Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

lunedì 28 dicembre 2020

1776 La riforma dei Comuni nel Granducato





Cambiano i confini e
l'ordinamento di Marradi

ricerca di Claudio Mercatali


Pietro Leopoldo di Lorena, primo granduca di Toscana del suo casato, è passato alla storia per essere stato un energico riformatore dello Sato e un governante moderno ed amato. Quella che stiamo per leggere è la Riforma dei Comuni del 1776, dove vennero ridefiniti i confini di tutti i territori e modificati gli organi di governo, con un sistema di sorteggio degli amministratori che metteva fine alle nomine fiduciarie in uso ai tempi dei Medici, che davano troppo potere alle famiglie ricche dei signorotti locali. Il dettato della Riforma è chiaro e richiede poche spiegazioni. 

Leggiamo le disposizioni che riguardano il Comune di Marradi:

Il territorio venne diviso in 15 Comunità, ciascuna delle quali comprendeva una o più parrocchie.


La Comunità di Crespino, che fino ad allora aveva fatto parte di Palazzuolo, passò a Marradi.


L’amministrazione fu affidata ad un Gonfaloniere e sette Priori (assessori).


La nomina del Gonfaloniere era per sorteggio, da una borsa nella quale c’erano i nomi dei marradesi più ricchi e capaci. La nomina dei Priori avvenne anch’essa per sorteggio, da un’altra borsa con i nominativi di tutte le persone degne e benestanti.


Il Consiglio Generale del Magistrato (era quasi l’equivalente del nostro Consiglio Comunale) comprendeva anche 12 consiglieri, oltre ai 7 priori e al Gonfaloniere.

Il Cancelliere comunitativo (era un funzionario granducale) provvedeva alle operazioni di imborsazione ed estrazione dei nominativi …





Il Granduca concluse perentorio che:

… Mediante le istituzione delle suddette nuove Magistrature sopprimiamo, ed aboliamo le Magistrature e gli Ufizi fin’ora esistenti nella Comunità di Marradi, e Comuni riuniti come sopra, ed insieme tutti gli statuti, riforme, ordini, e leggi concernenti la creazione di dette Magistrature, e le incumbenze dei loro residenti, ed impiegati …         

… il presente regolamento particolare dovrà cominciare ad avere il suo effetto, e vigore nella comunità di Marradi  il dì 1 marzo 1776

Detto questo, che cosa c’è nell’Archivio storico del Comune di Marradi, agli anni 1775 e 1777?

Solo i marradesi ricchi potevano diventare amministratori. Con una serie di stime si definirono le Masse d’Estimo e si fece una classifica per sapere chi aveva diritto di “essere imborsato” cioè inserito nelle borse da cui si facevano le estrazioni. Per la cronaca, il podere che valeva di più era Popolano di Sotto, e uno di quelli che valevano di meno era Briccola, nella vallata di Lutirano, al confine con Modigliana. Poi emersero tanti dubbi interpretativi della legge, che in effetti era rivoluzionaria:

I preti potevano essere "imborsati"?

“… Sua altezza Reale dichiara che i Rettori di chiese e gli ecclesiastici possidenti in proprio siano ammessi a risiedere nel Consiglio comunale qualora venissero estratti, ma non nel Magistrato dei Priori.    Dato a Firenze 10 aprile 1775

Come si legge anche qui sopra, per impedire che qualcuno diventasse il controllore di sé stesso la Cancelleria Granducale stabilì che:

“Dichiaransi incompatibili le cariche di Provveditore di strade, di Camarlingo (= di esattore), di Deputato a distribuire le imposizioni e di revisore delle medesime, con l’uffizio di Magistrato del Comune”.   Il Cancelliere Angelo Tavanti, dato in Firenze, 17 luglio 1775

Anche le donne in certi casi potevano essere “tratte”. Isabella Tamburini, ricca marradese moglie di un Fabroni, non voleva o non poteva fare la consigliera e chiese di essere sostituita da Pietro Fabroni. Il Gonfaloniere chiese a Firenze se si poteva fare:

“Spett. Gonfaloniere del Comune, per schiarimento ai dubbi proposti le replico che il sig. Pietro Fa­broni è abile a risiedere in Consiglio al posto della sig.ra Isabella Tamburini nonostante che in detto consiglio vi risieda Gioacchino di lui fratello, perché lo Statuto Reale non proibisce questa simulta­nea residenza; e la sig.ra Tamburini non avrebbe chi la potesse realmente rappresentare nell’uffizio in cui è stata tratta.           da  Firenze, 5 maggio 1776

