Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

venerdì 28 febbraio 2014

E lòm a merz

I fuochi nell'ultima notte
di febbraio, a Popolano
di Claudio Mercatali

 Il fuoco 
nel sagrato



I fuochi nella notte del 28 febbraio sono una tradizione romagnola che si perde nella notte dei tempi. Si dice che risalgano addirittura ai riti celtici della primavera, quando il fuoco rituale salutava l'arrivo degli spiriti della buona stagione e dava l'addio a quelli malefici dell'inverno. E' una consuetudine che corrisponde ai fuochi della Notte di Valpurga, che nella tradizione germanica cade il 30 aprile, perché a quelle latitudini la primavera arriva dopo.





Nella valle del Lamone, quando le campagne erano abitate, in questa notte si vedevano decine di falò, vicino alle case dei contadini e chi oggi ha più di cinquanta anni probabilmente ha qualche ricordo suo personale legato a questi.

 I volontari della parrocchia di Popolano hanno allestito una cucina. C'è il tradizionale menù di carne di maiale, i ciccioli appena fatti e poi naturalmente la polenta e anche la zuppa di farro.  








Oggi e lom a merz nelle campagne non si fa più, perché era un rito spontaneo fatto da chi le abitava. Però certi ricordi radicano così a fondo che non è possibile perderli del tutto e così i fuochi di saluto alla primavera nelle valli romagnole ci sono lo stesso: a Popolano di Marradi da qualche anno si fanno nel sagrato della chiesa, con tanto di cena all'aperto, naturalmente a base di carne di maiale ...

 Si fa cena nel chiostro della canonica, 
coperto da un telo
perché è caduta una pioggerella 
sottile e un po' fastidiosa.


Questa sera 
il tema è il fuoco



 

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mercoledì 26 febbraio 2014

Il cinematografo



Dino Campana e la grande attrazione
dei primi anni
del Novecento
 ricerca di Claudio Mercatali



I fratelli Lumière sono gli inventori del cinematografo, per aver brevettato nel 1895 la pellicola classica, quella con i fori di fianco che ne permettono lo scorrimento nel proiettore. Fu una rivoluzione, perché fino ad allora nessuno era mai riuscito a produrre delle immagini in movimento e le stesse fotografie erano ancora una rarità.
In poco tempo il proiettore Lumière divenne un'attrazione da teatro e nelle fiere più importanti non mancava quasi mai la camera oscura, nella quale la gente si accalcava per vedere i filmati. Qui da noi negli ultimi anni dell'Ottocento venivano già fatte queste proiezioni.
Ecco un articolo del Messaggero del Mugello del 1898 dove un meravigliato giornalista dà un rendiconto di quanto aveva visto nel cinematografo del sig. Filippi, al teatro di Borgo S.Lorenzo. Alla fine consiglia i lettori di affrettarsi a Marradi, dove Filippi si era spostato con la sua attrezzatura.


 

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Dunque i marradesi, già alla fine dell' Ottocento sapevano che cosa fosse il cinematografo e chi poteva permetterselo aveva visto qualche filmato al teatro o alle fiere d'estate.

Per proiettare nelle fiere con la macchina Lumière serviva poco, bastava una baracca per avere un po' di oscurità, qualche panca e una stesa di segatura bagnata, perché la polvere non imbrattasse le scarpe e le sottane alle signore. I brevi filmati, le "vedute" come si chiamavano allora, scorrevano alla luce irreale della macchina. Mostravano Parigi, Londra, la danza dell'odalisca e altri soggetti che potevano piacere ai ragazzi e alle signorine disposti a pagare il biglietto per questa curiosità.

* * *

Detto questo leggiamo un passo dei Canti Orfici, "La notte" alla sezione 12, e avremo una spiegazione chiara dell'ambiente in cui si trovava il poeta quando scrisse questa prosa, probabilmente nel 1905 o 1906:

Ne la sera dei fuochi de la festa d'estate, ne la luce deliziosa e bianca, quando i nostri orecchi riposavano appena nel silenzio e i nostri occhi erano stanchi de le girandole di fuoco, de le stelle multicolori che avevano lasciato un odore pirico, una vaga gravezza rossa nell'aria, e il camminare accanto ci aveva illanguiditi esaltandoci di una nostra troppo diversa bellezza, lei fine e bruna, pura negli occhi e nel viso, perduto il barbaglio della collana dal collo ignudo, camminava ora a tratti inesperta stringendo il ventaglio. Fu attratta verso la baracca: la sua vestaglia bianca a fini strappi azzurri ondeggiò nella luce diffusa, ed io seguii il suo pallore segnato sulla sua fronte
dalla frangia notturna dei suoi capelli. Entrammo. Dei visi bruni di autocrati, rasserenati dalla fanciullezza e dalla festa, si volsero verso di noi, profondamente limpidi nella luce. E guardammo le vedute. Tutto era di un'irrealtà spettrale. C'erano dei panorami scheletrici di città. Dei morti bizzarri guardavano il cielo in pose legnose. Una odalisca di gomma respirava sommessamente e volgeva attorno gli occhi d'idolo. E l'odore acuto della segatura che felpava i passi e il sussurrio delle signorine del paese attonite di quel mistero. «È così Parigi? Ecco Londra. La battaglia di Muckden.» Noi guardavamo intorno: doveva essere tardi. Tutte quelle cose viste per gli occhi magnetici delle lenti in quella luce di sogno! Immobile presso a me io la sentivo divenire lontana e straniera mentre il suo fascino si approfondiva sotto la frangia notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con una punta d'amarezza tosto consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri dopo lo strepito della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo.



* * *

La cruenta battaglia di Mukden fu l'episodio conclusivo della guerra Russo - Giapponese e si combatté nel marzo 1905. E' uno dei primi fatti storici documentati con mezzi cinematografici.



Il poeta era a una fiera di  Marradi o a qualche fiera di Faenza? Il fatto è stato discusso tante volte ma lui stesso sembra darci un'indicazione quando dice che durante la proiezione sentiva "il sussurrio delle signorine del paese attonite di quel mistero" e il nome "paese" è pertinente a Marradi più che a Faenza.

Le cose non andarono bene a Dino Campana quel giorno, perché la ragazza che era con lui si ritrasse a qualche sua advance e:

" ... io sentii con una punta d'amarezza tosto consolata che mai più le sarei stato vicino ".

Questa prosa, con qualche variante, c'è anche nel manoscritto Il più lungo giorno (qui accanto), con il titolo "Amore".

La delusione forse fu più forte di quello che il poeta lascia intendere in questa prosa, perché la trama della poesia La sera di fiera sembra il continuo di questo racconto.

venerdì 21 febbraio 2014

Il piazzale della Chiesa di S.Lorenzo

Il cimitero più antico
ricerca di Luisa Calderoni



E' rimasto nella memoria degli abitanti di via Celestino Bianchi il modo in cui veniva chiamato lo spazio antistante l'ingresso della chiesa di San lorenzo. Riferendosi a tale luogo si usava il termine dialettale di "semtìr" o " zemtir", che tradotto significa cimitero perché lì,  intorno alla chiesa, anticamente si seppellivano i morti. 
Le sorelle Ede e Giovanna Cappelli, che prima della guerra vivevano in Via Celestino Bianchi, ricordano che a volte, quando le mamme cercavano i loro bambini che andavano a giocare in strada, qualcuno rispondeva: "Je en te senterie a zughè" cioè sono nel cimitero a giocare,  riferendosi a quello spazio che andava dall' accesso al Fiume Lamone, popolarmente conosciuto come l'Inferno, fino alla chiesa. Allora il cimitero non c'era più perché con un editto napoleonico i cimiteri, per ragioni di salute pubblica, erano stati spostati fuori dai centri abitati, ma la sua presenza e il toponimo rimanevano vivi nel parlato e nella memoria. Le due sorelle ricordano che dopo la seconda guerra mondiale, quando furono tolte le macerie, emersero ossa e resti umani e anche sopra al fontanone di fianco alla chiesa erano venute alla luce delle ossa, segno che il cimitero era molto grande.

