel principe tanto amante della religione cattolica, che si legge nell’Ugello. E questa concessione fu fatta al santo a richiesta d’Ildebrando vescovo faentino, che bramava d’avere nella sua giurisdizione quel sacro ordine.. 
In questo sacro eremo abitò un tempo il detto santo abate consacrandolo con la sua presenza. Quindi è che sparsi que’ santi romiti per que’ luoghi ebbero poi col tempo altri monasteri e romitori su quelle balze vicine, e in Gamugno ed Acereto fabbricati da S. Pier Damiano, come si disse nella sua vita.

In questo luogo di Biforco vissero in grande santità molti religiosi, e fra questi si segnalò un tal monaco Pietro nativo di questo paese, il quale con titolo di Beato, vien riportato dagli autori, degno che qui ne facciam memoria (…).”

La conferma che il monastero avesse sede nel Castellaccio trova conferma nelle parole del Prof. Giovanni Cavina che in “ Antichi fortilizi di Romagna” cita il Repetti che nel volume I, pag 326 del suo famoso Dizionario alla voce BIFORCO dice: “ La Rocca di Biforco detta il Castellaccio, è posta nel cono di un’alta rupe di macigno presso all’imboccatura dei torrenti di Valbura e di Campigno, i quali si maritano costà col Fiume Lamone . Appellasi questo Biforco di Sopra, mentre la sottostante borgata lungo la strada provinciale per Faenza porta il nome di Biforco di sotto e costituisce il subborgo meridionale di Marradi, dove esiste una bella Chiesa con il soppresso convento dei Frati Serviti sotto invocazione della SS: Annunziata.”

Il Professor Cavina sottolinea che “Il Castello di Biforco era uno dei molti posseduti dai Conti Guidi di Battifolle e di Modigliana e si trova registrato nei privilegi concessi a questa famiglia dagli Imperatori Arrigo IV e Federigo II.”

“Fu fra Castiglione e Biforco dove alloggiò, nel 1358, il Capitano Lando alla vigilia dell’assalto dato al temuto suo esercito dai villani del soprastante Appennino, inviluppando e facendo prigione il conte lando istesso fra Biforco e il Passo delle Scalelle. “ ( Matteo Villani, Cronache Fiorentine).

Il castello di Biforco era munito di una Rocca. Nel Censo dell’Anglico ( 1371), trovasi così descritto: ” Castrum seu Roccha Bifurchi situm est in Provincia Romandiolae super strata magistra, qua itur a Faventia Florentiam iuxta Alpes, cuius Comutatus est in confinibus Castiglionchi, Faventiae, Territorii Ubaldinorum et Comitatus Florentiae.”

La rocca era custodita da :”Unus Castellanus pro Ecclesia recipit in mense flor. VIII.”

Nel Castrum o Villa di Biforco v’erano 55 focularia.

Il Metelli (I, 96-97) fa menzione di “un luogo che da due torrenti che insieme metton capo, era detto Biforco, d’ogni intorno da altissimi monti chiuso, e cinto di aspre e forti boscaglie. Ivi era un eremitaggio ( Anno di C. 986), dove andavano a rifugiarsi tutti coloro che stanchi del travagliato vivere civile si pensavano di avervi a trovare quieta e riposata vita.” Detto eremitaggio fu visitato da San Romualdo, il quale da Parenzo nell’Istria ad esso si portò nell’anno 1003, e trovò molto da ridire sulla inosservanza delle regole da parte dei Cenobiti. Non si tenne dal riprenderli e “ li confortò di non voler reggersi di proprio arbitrio, ma recando tutto in comune e creando invece un Abate, il quale come capo dirigesse il tenore della vita e delle orazioni (…)”
Anche il Notaro Achille Lega fa cenno a questo eremo: “ Biforco prende fama dalle vicinanze dell’eremo al quale dall’Istria venne San Romualdo e in cui abitavano allora alcuni cenobiti: Quiv congiungendosi il Fiume Lamone coll’impetuoso torrente che discende da Campigno, sopra un ponte si ha passo alla sinistra di esso e si giunge a pié dell’erto monte, su cui si estolle una Torre, avanzo del fortissimo Castello di Castiglione.”

