Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

venerdì 30 giugno 2023

L'Artemisia Absinthium

L'ingrediente più importante
del liquore tanto amato dagli artisti 
di fine '800

ricerca di Claudio Mercatali 




L'Artemisia Absinthium è una pianta che ha fatto discutere per più di un secolo, perché è il componente di base dell' Assenzio, un super alcolico con effetti euforizzanti. La pianta si trova anche nella nostra zona ma è rara. A scanso di equivoci è bene chiarire che con essa si prepara l'Assenzio solo per distillazione assieme a una varietà di foglie e fiori officinali, come fece la Ditta Pernod che lo mise in commercio su scala industriale. I tentativi di farlo in casa sono destinati al paciugo, all' intruglio e dunque all' insuccesso.



L’assenzio è una specie di droga? E' un distillato con 50° e anche di più, derivato dai fiori e dalle foglie di Artemisia, Melissa, Issopo, Dittamo e altre, aromatizzato all’ anice. Fu creato da Pierre Ordinaire, un medico francese rifugiato in Svizzera nel 1792 per sfuggire alla Rivoluzione francese, e a suo dire era un toccasana. Poi la ricetta brevettata venne ceduta alla ditta Edouard Pernod, che lo commercializzò in gran quantità.



Il liquore era di moda nella seconda metà dell' Ottocento negli ambienti degli artisti parigini. In seguito il suo uso si estese a chi poteva permettersi un passaggio ai Caffé cittadini con gli amici, verso sera dalle 17 alle 19 a sorseggiare la Fée verte (la fata verde) nome derivato dal colore del liquore.

Il vero assenzio, come questo, contiene l’artemisia. Dicono che faccia marcire il cervello, ma io non lo credo. Fa solo deviare i pensieri. La regola è di versarci dentro lentamente l’acqua, a gocce, ma io ho versato il liquore nell’acqua.
(Ernest Hemingway, Per chi suona la campana)

La storia della pianta, dell'invenzione del liquore e del suo uso è ben descritta in questo articolo di Laura Francolini, esperta in questo argomento e dunque non ci rimane che leggerlo per essere edotti dei fatti:


Niente di più poetico
di Laura Francolini

"Un bicchiere d'assenzio, non c'è niente di più poetico al mondo. Che differenza c'è tra un bicchiere di assenzio e un tramonto? Il primo stadio è quello del bevitore normale, il secondo quello in cui cominciate a vedere cose mostruose e crudeli ma, se perseverate, arriverete al terzo livello, quello in cui vedete le cose che volete, cose strane e meravigliose".     Oscar Wilde

Storia antica e travagliata, quella del legame fra il genere umano e l'Artemisia absinthium. Il suo gusto amarissimo le ha regalato nel tempo la nomea di pianta maledetta. Le prime maldicenze su questo arbusto si incontrano nella Bibbia. Plinio il Vecchio, nel I secolo d.C., racconta che i campioni nelle corse delle bighe bevevano una tazza di vino con foglie di assenzio per non dimenticare il lato amaro della gloria. Nei secoli seguenti l'attenzione verso questa specie fu legata anche al suo impiego esoterico. Si diceva che portare un rametto nella bisaccia attenuasse la fatica del viaggio, scacciasse i demoni e il malocchio.

A fine '700 un medico francese creò un tonico, miscelando erbe delle valli svizzere ed alcol e i suoi eredi avviarono la produzione.


Inizialmente la distilleria Pernod produsse un elisir medicinale così credibile da essere adottato dall’esercito francese. I soldati, inviati in Algeria durante le spedizioni coloniali, curavano la dissenteria diluendo una dose di Absinthe in acqua, credendo inoltre di disinfettare così le acque malsane.
L’abitudine di bere questa bevanda ne fece conoscere gli effetti inebrianti, ed al rientro delle truppe in patria la diffusione fu rapida. La sorte di questa bevanda fu segnata da un altro evento: la filossera. Questo parassita colpì le radici della Vitis vinifera e distrusse quasi tutti i vigneti d'Europa. mentre si cercava una soluzione, trovata poi nell’innesto della vite europea sulla americana, immune alla filossera, molte distillerie avviarono la produzione di liquori chiamati Absinthe e mescolarono nel loro liquore solfato di rame ed alcol di grano.
L'assenzio così prodotto, anche se tossico, divenne un economico surrogato del vino o dei liquori per le classi più povere. L'assenzio prodotto dalla Pernod rimase destinato al ceto benestante, ed il suo uso come aperitivo si diffuse in tutta Europa.