Nel 1927 l'Amministrazione Comunale di Marradi decise di lastricare lo spazio antistante la chiesa come risulta da questi documenti:














E le pietre del lastrico forse furono queste che si vedono allineate in questa fotografia:



Fonte: Documenti dell'archivio storico del Comune di Marradi





lunedì 17 febbraio 2014

Farro e lenticchie



Una nuova ricetta 
inventata qui da noi
  ricerca di Claudio Mercatali



La sede della Ditta Giraldi,
a S.Eufemia di Brisighella


Il farro è un tipo di frumento antico, utilizzato fin dal Neolitico. Oggi si coltiva soprattutto in Garfagnana (Lucca), dove è alla base di varie ricette tipiche: la zuppa di farro, farro e fagioli, la torta di farro. Qui nella Valle del Lamone non si coltivava, però, da diversi anni a S.Eufemia è stata aperta una ditta che lo lavora e lo vende, cosicché sta diventando un cereale apprezzato. 



 

La lavorazione del farro e dell'orzo richiede una moderna attrezzatura, per mondare il seme. Nella "sala macchine" della ditta i semi, per successivi passaggi, vengono sbucciati e insaccati.









Il prodotto, pronto per la vendita 
all' ingrosso è insaccato così.









 


Accanto al laboratorio c'è la vendita al dettaglio. La gamma dei prodotti è varia, soprattutto pasta, ma a noi, per la nostra ricetta,  serve la materia prima e cioè il farro perlato.

 



La cucina tipica della Garfagnana, in particolare di Piazza al Serchio, un paese un po' isolato che vive una realtà simile a quella di Marradi, è ricca di piatti a base di farro ma non vogliamo copiare niente. Dunque proveremo una ricetta diversa, originale, ideata per caso qui in paese e cioè l'insalata di farro, lenticchie e pomodori.

La lenticchia è una leguminosa nota sin dall'antichità. Nella Bibbia, nei libri della Genesi c'è scritto che Esaù, fratello maggiore di Giacobbe, rientrato affamato dalla campagna, vide Giacobbe che aveva cotto un piatto di lenticchie. e per averne un po' gli vendette la primogenitura. Doveva avere veramente fame, perché la lenticchia da sola non è un gran che.





Il piatto di farro
e lenticchie è pronto.




Le cose migliorano abbinando farro e lenticchie. Infatti la lenticchia spesso dà al palato una sensazione di ruvidità sgradevole, mentre il farro è più liscio. I due ingredienti hanno differenti tempi di cottura e quindi conviene cuocerli ognuno per conto proprio, prestando un minimo di attenzione, perché passato il punto di cottura il farro diventa sdrucciolevole e pastoso, mentre la lenticchia perde la buccia e diventa sgradevole. Dopo la giusta cottura  si mescolano i due ingredienti  in insalata, e si condiscono  con sale e olio. Con qualche pomodoro ciliegino tagliato fine il piatto è perfetto.


 

mercoledì 12 febbraio 2014

I mulini di Marradi (seconda parte)



 Ricerca di Franco Billi
“In località Badia del Borgo, lungo il Rio Salto, circa 100 metri sotto la chiesa,(altitudine 423 m.) c’era un vecchio mulino ad acqua, completamente demolito per costruire altre abitazioni. I pochi resti sono rimasti sommersi dalla costruzione di una chiusa.




La vallata di Gamberaldi era servita da un mulino in località Vangiolino ( m. 490). La gora è ancora visibile anche se in stato di evidente abbandono. La casa attualmente è diventata un magazzino.


Il mulino di Vangiolino


il bacino

Il mulino di Popolano, sul fiume Lamone, (m. 286), all’incrocio col fosso di Vanvitello, trasformato in abitazione privata, ha macinato fino alla fine degli anni ’40.



La frazione di Sant’Adriano, la parte più pianeggiante e fertile della vallata del Lamone, era servita da 4 mulini:

1- Il mulino di Sant’Adriano, a ridosso del paese ( m. 267). Non c’è più traccia della vecchia origine, ora trasformato in una bella abitazione.




Mulino di Sant'Adriano

2- il mulino “ La Valchiera” (m.246). Vi si trovano i resti dell’antico canale completamente interrato. Trasformato in abitazione con annessa falegnameria.




3- Il mulino delle “Polveri” (m. 245), trasformato in abitazione privata



4- Il mulino di “Fiume” ( m. 243), il più basso sul livello del mare ma anche quello con maggior produzione. Nel 1915 macinava 6.000 q.li di grano, sui circa 30.000 prodotti nell’intero territorio comunale. E’ ancora visibile la gora anche se completamente interrata. Trasformato in abitazione privata, ha macinato fino alla fine degli anni ’50. Questi ultimi tre mulini ( Valchiera, Polveri, Fiume), distanti tra loro 430 m., erano all’origine collegati da un unico canale.