Ad ulteriore prova di quanto fin qui esposto, il Mazzerelli afferma che salendo alla Rocca di Castiglionchio, popolarmente chiamato Casatellone, si vede subito il tetto del Castellaccio “il che mi porta a pensare che dal Castiglionchio avvertivano, con segnalazioni ben visibili, cioè un fuoco in cima al Mastio, l’arrivo di eventuali nemici o stranieri, verso i quali da prima si sarebbe mossa la piccola guarnigione del Castellaccio. Il quale che si fosse nel frattempo trasformato da struttura religiosa in una struttura militare, lo evidenzia il fatto che presenta alla sua destra uno sperone che ha muri in pietra di ben due metri e venticinque centimetri, come si evince da due antiche feritoie. Divenne infine un luogo di pedaggio imposto a merci e viaggiatori a favore dei Conti Guidi.
Che il luogo abbia avuto un ruolo militare, oltre che storico, lo si evince anche dal fatto che il Conte Lando mosse la sua Compagnia dal piccolo altopiano del Castellaccio, ove, compiendo la sua soldataglia furti e violenze, finì con il provocare l’eroica reazione dei marradesi di allora che, al Passo delle Scalelle, il 25 luglio 1358, scrissero una pagina di storia imperitura, immortalata dalle parole del Machiavelli che definì i marradesi “armigeri e fedeli” alla Patria Toscana.”

Fonti: Gli scritti degli autori citati, tratti dagli originali. Le illustrazioni sono di Claudio Mercatali



sabato 15 dicembre 2012

Dal Passo dell'Eremo al Peschiera



Con le ciaspole lungo il sentiero 
della "Pianellona"

di Claudio Mercatali



La neve! Tanto desiderata, venne. Oggi è il nove dicembre, un giorno di sole pieno dopo due di nevicate alterne. Il manto in quota è consistente e spesso, perfetto per le ciaspole.
Per la prima uscita stagionale ho scelto un percorso facile di tre chilometri su pascoli innevati, e due su strada. Si tratta di andare dal Passo dell'Eremo (920m) al Passo della Peschiera (919m), percorrendo un arco di monti molto panoramici e con poco dislivello.



Il Passo dell'Eremo visto
dal passo della Peschiera

Il sentiero è ben noto ai marradesi, perché è un sito di caccia oltre che di trekking e si chiama "la Pianellona". La foto qui sopra riassume il percorso, dalle Case Nuove dell' Eremo (là sullo sfondo) a Coloreto, il podere in primo piano.

L'inizio è anonimo, da una straduccia che sembra non portare da nessuna parte e invece permette di scavalcare il crinale verso la magica valletta del Fosso di Casa del Vento, dalla quale si possono prendere diverse direzioni.
Siamo nell'Alpe di S.Benedetto, zona di monasteri medioevali, disabitata per un raggio di diversi chilometri, fra Marradi e S.Benedetto. Qui il tempo si è fermato nei primi anni Cinquanta, quando gli ultimi poderi furono abbandonati. La natura si è ripresa tutto e quindi l'ambiente è puro, l'aria è tersa. Si può bere senza rischio l'acqua dalle fonti, e c'è solo una strada bianca di servizio per i boscaioli, ma è chiusa. Ben presto anche il segnale del telefonino si affievolisce e cessa.





Sono partito presto, verso le otto, e il sole occhieggia basso, coperto dai faggi. Voglio percorrere la faggeta quando c'è ancora la neve sugli alberi, per fare qualche bella fotografia, nei boschi d'alto fusto ghiacciati, che  sono una meraviglia.


... il sole occhieggia fra i faggi ...


Ora il termometro segna -13 °C, sono al limite con il vestiario, sento che il sudore si raffredda sulla pelle e le dita dei piedi sono gelate. Non è un grosso problema, perché vado ai Prati, oltre il crinale ormai vicino, in una valletta tutta a solame e le cose combieranno.

La Bocchetta del Galestrino.


Il "galestrino" è un crinale, sito di caccia ben noto ai marradesi, perché da questa sella, passano i colombacci durante la migrazione.
All'orizzonte si vede il Passo della Peschiera, la meta del trekking di oggi, e sullo sfondo il Falterona.
Non dovrei venire da solo in questa zona dove non prende il telefonino, però sono venuto qui fin da piccolo con mio babbo, che era un cacciatore, e mi sento in confidenza con il posto ... il Galestrino, la Quercia, il Puntone ...

Clicca sulle immagini 
se le vuoi ingrandire



Una faggeta
a 1000m
di quota.