Nell’archivio ci sono decine di lettere con domande come queste,  inviate al Gonfalo­niere. Ad un certo punto, per chiarire ogni cosa, lui stesso venne invitato a Firenze:

“Eccellentissimo Gonfaloniere, nella sua precedente lettera ci sono diversi articoli che necessitano di schiarimenti sui quali si rende necessario che Vostra Signoria venga opportunamente istruito. Stimo opportuno che ella dia una corsa a questa città di Firenze affinché ella riceva tutte quelle spiegazioni che possono condurre al più esatto adempimento delle Regole. Lascerà qualcuno a quelle incombenze che non intende dilazionare nei tre o quattro giorni in cui Ella sarà assente.

E resto,   Il segretario Filippo Cioni,  dato in Firenze  5 marzo 1776

Arrivò il momento dell’estrazione dei nomi dei consiglieri e scoppiò una lite, perché secondo il Gonfaloniere e alcuni Priori c’era stato un imbroglio:

 “Dal Gonfaloniere e da alcuni Priori è stato fatto ricorso sulle operazioni di imborsazione dei nomi di chi dovrà far parte del Magistrato dal prossimo Marzo. Alla presenza di soli quattro consiglieri si procedette all’apertura forzata della cassa con la borsa contenente i nominativi, senza la chiave che era presso il Gonfaloniere, assente, avendone fatta fare un’altra. Si chiede pertanto la nullità di que­sta operazione, svolta in assenza del Gonfaloniere che mancava non per puro di lui capriccio, ma per averglielo impedito il rigore della stagione e le quantità di nevi che cadevano in quel tempo”.

Firenze, 21 febbraio 1777, riceve il segretario Filippo Cioni

Il ricorso fu accolto e da Firenze il funzionario Filippo Cioni ordinò che “l’imborsazione” fosse ripetuta. E poi il nuovo “consiglio comunale” cominciò a funzionare. A vedersi doveva fare un bell’ effetto, perché la regola prescriveva per ognuno un mantello nero e solo il Gonfaloniere era vestito di rosso.

 

Fonti  Autori vari, La Romagna Toscana, biblioteca di Marradi.

Archivio storico del Comune di Marradi, filza N° 565 doc 12,16,17, 46,137, 239 …


martedì 22 dicembre 2020

Canti Orfici

La ragione di un titolo
Claudio Mercatali


Nell’inverno del 1913 Dino Campana andò a Firenze a cercare un editore per il manoscritto dei suoi componimenti. Il quadernino si chiamava Il più lungo giorno ed era quanto di più caro aveva. Lui stesso scrisse:

"… venuto l'inverno andavo a Firenze al Lacerba a trovare Papini che conoscevo di nome. Lui si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) e me lo restituì il giorno dopo e in un caffè mi disse che non era tutto quello che si aspettava ma che era 'molto molto' bene e mi invitò alle Giubbe rosse per la sera... per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il manoscritto ed altre cose che avevo, che l'avrebbe stampato. Ma non lo stampò. Io partii non avendo più soldi (dormivo all'asilo notturno ed era il giorno che facevano le puttane sul palcoscenico alla serata futurista incassando cinque o seimila lire) e poi seppi che il manoscritto era passato in mano di Soffici. Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per averlo e mi decisi di riscriverlo a memoria...".

Il seguito della storia è ben noto: dopo un duro lavoro di riscrittura fatta soprattutto a memoria e durato sei o sette mesi, il libro fu pubblicato nell’ estate del 1914 dalla tipografia Ravagli di Marradi con il titolo Canti Orfici. Il quaderno originario fu ritrovato solo nel 1971 in casa di Ardengo Soffici e pubblicato da Vallecchi nel 1973.

Che cosa intendeva il poeta con il titolo Il più lungo giorno?

Non lo sappiamo perché Campana non ce lo dice e nei suoi appunti non c’è nessuna traccia che possa servire per una ipotesi.

Chi era Orfeo?

Secondo il mito greco Orfeo era così bravo con la lira che al suono del suo strumento e alla sua voce si ammansivano anche le belve. Era innamorato della ninfa Euridice, che un giorno fu morsa da un serpente e morì. Orfeo disperato scese agli Inferi e con la dolcezza della sua musica, convinse Plutone e Proserpina a restituirgli l’amata. Però gli Dei posero una condizione: non doveva voltarsi a guardarla finché non avesse raggiunto il Regno dei vivi. Ma proprio sulla porta dell’Ade si voltò e la perse per sempre.