La metà del XIX secolo segna l'età dell' oro per l'assenzio, e nacquero i riti per la somministrazione e le leggende sui suoi effetti. I grandi artisti dell' epoca, frequentatori assidui del sottobosco culturale parigino, si innamorarono di questa bevanda e contribuirono alla sua diffusione. Baudelaire, Rimbaud, Degas, manet, Van Gogh, Verlaine, Wilde, Lautrec... tutti stregati dalla Fée Verte (fata verde). 


A fine '800 il governo francese avviò una serie di campagne di informazione, individuando nell'assenzio la principale causa dell' alcolismo e del degrado morale ad esso legato. Nel 1914 la Francia proibì la produzione e la vendita dell'assenzio e nel 1939 anche l'Italia seguì il suo esempio, non prima che il signor Rossi di Montelera brevettasse il suo famoso Vermuth Martini. 

Un manifesto svizzero del 1910 che reclamizza il divieto di commerciare l'Assenzio nella Confederazione Elvetica.



L'Artemisia è uno degli aromatizzanti del vino di lusso italiano di nome Vermut.





Il nome russo dell' assenzio, guarda caso, è Chernobyl: la citazione biblica nell' Apocalisse è stata ricordata dopo la nota tragedia nucleare, rinnovando il mito di una pianta maledetta.                                                     

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Com'è fatta l'Artemisia? E una pianta a cespuglio, verde chiaro, alta e larga almeno un metro, di portamento arbustivo, come si vede qui accanto. Quando era piccola l'ho scansata per caso con il decespugliatore, perché mi era parsa diversa dalle altre e di bell' aspetto. Poi un amico botanico  l'ha vista e ha puntato il dito da lontano: "quella è l'Artemisia Absinthium! E' rara qui da noi, tienila di conto". 



Fonti


Laura Francolini, esperta in grafica, consulente in comunicazione ambientale, gastronoma, viaggiatrice. Mizio Ferraris, botanico, divulgatore scientifico, esperto in educazione ambientale, scrittore, viaggiatore.


sabato 24 giugno 2023

Saluti da Crespino sul Lamone

Una raccolta di vecchie cartoline
ricerca di Claudio Mercatali



Ci sono molte cartoline vecchie di Crespino. E' chiaro che diversi crespinesi presero l'iniziativa di stamparle: il Ristotante La Ginestra, la tabaccheria di Cesarino, il bar e forse qualche associazione. Il paese fu rappresentato in ogni suo scorcio, e spesso nelle cartoline compare la scritta "saluti da".






L'idea di pubblicare delle cartoline con i saluti cominciò presto. Questa è una cartolina spedita nel 1907. Inquadra il ponte di ferro (ora è di cemento). Il fotografo per un migliore effetto aspettò il passaggio del treno, che allora era una novità qui.






Il paese sorse nel medioevo attorno a un monastero vallombrosano dell'anno Mille, uno dei più antichi della zona.



E' noto anche per la cascata di Valbura, citata dagli storici e rappresentata nelle stampe del Settecento.









La Ginestra era un ristorante all'inizio della strada che porta alla chiesa, meta di tanti buongustai soprattutto per i tortelli.


Assieme a Casaglia è stato meta di tanti trekking e tuttora i suoi sentieri sono abbastanza trafficati.