In località Valnera si trovano tre mulini di cui uno solo in Toscana ( m.400), il "mulino dell'Isola", ristrutturato e trasformato in abitazione privata, ora di nuovo in stato di abbandono.













venerdì 7 febbraio 2014

Francesco Ravagli


La sua tipografia, diretta dal
fratello Bruno, stampò I Canti Orfici
ricerca di Luisa Calderoni



Con delibera N° 112 il Consiglio Comunale di Marradi, in data 17.4.1980,  intitolava una via al Professor FRANCESCO RAVAGLI e precisamente la strada che, diramandosi a sinistra da via del Castellone, prosegue in parallelo con la sottostante via Francini, in direzione di Cardeto.

 Ma chi era costui e perché dedicargli una via?  

Riportiamo di seguito il testo della libera n° 112.

Francesco Ravagli nasce a Marradi il 3 giugno 1853, morirà  a Rocca Pitigliana il 17 marzo 1910. Laureatosi in Lettere all’Istituto degli Studi Superiori di Firenze nel 1878, più tardi viene nominato professore di Lettere nel Ginnasio di Cortona.
Il Ravagli scrisse saggi sulla natia Marradi di cui illustrò la Chiesa Arcipretale, la Chiesa di Santa Reparata di Badia del Borgo e la Chiesa di Santa Maria di Popolano ( 1893). Da quell’anno inizia la pubblicazione di una rivista mensile: “Erudizione e Belle Arti” che stamperà  fino alla sua morte, nel 1910. Oggi è assai rara,  poche sono le biblioteche che la posseggono.
Nel 1894 appaga il proprio sogno cioè quello di possedere una propria tipografia. Nell’ultimo decennio del XIX secolo collabora con il giornale “LA NAZIONE” di Firenze.

Dopo la morte del Professor Ravagli, i macchinari della  tipografia furono portati  a Marradi e installati in via Fabroni dove, Bruno, fratello di Francesco,  di lì a poco avrebbe stampato i “CANTI ORFICI” di Dino Campana (1914). 
Oggi quella edizione è valutata diverse migliaia di euro, e pensare che erano molti i marradesi che ne possedevano una o più copie, senza dargli un gran valore.

                                                  

Una testimonianza su  Francesco Ravagli è in "STUDI ROMAGNOLI"
Vol. XV° (1964) a cura di Giancarlo Susini.



" ... Vorrei qui richiamare una voce pressoché ignorata in Romagna, quella di uno studioso di Marradi che fu al suo tempo insigne ed apprezzato da alcuni dotti  a lui legati da amicizia e da comuni interessi: mi riferisco a Francesco Ravagli, nato il 3 giugno 1853, laureato in lettere all'Istituto di Studi Superiori di Firenze nel 1878, e nominato poco più tardi professore di lettere nel Ginnasio di Cortona. (...)
La personalità di Francesco Ravagli si rivela con la pubblicazione, a partire dal 1893, di una singolare e preziosa rivista mensile: "Erudizione e belle arti", cui il Ravagli preferì conferire l'attributo di "miscellanea". (...)
La prima serie di "Erudizione e belle arti" abbraccia gli anni dal 1893 al 1900, anno nel quale il Liceo di Cortona fu soppresso e il Ravagli si trasferì a Carpi. (...)


Il Ravagli stesso pubblicò e commentò per primo una celeberrima iscrizione romana scoperta a Marradi, quella della gente dei Calesternae nella quale si volle da più studiosi ravvisare sia un nomen con suffisso etrusco sia la possibilità di un preciso confronto con il toponimo tuttora vivente in Galisterna, borgo della val di Senio. (...)


Indubbiamente uno dei più attivi collaboratori di "Erudizione e belle arti" fu il Ravagli stesso il quale scrisse pagine documentarie  oggi preziose su monumenti romagnoli: il nucleo di saggi più nutrito fu dedicato alla nativa Marradi, della quale illustrò la chiesa arcipretale di San Lorenzo, la chiesa di Santa Reparata in Borgo Badia, la chiesa di santa Maria a Popolano (I - 1893  poi V -1899).


