Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

martedì 1 agosto 2017

Uomini visti

Giuseppe Ravegnani
parla di Dino Campana

ricerca di Claudio Mercatali



Giuseppe Ravegnani, romagnolo di S.Patrignano (Rimini) conobbe Dino Campana.
Giornalista e direttore della biblioteca Ariostea di Ferrara scrisse diverse cose sul nostro poeta. Questa che segue è la cronaca del suo incontro con Campana a Ferrara, un giorno dell' agosto 1915. Sentiamo come lo racconta:

... Finalmente me lo vidi capitare a Ferrara, e fu quello il nostro primo incontro, che merita un po' di cronaca.




Era un pomeriggio afoso di fine agosto. Il mio studiolo, nonostante aprisse una gran finestra sul giardino e sull'orto, era una specie di fornace accesa; e io stavo boccheggiando in maniche di camicia, con un libro sui ginocchi, stordito da quel caldo che quasi bruciava la pelle. Un po' appisolato com'ero, non avevo sentito mia madre entrare e avvicinarsi alla poltrona, su cui riposavo.

 "C'è lì fuori" disse mia madre tutta allarmata "uno strano tipo, una strana faccia, che domanda di te ..."    Chi è? domandai.
"Non lo so. Non lo conosco. Non mi ha detto il nome. Ha detto solo che è un tuo amico".
Va bene. Fallo passare.
"Ma che razza di amici ti sei messo dattorno ... Sarà certo qualche scroccatore ..." aggiunse mia madre, voltandomi le spalle.


Di Campana uomo molto si è scritto, lavorando di fantasia. Chi lo ha detto bello come Shelley, scomposto come Dioniso, spettinato come Verlaine. Altri lo hanno paragonato a un brigante" a un frate camaldolese, a un tedesco spiaccicato, a uno scampaforche, a un fauno dorato", a un Giove ubriacone, a un "giramondo che, parlando, cantava come un fringuello" e chi più ne ha più ne metta.

 Insomma poète maudit; e per dargli come tale l'aureola di rito, gli hanno fatto fare una trentina di mestieri, alcuni veri, altri inventati. Il vero Campana era diverso.


Dunque, uscita mia madre, dopo un attimo entrò un ragazzone, dagli occhi chiarissimi, di un celeste che sfumava nel grigio, i capelli di un biondo caldo, la pelle del viso tesa e stillante di sudore. Indossava un abito sgualcito; la camicia aperta sul petto: le scarpe ricoperte di polvere. Appena mi vide, tese il braccio in un gesto un po' ieratico e un po' teatrale: Tu sei Ravegnani? Domandò e senza darmi tempo di rispondere, cominciò a declamare con voce dolce, con pronuncia pulita, leggermente venata dalle cadenze della sua terra:

Non so se tra le roccie il tuo pallido
Viso m'apparve, o sorriso
Di lontananze ignote.
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine
Suora della Gioconda:
O delle primavere
Spente, per i tuoi mitici pallori
O Regina ...

 A quei versi balzai in piedi: Campana! dissi, allegro e meravigliato. "Si, Campana. Vengo da Bologna in bicicletta per trovarti. Un accidente di caldo" e mi gettò le braccia al collo.


 Cominciammo a parlare. Dino si gettò su una sedia, accanto alla finestra. Io lo guardavo contro la luce bianca che veniva dal giardino. C'era attorno a lui una specie di leggenda, quasi un mito: i suoi vagabondaggi, i suoi mestieri, le sue stranezze, le sue ire, la sua poesia. Invece, lì davanti a me, il tronco solido, il viso aperto, non c'era che un ragazzone dall'aspetto trasandato e innocente, lo sguardo puro, un sorriso tranquillo sulle labbra sane.




Le parole che diceva erano discrete, rotte da silenzi. A tratti scattava in piedi, si muoveva per la stanza, si fermava a guardare i libri dentro la scansia. Il colloquio andava avanti a strattoni, ma niente c'era in lui di difficile, di bizzarro, di annebbiato, di ribelle. Dopo i primi momenti, dopo le prime parole, lo vidi più taciturno che loquace, più pensoso che estroso; e appunto il suo carattere doveva essere così, temperante, indulgente, bonario.

Ma assai diverso mi apparve non appena cominciammo a girare per le belle strade di Ferrara, piene di armonia e di colori. Sembrò stuzzicato da qualcosa di bollente, di intemperante: una specie di felicità vertiginosa cominciò a battergli il corpo, ad accendergli le parole.

Camminava a lunghi passi in mezzo alla strada, parlando ad alta voce, e muovendo le braccia per l'aria come ali di mulino. La gente lo guardava, specialmente le donne, che a Ferrara sono belle, d'una bellezza pesante di sensualità. Campana se ne accorse; e ogni tanto a quegli sguardi, mi strizzava l'occhio felice: "Le ferraresi sono belle, granite ..." andava ripetendo. Poi, più ragazze vedeva, brune, bionde, e più forte declamava i suoi versi, che sembrava li offrisse a quegli incontri: " ... matrone di Spagna, dagli occhi torbidi e angelici, dai seni gravidi di vertigine ... o Siciliana proterva opulenta matrona a le finestre ventose del vico marinaro ... la rosabruna incantevole, dorata da una chioma bionda ...". Io cercavo di frenarlo, richiamandolo alle bellezze cittadine, al color rosso delle case ferraresi, al ricco splendore delle antiche chiese, al dolcissimo concerto delle campane, che riempivano l'aria azzurra della prima sera. Dino un po' mi ascoltava serio, faceva si col capo, si fermava a osservare ora una finestra ora un cornicione di cotto; ma appena una donna lo guardava, come balzando mi prendeva un braccio, stringendomelo fino a farmi male: "Oh! Hai visto! Opulenta! Imperiale! Notturna colomba! Ecco la poesia! Nasce in quest' aria!".




Il duomo di Ferrara



Più tardi, come arrivammo in piazza del duomo, e la facciata meravigliosa apparve, chiara contro il cielo notturno, le trine dei marmi splendenti, Dino si gettò nel mezzo e gesticolando ripeté ad altissima voce, una due volte: "La sera si veste di velluto, la sera si veste di velluto ...". E rideva felice. La gente si fermò a guardarlo. Ma davvero era una sera bellissima, piena di stelle e di fuoco.


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