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In queste foto del 1955 si vede il ponte della ferrovia in costruzione. In origine era di ferro ma fu minato dai Tedeschi e ricostruito in cemento armato.













domenica 18 giugno 2023

Campana, Orazio e Bel Ami

ovvero Marradi 
angolo che ride

Leonardo Chiari



Quando pensiamo al rapporto tra Dino Campana e Marradi, il suo paese d’origine, ci viene subito in mente qualche parola come “difficile” o “conflittuale”; per non dir di peggio. Può anche darsi che l’idea di un Campana odiato dal suo paese che lo chiamava “e màt” e gli tirava i sassi sia un po’ esasperata; magari enfatizzata da quei giornalisti, in primo luogo Sebastiano Vassalli, che a Marradi, sulle tracce del poeta, non si erano poi trovati così bene; e per ripicca spararono sui marradesi. 

È innegabile, tuttavia, che il rapporto tra Campana e il suo paese natale sia, quantomeno, “difficile”: è lui stesso a dircelo. Certo non è facile capire in cosa consistesse, esattamente, questa difficoltà di rapporti (anche i biografi tentennano). 

Per esempio bisogna ricordare i 44 sottoscrittori che aiutarono il poeta a far pubblicare il suo capolavoro, i Canti Orfici, proprio a Marradi, nel 1914. E i marradesi presenti nei Canti Orfici? C’è «Catrina» (romagnolo per “Caterina”), una fanciulla di Campigno, contadina, che seduce la fantasia di Campana che la paragona a una specie di madonna di Dante e dello Stilnovo. C’è la «bona gente» di Orticaia (Gamberaldi) che lo accoglie, pare, dolcemente al termine del suo pellegrinaggio a La Verna. Ma siamo pur sempre nei confini, nelle frazioni, come Campigno e Gamberaldi; degli abitanti di Marradi “centro” non si parla; oppure se ne parla, nelle lettere, ma di certo non in modo edificante: ad esempio, è lo stesso poeta a dirci che quella famigerata dedica a «Guglielmo II Imperatore dei Germani» la aggiunse nei Canti Orfici per «far dispetto al farmacista al Sindaco all’arciprete».

Date queste premesse, sembrerebbe che il poeta di Marradi non amasse particolarmente il suo paese. Eppure quando parla di Marradi, come ne La Verna, Marradi (Antica volta. Specchio velato), tutto è ridente, ride tutto: «Il mattino arride sulle cime dei monti» (un verso rifatto forse sulla traduzione di uno del Romeo e Giulietta di Shakespeare: «il mattino sulla cima dei bruni monti sorride»); il Castellone ride; stando a un’altra versione, si legge: «Il vecchio castello che ride sereno sull’alto»; il campanile di Marradi ride: «Una cupola rossa ride lontana con il suo leone»… insomma: a Marradi ride tutto; o meglio ridono gli elementi naturali e architettonici. Si obietterà che in questo ritratto di Marradi si fornisce una veduta aerea, dall’alto, cioè non si scende in paese, e soprattutto non vi sono i marradesi, a parte una «Venere», chissà chi è, che «passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale».


Marradi


Il vecchio castello che ride sereno sull’alto
La valle canora dove si snoda l’azzurro fiume
Che rotto e muggente a tratti canta epopea
E sereno riposa in larghi specchi d’azzurro:
Vita e sogno che in fondo alla mistica valle
Agitate l’anima dei secoli passati:
Ora per voi la speranza
Nell’aria ininterrottamente
Sopra l’ombra del bosco che la annega
Sale in lontano appello
Insaziabilmente
Batte al mio cuor che trema di vertigine.



Marradi
(Antica volta. Specchio velato)

Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cuspidi di un triangolo desolato si illumina il castello, più alto e più lontano. Venere passa in barroccio accoccolata per la strada conventuale. Il fiume si snoda per la valle: rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchi d’azzurro: e più veloce trascorre le mura nere (una cupola rossa ride lontana con il suo leone) e i campanili si affollano e nel nereggiare inquieto dei tetti al sole una lunga veranda che ha messo un commento variopinto di archi!



Quello che voglio sostenere, però, è che l’immagine di Marradi che ride viene proprio da un marradese, che noi di Marradi conosciamo bene: Anacleto Francini, che di “riso” se ne intendeva. Commediografo, showman, giornalista, paroliere, autore della canzone Creola, Anacleto Francini, in arte “Bel Ami”, è stato un amico di Campana, tanto che quest’ultimo, in una lettera del 1915, lo raccomanda a Papini. Il poeta aveva persino recitato, nel Teatro Animosi, in ben due commedie di Bel Ami.