Passo
dell'Eremo,
Comune di
Marradi


Vicino al crinale la forza del sole si fa sentire e i faggi si sghiacciano quasi all'improvviso. Ora la temperatura è allo zero e cade continuamente della neve farinosa dai rami.

Quando i faggi lasciano un po' di visuale si vedono dei bei panorami, come questo verso ovest, dove lo sguardo può arrivare fino a Lozzole e a Ronchi di Berna, a venti chilometri in linea d'aria.

Ronchi di Berna, cioè la punta del monte Carzolano, è uno dei profili montuosi più caratteristici e riconoscibili da lontano.





Visuale ovest, verso Lozzole
 e Ronchi di Berna.



Ecco finalmente la Valle del fosso di Cà del Vento che scende fin quasi a S.Benedetto. Lo zoccolo della roccia è inclinato come il pendio e coperto da poca terra, e questo dà una morfologia dolce sul lato sinistro e aspra su quello destro.






La casa in primo piano si chiama La Preda, ed è una baita. Scendendo a valle dopo mezz'ora di cammino si arriverebbe alle Cortecce e dopo un'altra mezz'ora alle Fontanacce, dove finisce il comune di Marradi e si entra nel territorio di S.Benedetto in Alpe.

Questi poderi sono oltre il limite di coltura del grano e chi viveva qui mangiava soprattutto marroni, prodotti del bosco e dell'allevamento, data la grande disponibilità di pascoli. Per chi vuole approfondire è uscito da poco il libro "La nostra piccola valle dell'Eden", di Gurioli e Meucci, che descrive con cura la vita delle famiglie che abitavano qui. Fra qualche giorno un estratto sarà su questo blog.



A Destra: la Valletta del Fosso di Casa del Vento 
con visuale verso S.Benedetto in Alpe



La zona è così isolata che non c'era nemmeno il prete ma veniva ogni tanto un cappellano, a battezzare o a confessare. La strada che sto percorrendo dista almeno tre chilometri dalla provinciale asfaltata, la prima casa abitata è a non meno di dieci chilometri. Nonostante questo non sono il primo a passare di qui in questi giorni, perché in terra vedo le tracce fresche di diversi ciaspolatori.












Il pascoli della località  detta I Prati, sopra al podere
La Preda, a 900 - 1000m di quota.

Se questa fotografia viene ingrandita al massimo, in un computer con una buona memoria video, si vede sullo sfondo un monte innevato: è il Corno alle Scale, nella Val Carlina, oltre Porretta Terme, visto dalla parte delle Balze dell'Ora (= della Tramontana)





Il Monte Pollaio è un bel rilievo d'aspetto severo, aspro e ben conformato. E' la seconda vetta del nostro territorio, appena venti metri più basso del Lavane, che è dietro e da qui non si vede.
E' fatto di roccia dura, di arenaria resistente, con la vena della pietra Alberese che lo attraversa proprio a metà. Per questo l'acqua e il gelo lo "consumano " lentamente e ha un aspetto appuntito e solcato sui lati.


Cambio valle un'altra volta (è la terza oggi) e per un po' percorro il crinale della Cappellanìa dell' Umbricara, rivolta verso S.Benedetto in Alpe, che permette una visuale fino al Falterona.
E con questo ulteriore scorcio si batte quasi un record, perché è difficile trovare un sito che permatte una visuale di venti o trenta chilometri a ovest (Ronchi di Berna) e a est (Falterona).


Ora non rimane che scendere a Coloreto, il podere che si vede nell'occhiello di apertura di questo articolo.
Da qui in poi le ciaspole non servono più, perché nella strada asfaltata è passato lo spartineve. Non rimane che metterle sotto braccio e percorrere i due chilometri che mi riporteranno alla macchina. Serve mezz'ora ma il tempo passa subito, perché con il pensiero sono rimasto dentro al bellissimo bosco dei faggi ghiacciati.




A destra: Il monte
 più alto, azzurro, 
nello sfondo,
è il Falterona, 
visto dalla parte 
della Burraia,
vicino al Passo della Calla.