  

Antonio Canova, Orfeo ed Euridice


Perché il poeta cambiò il primo titolo con Canti Orfici nei sette mesi di lavoro infernale di riscrittura?

Non sappiamo nemmeno questo ma qualche traccia c’è, perché Campana parte spesso da un fatto reale che poi trasfigura fino a renderlo difficilmente riconoscibile.
Dunque forse Dino Campana si riconobbe in Orfeo: Euridice per lui era la sua arte poetica, persa per colpa di un serpente (Ardengo Soffici o Giovanni Papini), e patì le pene dell’inferno per riscrivere tutto.

Che cosa fece il mitico Orfeo dopo la perdita definitiva di Euridice?

Secondo il poeta Virgilio pianse per sette mesi (per il poeta Ovidio, sette giorni). Non riusciva più a pensare ad altro e rifiutava tutto e tutti. Nella versione virgiliana le donne dei Ciconi (gli abitanti della Tracia) in preda all'ira lo fecero a pezzi e ne sparsero i resti per la campagna. Questo finale del mito sembra confermare l’ipotesi: nei mesi passati nella soffitta di casa e nel podere Orticaia, a Marradi, a riscrivere le poesie divenne insensibile ad ogni altra cosa, si isolò e fu rifiutato da tutti più di quanto era stato fino ad allora. Non dimentichiamo che nell’ ultima pagina del libro c’è un verso di Walt Whitman tratto da Song of Myself:



They were all torn
and cover'd with
the boy's blood

(L'originale di Whitman è: "The three were all torn and cover'd with the boy's blood" ossia "I tre uomini erano tutti laceri e ricoperti dal sangue del ragazzo"). Questa frase per Campana era importante, e nel marzo 1916 scrisse a Emilio Cecchi:

"Se vivo o morto lei si occuperà ancora di me la prego di non dimenticare le ultime parole che sono le uniche importanti del libro. La citazione è di Walt Whitman che adoro nel Song of myself quando parla della cattura del flour of the race of rangers". Campana quindi si identifica con un giovane della poesia di Whitman massacrato a tradimento.

Il poeta mentre riscriveva i Canti Orfici probabilmente si rese anche conto che la sua mente peggiorava in modo inesorabile. Rivolto indietro per riscrivere le sue amate poesie forse sentì che la sua arte poetica stava per svanire così come svanì Euridice quando Orfeo si voltò a guardarla. Infatti dopo il 1914 prese il sopravvento la malattia. I suoi pochi scritti successivi sono frammenti con qualche sprazzo di genio ma per lui la stagione alta della poesia era passata. Ecco quindi quale potrebbero essere le ragioni del titolo: la fatica infernale della riscrittura, il rifiuto di tutto e di tutti, proprio come Orfeo, la convinzione di aver scritto un capolavoro e la sensazione che il progredire del suo male stava facendo svanire il suo estro.


Per altre ipotesi:

Stefano Drei, Orfeo, Ofelia e una piazza (su Internet) e su La piè anno LXXXII n°1 2013 (Drei espose la sua ipotesi anche alla Corte delle Domenicane, a Marradi, al centenario dei Canti Orfici).
Neuro Bonifazi: Dino Campana, la storia segreta e la tragica poesia. Longo Editore Ravenna, 2007 (Il libro fu presentato anche a Marradi alla Corte delle Domenicane, in occasione del genetliaco di Dino Campana con introduzione del Dr. Andrea Gialloreto dell’Univ. di Chieti).
Federico Ravagli: Dino Campana e i goliardi del suo tempo. Editrice Marzocco, Firenze, pg 127

  

venerdì 18 dicembre 2020

1424 L'imboscata di Fognano

I popolani aggrediscono 

il capitano Niccolò Piccinino

al servizio dei Fiorentini

Ricerca di Claudio Mercatali


Niccolò Piccinino


Nel 1424 il Comune di Firenze cercò di conquistare la Romagna. Ogni cosa era stata predisposta con cura: c’era una fitta rete di alleanze con i signori locali e un forte esercito schierato a Zagonara, un sito appena fuori a Lugo di Romagna. Si doveva affrontare in una battaglia campale Filippo Maria Visconti, che aveva le stesse mire. Era un confronto diretto fra Firenze e Milano, per decidere una volta per tutte chi doveva prevalere. Le cose andarono male per i Fiorentini, tanto che la loro storiografia glissa parecchio su questo episodio e pur non potendo ignorarlo, è abbastanza avara di particolari. Perciò conviene fare riferimento allo storico Flavio Biondo, che ci narra i fatti visti dalla parte dei Milanesi vincitori. Ecco qui una sintesi da uno studio dello storico Marco Cavalazzi:

 

La battaglia di Zagonara



Da “Historiarum ab inclinatione Romanorum imperii decades” (Le decadi storiche dal declino dell'impero romano di Flavio Biondo, storico e umanista italiano del Rinascimento.

 


28 luglio1424


I Forlivesi assediati da Carlo Malatesta chiesero aiuto a Filippo Maria Visconti, che mandò in Romagna 4000 cavalieri e 1000 fanti, comandati da  Angelo Della Pergola. Alberico da Barbiano, al servizio dei Fiorentini,, decise di chiudersi con pochi in Zagonara e Angelo Della Pergola l’assediò e diede l’attacco al castello da due fronti, notte e giorno. Accortosi che Alberico contava soprattutto sulla difesa fornita dall’acqua nei fossati del Castello, la fece defluire. Messo così alle strette Alberico patteggiò con Angelo Della Pergola una tregua di quattro giorni e avvertì Carlo Malatesta e i Fiorentini che se non fosse stato soccorso con urgenza avrebbe dovuto arrendersi.


Al tramonto del terzo giorno di tregua Carlo Malatesta diede l’ordine di partire con i soccorsi ma all’improvviso si scatenò un nubifragio che durò tutta la notte, impacciando nel buio e nel fango i cavalieri e rendendo penosa la marcia della fanteria. All’alba Carlo ricompose le fila, molti erano rimasti indietro per il maltempo, ma ordinò comunque l’avanzata. Della Pergola fece allora rompere gli argini del canale derivato dal Senio nei pressi di Maiano.

Carlo Malatesta, quando giunse non trovò un posto asciutto in cui schierare l’esercito, ma ordinò l’attacco, che non riuscì. I Fiorentini si ritrassero, alcuni fuggirono e Angelo della Pergola, con un contrattacco li travolse.

Carlo Malatesta cadde da cavallo e venne fatto prigioniero. Filippo Maria Visconti avrebbe potuto fare prigionieri tutti i Fiorentini se si fosse spinto avanti, ma non capì quale grande occasione gli si era offerta.

L’esercito fiorentino, travolto, fuggì in disordine verso la valle del Lamone e quando la notizia giunse a Firenze in città si diffuse il panico. Si temeva che i Visconti potessero invadere il Mugello  e in fretta si allestì un nuovo esercito, con i resti di quello vecchio e tante milizie fornite da tutti i comuni toscani legati a Firenze. C’era anche una milizia di cinquanta cavalieri e altrettanti fanti provenienti da Marradi, condotti da Ludovico Manfredi, signore del Castellone. Il comando di tutte queste genti venne dato al capitano di ventura Niccolò Piccinino, che lentamente scese da Marradi verso Brisighella per contrastare Angelo della Pergola, che stava devastando le colline. Il Piccinino non aveva la forza per ingaggiare una battaglia campale di rivincita e si limitava a fare terra bruciata davanti ai Milanesi che risalivano la valle del Lamone.


Il ponte per Campiume a metà dell'Ottocento


Nel corso di una di queste operazioni giunse a Fognano e con l’avanguardia passò il Lamone a Campiume, di fronte al paese. Aveva dato ordini precisi, perché il grosso delle sue milizie guarnisse il ponte che poi avrebbe dovuto ripercorrere tornando indietro. 



Era il gennaio 1425, le milizie fiorentine avevano bisogno di rifornimenti, il paese di Fognano sembrava sotto controllo, non si vedeva nessuna minaccia e allora si abbandonarono al saccheggio. Però i Fognanesi reagirono violentemente e demolirono il ponte di legno sul Lamone. Così Niccolò Piccinino e Oddo da Montone rimasero isolati e furono assaliti da Angelo della Pergola. 





Oddo fu ucciso, Piccinino fu preso prigioniero e portato a Faenza legato e diritto su un carro, perché tutti potessero vedere com’era ridotto. L’esercito fiorentino abbandonò il paese e risalì in disordine la valle fino a Marradi. 