Ebbene, il 1° Aprile 1906 Anacleto Francini aveva pubblicato, sul Corriere della Romagna Toscana, una lunga poesia intitolata Marradi. Si tratta di un componimento di 48 versi, in strofe saffiche (3 endecasillabi e 1 quinario), di gusto carducciano (viene in mente Piemonte di Carducci).



Marradi

Ille terrarum mihi praeter omnes Angulus ridet…Hor.
(Quell’angolo di terra pù di ogni altro mi sorride … Orazio)


Da l’onda, specchio nobile di gelsi,che si dissolve in cascatelle argute,
emergon, ricchi di vigneti, i colli
del mio paese.

Fumano ne la stanca opra dïurna,
pei maggesi odorati di ginestra
i bianchi bovi; un fioco scampanìo
giunge col vento.

E van le chiostre dei selvaggi monti

via digradando in fosche lontananze,
e l’ardue schiene curvano a la furia
degli aquiloni

che esercitano i tuoi ruderi informi,
vecchio castello, su cui tanta il tempo
ala distese, pallido fantasma
di medio evo.

Ma tu ricordi quando alle Scalelle,
fiero insorgendo al mercenario insulto,
da le sudate glebe erse la fronte
il montanaro,

e a mezzo solco abbandonato il curvo
aratro, in lancia trasmutò la marra,
e il castaneo flaüto silvestre
in oricalco.

Scagliò agli eccelsi vertici il solenne
vindice grido, e le vendute schiere
el Conte Lando attese al varco,
come tigre in agguato.

Allor si franse a l’improvviso assalto
l’ira de l’empie torme e la baldanza,
e giacque: un raggio livido di sole
come uno scherno

illuminò le fuggitive terga
fra’l tuon de’ tronchi e de’ macigni immani,
come valanghe, ne le valli fonde
precipitanti.

Or quei monti una mite aura di pace
recinge, e i campi ove biondeggia il giugno;
ne la gloria del sole aureo sorride
Cerere amica,

lieta pei boschi e l’ubertose valli,
tra l’ondeggiar de’ clivi e dei frumenti,
e i verdi paschi, e i placidi meandri
del mio Lamone;

e nei solcati colli ove la spica
cresce nudrita dal sudore umano,
palpita eterno il canto de la vita
e del lavoro.


Il cuore della poesia (vv. 17-36) è dedicato alla celebre battaglia delle Scalelle, quando i contadini marradesi, il 25 luglio 1358, sconfissero il Conte Lando e le sue schiere di mercenari. Anacleto Francini si rivolge, in un bellissimo endecasillabo, direttamente al “Castellone”: «Ma tu ricordi quando alle Scalelle…» (v.17). Ed ecco, nel racconto della battaglia, lo stile s’innalza, sfiorando le vette dell’epica. C’è anche, incastonato nei versi, un accenno all’origine del nome “Marradi”, che probabilmente viene da “marra”, cioè una piccola zappa con ferro triangolare: «in lancia trasmutò la marra» (v. 22): il soggetto è il montanaro che trasforma la sua zappa in una lancia da scagliare in testa al Conte Lando. Inoltre, subito dopo, c’è un richiamo a un altro emblema di Marradi, il castagno: questa volta è il «castaneo flaüto silvestre», con cui i contadini marradesi si trastullavano bucolicamente, a essere tramutato in strumento bellico, l’«oricalco», cioè la tromba di guerra.

Ma torniamo a Marradi che ride. Vi sono diversi indizi che Campana conoscesse questo componimento. Senza entrare troppo nei tecnicismi, Marradi di Francini si apre con l’immagine dell’acqua - specchio, un’ immagine che è anche in Marradi (Antica volta. Specchio velato) di Campana. Francini chiama il Castellone: «Vecchio castello»; e così fa anche Campana quando scrive, nei suoi appunti del Quaderno, «Il vecchio castello che ride sereno sull’alto». In Francini c’è «ne la gloria del sole aureo sorride Cerere amica» (Cerere è la dea dei campi) e in Campana: «traspare il sorriso di Cerere bionda» (siamo nel diario de La Verna). Entrambe le «Cerere» dei due poeti sorridono. Per la verità, vi sono tanti altri dati che fanno sospettare che Campana, almeno quando scriveva di Marradi, avesse in mente proprio la poesia Marradi dell’amico Anacleto Francini; ma per ora fermiamoci qui.