A sinistra: La Valletta del Fosso di Casa del Vento, che arriva quasi a S,Benedetto. Confluisce con la valletta dell'Acqua Cheta, che è quella trasversale, in alto in questa foto. 

lunedì 10 dicembre 2012

Il 1933 a Marradi

Rassegna dalla stampa locale
di Claudio Mercatali



Nei primi anni Trenta l'affermazione del fascismo era piena e incontrastata. In questo periodo il Regime raggiunse il massimo della popolarità. Marradi in quegli anni era un paese tranquillo e povero, dal quale era già cominciata l'emigrazione (il Comune è in calo demografico continuo da allora). Il Fascio locale era attivissimo e organizzava continuamente feste e ricorrenze patriottiche o di regime. 
Si svolgevano tutte con la solita ritualità: gli Avanguardisti e i Giovani Fascisti, in divisa, sfilavano per il paese, c'erano sempre le autorità in camicia nera, la banda suonava, si cantava "Giovinezza" e non mancava mai la tappa al monumento, per portare la corona ai caduti della Prima Guerra Mondiale. 
Ognuna di queste ricorrenze è descritta nella stampa locale, ma noi leggeremo solo gli articoli un po'  particolari. Il corrispondente del "Messaggero del Mugello" era il maestro Ottorino Randi.

6 gennaio -  La Befana Fascista
Per propaganda il Comune distribuiva un dono ai bambini poveri, in genere nel  teatro degli Animosi. Era un' iniziativa che si svolgeva dappertutto e non solo a Marradi. Leggiamo:


 Per ingrandire gli articoli clicca
 con il mouse fino ad ottenere
una comoda lettura








4 febbraio
Al Circolo e al teatro si organizza il carnevale. Il Circolo Fascista Marradese era di fronte alla attuale piscina, in un edificio in elegante stile neoclassico che non c'è più perché distrutto da una bomba d'aereo nel 1944 (è l'edificio a destra nella foto qui sotto).
Come si vede la zona è cambiata molto da allora.













9 febbraio
Le Case dei Mutilati sono in viale Baccarini e furono costruite per dare alloggio ai grandi invalidi di guerra e sono facilmente riconoscibili perché sulla facciata recano lo stemma dei mutilati. Si chiamano così anche oggi ma per i più giovani la foto chiarirà dove sono di preciso: sono a sinistra nella foto qui sotto.

 













 

 5 marzo
Le fiere sono anche importanti momenti di socializzazione. Ecco l'elenco di quelle degli anni Trenta.

30 marzo
Alla casa del Fascio si celebra il XII Anniversario della fondazione della sezione fascista di Marradi (sotto a sinistra).

2 luglio
Riapre il mercato dei bozzoli dei bachi da seta, che si teneva nell'edificio delle scuole elementari, perché il piano terreno era aperto a loggia.


 










15 maggio
Va in vigore il nuovo orario estivo. Comincia il servizio delle "littorine"




  




2 luglio
Il campo sportivo si trovava  dove ora c'è la piscina e faceva parte della Casa del Fascio.



13 agosto
Si inaugura la colonia elioterapica 
a S.Adriano.

 

17 settembre
Quest'anno e i successivi sono quelli della "Battaglia del grano" indetta dal Regime per rendere l'Italia meno dipendente dalle importazioni di frumento. Si piantano cereali anche nei poderi come Coloreto, a 900m di quota, e certe volte il raccolto va bene ma la resa, considerata su più anni, è bassissima.

 
 




20 agosto
Si corre la "Coppa Val di Lamone", gara ciclistica competitiva. Il percorso prevede di scavalcare il Torretto e la Collina e poi scendere a Tredozio e Modigliana. Da Brisighella si risale la valle fino a Marradi. Vince Talenti Evaristo, in 2 ore e 53 minuti. Chi pensa di poter far meglio ci provi, e tenga conto che allora queste strade non erano asfaltate.




 


 

 
27 ottobre 

 Comincia la scuola, con la solita cerimonia di inizio anno. Da Marradi parte un gruppo di 221 persone per andare a Roma a sentire il discorso del Duce.






 
 

 

10 novembre
Certe voci propongono il passaggio di Marradi alla Provincia di Forlì. L'idea fa discutere e a un certo punto il segretario federale Pavolini interviene per chiarire ...






 

Da allora sono passati 80 anni. I tempi sono cambiati parecchio, perché la storia ha fatto il suo corso. E le persone?


Francesco Cappelli, ora e allora...
I suoi racconti e le sue testimonianze sono nell' archivio del blog della biblioteca a partire dal dicembre 2011.