L’episodio ci interessa perché lo conosciamo dalle Istorie Fiorentine di Giovanni Cavalcanti, un importante storico contemporaneo di questi fatti, che lo trascrisse in base ai racconti del suo amico Ludovico Manfredi da Marradi, che era a Fognano e vide tutto. Giovanni e Ludovico avevano tempo per parlarsi perché per alcuni anni furono in carcere insieme, alle Stinche, a Firenze. Ludovico era lì accusato di tradimento e Giovanni di bancarotta ed evasione fiscale, infatti era un ottimo cronista ma un pessimo amministratore dei suoi beni.


sabato 12 dicembre 2020

Santa Lucia

 Il giorno più corto che ci sia


Ricerca di Claudio Mercatali

 

Sfatiamo il mito: il giorno più corto dell’anno è il solstizio d’inverno, e quest’anno è il 22 dicembre. Dunque il detto popolare non è vero. Non è esatto nemmeno dire “giorno” e sarebbe meglio la parola “dì” che è la parte del giorno in cui c’è luce, ossia dall’alba al tramonto.

 

Da che cosa viene questo errore? Per avere una spiegazione occorre sapere che dal tempo dei Romani al 1582 è stato in uso il Calendario di Giulio Cesare che accumulava un errore di 12 minuti ogni anno. Sembra poco ma nel 1582 la sfasatura tra il calendario civile e quello solare era così grande che il solstizio cadeva proprio fra il 12 e il 13 Dicembre. 


Gregorio XIII

Con la riforma del calendario il Papa Gregorio XIII nel 1582 ordinò che si passasse dal 4 al 15 Ottobre, e tolse i 10 giorni di sfasatura accumulati negli oltre 10 secoli. Il solstizio passò così al 21 - 22 Dicembre ma la festa della Santa rimase al 13.






Al Solstizio il sole tramonta circa 3 minuti dopo rispetto a Santa Lucia, ma l'alba ritarda di circa 6 minuti e in totale il dì è più corto di qualche minuto. Al mezzogiorno del solstizio invernale il Sole tocca il punto più basso del suo tragitto annuo (apparente) attorno alla Terra. E’ più "basso" rispetto agli equinozi (21 marzo, 23 settembre) e quindi scalda poco, sorge tardi e tramonta presto. Al solstizio di dicembre inizia ufficialmente l'inverno astronomico nell'emisfero boreale (e l'estate in quello australe).



domenica 6 dicembre 2020

Le cartoline di Palazzuolo di Romagna

Le immagini dagli anni Venti 
agli anni Cinquanta
ricerca di Claudio Mercatali



Nel 1957 il Consiglio comunale di Palazzuolo deliberò di cambiare il nome al paese, da Palazzuolo di Romagna a Palazzuolo sul Senio. Nei secoli lontani c'erano stati altri nomi: fino al Trecento il capoluogo si chiamava Podere degli Ubaldini e quando Firenze sconfisse questa potente famiglia di feudatari, all'inizo del Quattrocento, il nome divenne Podere Fiorentino. Nei documenti del Cinquecento si trova la dizione Capitanato di Palazzuolo accompagnata con la precisazione che il Capitano risiedeva per sei mesi qui e per altrettanti a Marradi.


Com'era Palazzuolo di Romagna? Il paese non è cambiato nella parte storica di Borgo dell' Ore e Belgrado, invece è del tutto diverso vicino al ponte sul Senio,  minato dai Tedeschi e rifatto nel dopoguerra in una diversa posizione. 


Più che le parole contano le immagini: questa qui accanto è una foto aerea scattata da un ricognitore della RAF (Royal Air Force) nel gennaio 1944 e sotto c'è il prospetto del ponte vecchio, come compare nel primo progetto di costruzione del Settecento, dell' architetto Dario Buonenove.

Ecco le vecchie cartoline: i posti sono ben riconoscibili però mancano i soggetti oggi più evidenti, cioè gli impianti sportivi con la piscina e la sistemazione delle sponde del Senio. Il motivo è che all' epoca in questi siti c'erano solo dei campi con dei filari di viti.




La cartolina più vecchia di questa raccolta ha il timbro postale del 1903 e quindi forse mostra il paese com'era alla fine dell'Ottocento.