Vorrei invece attirare l’attenzione su un altro dettaglio. Intanto vale la pena ricordare che «il vecchio castello» e la «cupola rossa» di Campana ridono anche perché hanno una porta (un arco, una volta) che nel poeta suggeriscono l’immagine di un volto sorridente. Ma c’è un dettaglio interessante, dicevo, nella poesia di Bel Ami. In epigrafe, sotto il titolo Marradi, si legge infatti una citazione del poeta latino Orazio: «Ille terrarum mihi praeter omnes / Angulus ridet…» (Odi, II, 6, vv. 13.14) che in italiano si può tradurre con “quell’angolo di terra mi sorride più di qualunque altro”. Anche qui c’è il riso. Orazio parlava delle colline vicino a Taranto; Anacleto Francini, Bel Ami, che cita Orazio, parlava, chiaramente, di Marradi. In realtà la locuzione di Orazio «Angulus ridet» era già al tempo di Francini quasi proverbiale per denotare un luogo appartato, naturale, lontano dal caos cittadino, che ride, cioè rende felici (per chi sa goderselo). Marradi era questo per Bel Ami. Sarà stato così anche per il suo amico Campana?

lunedì 12 giugno 2023

Dino Campana parla di noi

I Marradesi negli scritti
di Dino Campana.

Ricerca di Claudio Mercatali



Ecco qui di seguito un elenco di marradesi citati in vario modo da Dino Campana, nei Canti Orfici o in qualche altro scritto.



Federico Consolini, avvocato, sindaco e poi podestà, nel 1912 era iscritto alla facoltà di farmacia dell’Università di Bologna, poi passò alla facoltà di legge a Urbino. Dall’archivio storico dell’Alma Mater risulta l’unico marradese iscritto a un corso con frequenza all’Istituto di chimica Ciamician, dove quell’anno studiava il poeta. Per questo è il marradese così descritto nella prosa “La giornata di un nevrastenico”: … Poi ho incontrato uno del mio paese e riodo le grida degli sciacalli urlanti che mi attendono ancora lassù. (Udiste voi nell'ora della terribile angoscia la folla gridare barabba barabba; vedeste barabba guardare su voi con lo stesso disprezzo del vostro segretario comunale?). Veramente non posso suicidarmi senza essere vigliacco. E poi oramai ...




Pietro Costa,
"l'uccellino" che compare nel Viaggio a La Verna era il figlio invalido della padrona di Orticaia, un podere di Marradi amato da Dino Campana. Di certo fece compagnia al poeta mentre scriveva, tanto da essere amorevolmente descritto.



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Francesco Ravagli,
professore di lettere al liceo di Cortona (Arezzo) e poi a Carpi (Modena) destò l'ammirazione del Poeta ed era fratello di Bruno Ravagli, lo "stampatore dei Canti Orfici". Fu lui a fondare la Tipografia Ravagli, attiva prima a Cortona, poi a Carpi (Modena) e infine a Marradi.

Bruno Ravagli, che stampò i Canti Orfici, sopportò tante sfuriate di Dino e si meritò una dedica in inglese nel libro. 




La storiografia lo descrive come un povero tipografo di paese, ma in realtà era diplomato all' Accademia d'Arte di Perugia e aveva un vivo senso artistico, come si vede qui sopra.



Il farmacista e il sindaco sono citati assieme all'arciprete in una dedica su una copia dei Canti Orfici. Dino in paese aveva sentito una loro aspra critica all' imperatore di Germania Guglielmo II che nel 1914 era un nemico ma per Campana era ammirevole, tanto da dedicare a lui i Canti Orfici. La dedica ha il sottotitolo «Die Tragödie des letzten Germanien in Italien» ossia la tragedia dell’ultimo dei germani in Italia frase enigmatica forse riferita a sé stesso, sulla quale i critici si sono a lungo arrovellati.