(...) Le vicende del periodico del Ravagli sono strettamente legate alle tipografie che lo pubblicarono. Iniziò nel 1893 valendosi di una tipografia cortonese, la Bimbi,


 (...) ma verso la fine del 1894 appagò il sogno di possedere una tipografia propria, con macchine modernissime che allogò a Cortona, in vicolo Sant'Agostino, proprio di fronte alla sede del suo Ginnasio. Da allora la tipografia Ravagli rivoluzionò per alcuni anni il mercato tipografico di Cortona e dell'Aretino, primeggiando per varietà di tipi e per le novità dell'impaginato.
La tipografia lo seguì nel trasferimento a Carpi, dove egli insegnò ancora nel ginnasio, e dove "Erudizione e belle arti" riprese ad uscire in seconda serie nell'agosto del 1903.(...)

Nel dicembre del 1908 esce l'ultimo fascicolo della seconda serie: La tipografia Ravagli resta a Carpi ma il suo fondatore e proprietario si trasferisce a Bologna, dove tuttavia abita assai di rado preferendo la residenza di campagna di Rocca Pitigliana, presso Riola in Val di Reno, dove muore il 17 marzo del 1910.


 Come già detto, dopo la morte di Francesco la tipografia fu rilevata dal fratello Bruno, che con Baldo, il terzo fratello, e la sorella Teresa, scrittrice di cose religiose, alternavano i loro soggiorni tra Marradi e Carpi. (...)
La Tipografia fu portata da Bruno a Marradi, dove di lì a poco, nel 1914, furono impressi i Canti Orfici di Dino Campana. La tipografia Ravagli operò a Marradi ancora per una decina di anni, affiancandosi alla più vetusta tipografia Forzano, divenuta poi la stamperia Neri, che legò il suo nome alle ultime memorie dell'Accademia degli Animosi, ed alla stampa di gustosi periodici locali quali " Il Marciapiede" , " La Turlupineide", "lo Zibaldone".


La  personalità di Francesco Ravagli, singolare figura di studioso fra i due secoli,  legato agli interessi colti di tre regioni - la Romagna, la Toscana, l'Emilia - resta quindi affidata nel quadro della cultura storico e artistica di ambito locale alla sua rivista " Erudizione e belle arti", i cui fascicoli, stampati ogni volta con copertine di colori diversi e vivaci, raggiungevano gli scrittoi di studiosi insigni che gli furono amici (...).

Disponiamo fortunatamente di un altro strumento utile ad illuminare la formazione ed i gusti intellettuali del Ravagli: la sua biblioteca che un marradese, Pietro Bandini, ha conservato, con un atto prezioso di autentico amore agli studi, salvandola dalle distruzioni e dalla dispersione."






Fonti: 
La rivista Erudizione e Belle Arti è stata fornita dalla dr.ssa Patrizia Rocchini, della Biblioteca comunale di Cortona (Ar)
Il testo della delibera n°112 viene dall'Archivio Storico del Comune di Marradi
Altre notizie vengono da prof. G.Susini, in Studi Romagnoli, vol XV, anno 1964

lunedì 3 febbraio 2014

La strada di Guiàtola


Un sentiero nell'alta valle

del fosso di Albero
di Claudio Mercatali


... Un cartello di legno 
ne indica l'inizio ...


Guiàtola è un podere disabitato da tanti anni, che si raggiunge con una strada campestre dal podere Trebbo, lungo la provinciale Marradi - San Benedetto in Alpe. Un cartello di legno ne indica l'inizio e non serve altro, perché la via è chiara. Si scende al fosso di Val della Meda, si guada perché la passerella è distrutta e si prosegue per una strada campestre ben riconoscibile. Appena il tempo di cominciare a sudare e si arriva ad una casa bella ma in rovina, che appunto è Guiàtola.



... si guada perché la passerella 
è distrutta ...




Il podere venne abbandonato dai contadini negli anni Cinquanta, perché da questi campi si ricavava poca risorsa e molta miseria, però è stato abitato di nuovo negli anni Novanta da una comunità di persone che rifiutavano il nostro modello di società e cercavano un ritorno alla vita in ambiente naturale, lontano da tutti.
 
Fu un'esperienza coinvolgente e chi l'ha vissuta la racconta ancora oggi con emozione. Il gruppo che viveva là accoglieva chi passava, in una specie di cooperativa sociale senza compromessi. Fu così che un giorno qualcuno lasciò un saffi (fazzoletto) sopra una luce, in dieci minuti si scaldò e prese fuoco la stanza più alta, tutto distrutto e ...