Il Senio vicino al molino di Cecchetto, fra Palazzuolo e Quadalto, è uno dei siti tipici del paese.



Un'altro luogo tipico è il ponte vicino al molino della Badia di Susinana.



Anni Venti



Clicca sulle immagini
se le vuoi ingrandire






Anni Trenta





Salecchio è una località lungo la strada che porta a Marradi. Il campanile fu ricavato in parte dalle rovine di un castellare degli Ubaldini, demolito dai Fiorentini dopo la conquista.


Il Santuario della Madonna della neve, a Quadalto, è un antico luogo di culto. Il monastero è tuttora attivo.




I caratteri di questa didascalia sono tipici delle cartoline degli anni Cinquanta, a Palazzuolo e nei paesi vicini. Però in questo caso la foto mostra il paese prima della guerra, perché c'è ancora il ponte vecchio. 


Questa immagine non è una cartolina. Mostra una processione sul ponte vecchio sul Senio. Si vede il Palazzo dei Capitani, la chiesina di Sant'Antonio e Palazzo Filipponi, oggi Municipio.


La chiesa di Sant'Antonio (un po' malmessa) negli anni Cinquanta.




Anni Cinquanta 

















lunedì 30 novembre 2020

1340 Matteo da Marradi, Podestà di Firenze

Una difficile mediazione in una rivolta cittadina

Ricerca di Claudio Mercatali



Nei primi anni del Trecento l'economia, l'arte e la cultura fiorentina andavano a gonfie vele. In quegli anni furono portati avanti i lavori cominciati nel Duecento: la cattedrale, Palazzo Vecchio e le mura e se ne iniziarono di nuovi: il Campanile di Giotto, Orsammichele,la Loggia dei Lanzi e la Loggia del Bigallo, che sono il culmine dell'architettura gotica a Firenze.

Le Banche degli Spini, dei Frescobaldi, dei Bardi, dei Peruzzi, dei Mozzi, degli Acciaiuoli e dei Bonaccorsi prestavano denaro ad alto tasso (e ad alto rischio) ai papi di Avignone ed ai sovrani di tutta Europa, soprattutto ai re di Francia e di Inghilterra. Andava benissimo anche la manifattura della lana: si stima che quasi il 10% dei panni di lana prodotti in Italia fosse tessuto a Firenze, con grande richiesta di tinture pregiate, di porpora, di allume di rocca (un fissante per i colori) e di manodopera. Il commercio, le attività bancarie e manifatturiere si sostenevano a vicenda generando un circolo virtuoso che creava straordinarie ricchezze per alcune famiglie e reddito per il popolo minuto della città e del contado. Firenze stava diventando guida di uno Stato regionale con un territorio di influenza che andava dal  Chianti e la Valdelsa fino al Valdarno e l'Appennino, con influenza su Prato, Pistoia e Arezzo. 

Il crack finanziario

Dopo qualche anno dall’inizio della Guerra dei Cento Anni il Re Edoardo III d'Inghilterra, al quale molti banchieri fiorentini avevano prestato ingenti somme di denaro dichiarò l’insolvenza. Questo innescò una serie di fallimenti a catena disastrosi per l'economia cittadina. Nel 1311 fallirono i Mozzi e nel 1326 gli ScaliPoi tra il 1342 e il 1346 toccò a catena ai Bardi, ai Peruzzi, agli Acciaiuoli e ai Bonaccorsi. Queste famiglie cercarono di mantenere il potere che avevano e si inasprirono le contese reciproche, con il coinvolgimento della gente legata ai loro clan per interesse o per lavoro.



Nel 1340 nel corso di una di queste dispute cittadine ci fu un moto popolare contro i Bardi, accusati di tradimento verso la città per certe loro iniziative. Le cose volgevano al peggio, le spade erano sguainate ma intervenne il Podestà Matteo da Marradi e … 

Leggiamo come raccontano i fatti lo storico Emanuele Repetti (1841) e altri.

Questa qui sotto è una digitalizzazione fatta a spese dell’Università di Harvard. Gli Americani hanno memoria della loro storia solo fino al Settecento e sono affascinati dalle vicende dei secoli precedenti, specialmente quelle delle città italiane come Firenze.




Le università degli States fanno a gara per digitalizzare i documenti delle nostre Biblioteche Nazionali e per noi trasandati è una fortuna perché sennò tanti episodi come questo rimarrebbero sepolti nelle filze d’archivio per chissà quanto tempo.



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