L'arciprete Luigi Montuschi
compare negli scritti campaniani anche in un appunto del 1916, molto aspro ...






Luigi Bandini, professore di lettere a Formia e amico del poeta, si fece promotore della famosa raccolta di denaro fra 44 marradesi, che consentì la stampa della prima edizione dei Canti. Proprio nel 1914 fu eletto consigliere comunale.




Camillo Fabroni
era uno dei 44 promotori della raccolta di denaro per la pubblicazione dei Canti Orfici. Compare come testimone in calce al contratto di stampa, assieme a Luigi Bandini. Era proprietario del palazzo che dà su via Fabroni, con lo stemma in pietra all’angolo di via Fabbrini. Persona bonaria e disponibile, i suoi amici gli diedero il nomignolo Camìll de sas, inteso che il sasso era lo stemma del suo casato sulla facciata.




Mimma era la cugina del poeta, ragazzina all'epoca d'oro campaniana, descritta dal prof. Federico Ravagli impegnata a convincere il poeta a leggere qualche poesia in inglese o in francese.




Iori
ossia Iole Rivola, era una maestra di Marradi che forse ebbe una dolce simpatia per il poeta che le regalò una copia dei Canti Orfici con la dedica A Iori occhio di sole. Morì di tubercolosi nel 1928 ma sua sorella Nella gestì una cartoleria a Marradi fino agli anni Sessanta.


Catrina "figlia selvaggia della conca dei venti ..." a dire del poeta era una contadina di Campigno descritta minuziosamente del Ritorno del Viaggio a La Verna "… forse dimentica dell'amore del poeta", cioè del fatto di non aver preso in considerazione qualche advances. Dalla anagrafe storica nel periodo 1884 – 1896 risultano nate a Campigno solo Caterina Gamberi e Caterina Neri. Per un complesso di motivi che sarebbe lungo descrivere qui la prima ha più probabilità di essere la persona descritta dal poeta.



Olimpia
è la protagonista della poesia Arabesco Olimpia, scritta nel 1916. Il medico Carlo Pariani chiese al poeta chi fosse e lui rispose: “... Un ricordo d’infanzia, la figlia di un droghiere svizzero che stava a Marradi”

Dall’anagrafe e dagli elenchi dei commercianti di Marradi risulta che l’unico droghiere con una figlia con quel nome era Salvatore Matteuzzi. Olimpia fece la postina per tanti anni a Casaglia.




Bianca Fabbroni Minucci, pittrice, proprietaria di una villa a Gamberaldi di Marradi, ospitò il Poeta nella sua casa di Livorno dal maggio 1916 al successivo 23 giugno. Gamberaldi è un sito in cui Campana soggiornava volentieri, ospite i amici di famiglia.

Dunque sono almeno quattordici i marradesi chiaramente identificabili. Non sono molti i poeti del Novecento dai quali affiorano così tante persone del proprio paese natale.



lunedì 5 giugno 2023

Il primo bombardamento di Marradi: 5 giugno 1944

La testimonianza 
del partigiano 
Giuseppe Tarchiani
ricerca di Luisa Calderoni  





Il partigiano Giuseppe Tarchiani di 19 anni, dopo l'8 settembre, fuggì da Firenze e si aggregò ad un gruppo di partigiani che operavano sulle pendici del Monte Morello, verso il Mugello. Dopo varie peripezie e colpi di mano e di sabotaggio alla Todt, anche per procurarsi armi e materiale, il gruppo di Giuseppe giunse a Pian degli Arali, in attesa del trasferimento verso il Falterona. Ma i Tedeschi insieme ai fascisti, li attaccarono nottetempo.


Giuseppe rimase gravemente ferito al torace e al polmone da un colpo di arma da fuoco. I compagni rimasti con lui raggiunsero Marradi e portarono sui monti, per ben due volte, e dopo una camminata di 4 ore, il dottor Pratesi. Ma le condizioni di Giuseppe erano così gravi che i compagni decisero di trasportarlo a Marradi con varie tappe: prima ai Fanghi, poi a Campigno, poi al mulino della Trappola, al ponte di Camurano presso la famiglia Zacchini e infine al casello ferroviario di Biforco.