La comunità si disperse, ognuno se ne andò per conto suo. Per questo attorno a casa si trovano tanti oggetti abbandonati, che sono rifiuti ma anche frantumi di un sogno.
Guiàtola 






Per un breve tratto la visuale si apre e così si capisce dove siamo: laggiù in fondo si intravedono le prime case di Albero.
La montagna a sinistra, quella più scura, è da percorrere tutta, a mezza costa, fino a girare attorno.
 


Val Stagnana

Dopo Guiàtola la strada prosegue come sentiero, serpeggiando in piano attraverso la macchia. Dopo un paio di vallette si arriva a un rudere, che è l'ex podere di Val Stagnana.

E poi ancora, di valletta in valletta si arriva in un castagneto di piante altissime, in parte schiantate dalle neve.
I castagneti sono vivi, e c'è la traccia del lavoro di generazioni intere di contadini che hanno ricavato da qui il necessario per vivere. Ci sono anche altre sensazioni di vitalità, perché i castagni, con i contorcimenti dei loro tronchi suscitano tante fantasie.
 
Secondo il mito gli sferoblasti sono dei dispettosi spiriti intrappolati nella corteccia che ci chiamano, anche se non li sentiamo, quando camminiamo nel bosco. Lasciano le loro sensazioni impresse nei castagni e se avete sufficiente immaginazione le potete vedere. Non ci credete?

 Lo spiritello dal naso a patata
di questo castagno fa  Oooh ... e sembra
 sorpreso di vedermi.

 






Quest'altro spiritello, strabico
 e con i capelli arruffati sembra spaventato
e fa Aaah! ... quando mi vede..


 





Il "bue muschiato" sonnecchia
e non mi ha visto passare.
Sopra altre tre faccine sbucano dalla corteccia?



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Dopo il castagneto comincia un prato pascolo cosparso di ginepri. Si sale, tenendo il margine che dà sul castagneto e dopo un po' in lontananza, si vede la casa del podere Montemaggiore. Viene d'istinto puntare in quella direzione, ma è sbagliato. Fra il pascolo e il podere c'è il profondo Fosso delle Tanacce (Fos de bagàz) che è invalicabile per chi non conosce il sito e poi non è una meta per oggi.

La meta è il podere La Serra, che si raggiunge bene percorrendo il margine del pascolo lungo un sentiero piano e riconoscibile. La via passa proprio di fianco ai ruderi della casa poderale, diritta, verso l'alto, fino al crinale. E' una scorciatoia aspra e antica.

La Serra. La bocchetta 
da raggiungere 
è là in fondo,
proprio dietro alla casa.


Quando passo per i sentieri perduti, segnati nelle carte di 200 anni fa ho delle sensazioni. Non che ci sia qualcosa di particolare da vedere, però immagino che tanti sono passati prima di me. Che bisogno c'era di percorrere questa landa sperduta?
Per chi abitava qui il percorso malagevole fra La Serra e Trebbo di Val della Meda era la via più "comoda" per giungere a Marradi, a comprare il sale e qualche attrezzo al mercato del lunedì.

Dopo una sudatina dietro ai campi della Serra si arriva al crinale e quasi subito si deve scendere, per un sentiero un po' nascosto che comincia nella bocchetta sopra a Guiàtola.
Che cos'è una "bocchetta"? Nel gergo marradese questa parola indica una sella, un crinale a conca, dal quale è comodo passare da un versante all'altro di un monte. Dalla bocchetta della Serra si scende nel fosso di Val della Meda, che si raggiunge qualche centinaio di metri a monte della passerella incontrata all'inizio. Anche qui c'era una passerella, ma ora è sepolta sotto una gran quantità di tronchi trascinati dalle piene.

Siamo in fondo, dopo il guado un sentiero pianeggiante riporta nella strada di Guiàtola e poi a Trebbo. E così si esce dalla valle di Albero, dove la fantasia va per conto suo e il tempo forse si è fermato.


Trebbo dalla strada di Guiàtola




Approfondimenti
Ci sono altri articoli nell'archivio del blog che parlano degli spiriti della foresta:

1) "Mommarelli, scultore itinerante", 
alla data 4 settembre 2011.
2)  "Gli gnomi" alla data 12 maggio 2012.