Il casello ferroviario di Biforco 
all' epoca dei fatti.



Qui fu visitato dal dottor Poloni, direttore dell'ospedale San Francesco di Marradi il quale dichiarò che solo all'ospedale avrebbe potuto curare Giuseppe perché, a causa delle spie, non sarebbe più potuto tornare al casello di Biforco. Così il 10 maggio, Giuseppe, nascosto fra i sacchi di un carro del mugnaio Montuschi di Biforco, fu portato all'ospedale di Marradi. Qui fu ricoverato ufficialmente come malato di pleurite e affidato alle cure del dottor Poloni e degli infermieri Emilia Cavina, Tonino e Pietro.


Iniziò la lenta guarigione...


L'Ospedale San Francesco di Marradi al tempo della guerra.




Da “La scelta di Beppe”, diario di un partigiano delle brigate Lanciotto e Ciani, pag 61-62.

“Durante le medicazioni alla ferita, nell' apposita stanzetta, il dottor Poloni approfittava per informarmi benevolmente dell' andamento della guerra, che in quel momento era in movimento per lo sbarco alleato in Normandia e la liberazione di Roma. (…). Tuttavia la mia condizione irregolare era sempre una minaccia incombente. Una mattina un giovane ben vestito venne al mio letto e, dicendosi inviato del CNL, volle sapere i particolari della mia storia. Io, ingenuamente fiducioso, gli raccontai in parte le mie peripezie, pur rendendomi conto, ad un certo punto, che qualcosa non quadrava. Quando il giovane fu uscito, l'infermiere Pietro mi venne a dire, allarmato, che quel tale era venuto con una macchina dei Carabinieri.

(…) Dopo un mese di ospedale non avevo ancora potuto cominciare ad alzarmi.

Dovetti forzatamente, e all'improvviso, rimettere i piedi in terra quel giorno di giugno in cui un cupo ronzio di aeroplani si fece ad un tratto più potente, in un crescendo pauroso, fino ad assumere l'intensità di cento sirene. Allora piovvero bombe a grappoli dalla parte del ponte della ferrovia, fino a sfiorare l'ospedale, dove, per lo spostamento d'aria, fui sbalzato sul pavimento, mentre le vetrate si infrangevano e un denso polverone si spandeva velocemente. Rialzatomi, mi risultò impossibile camminare, a causa dell'atrofizzazione delle articolazione dei piedi, e solo con grande dolore alle caviglie potei trascinarmi a braccia in cantina, seguendo gli altri, in una terribile confusione.


Marradi, giugno 1944 i danni del bombardamento nei pressi dell' Ospedale.

Questa è Via Roma, oggi via Dino Campana. Sullo sfondo si vede il viadotto ferroviario di Villanceto colpito dalle bombe.


Cessato l'allarme, con sforzo uscii in giardino per vedere il disastro del bombardamento. C'era un ciliegio carico e non potei trattenermi dal mangiare quei frutti rossi e turgidi che potei raggiungere. Intanto il paese era sconvolto e straziato per le gravissime perdite e per le distruzioni. In poco tempo la stanza mortuaria dell'ospedale si riempì di cadaveri impolverati, mutilati, sanguinanti. Mi colpì la vista di bambini, che, bianchi di polvere, sembravano statue.


L' ospedale colpito dovette trasferirsi, con tutti i ricoverati ed i feriti dal bombardamento, al monastero di Quadalto, oltre Palazzuolo di Romagna.”








Anche Giuseppe fu trasferito a Quadalto e una volta ristabilitosi, raggiunse le formazioni partigiane che operavano sull'Appennino. Ma, a causa delle sue precarie condizioni di salute non poté fare altro che superare le linee alleate e rientrare a Firenze.

Qui, in tempo di pace, riprese la sua attività ed ebbe  anche il piacere di incontrare di nuovo il dottor Pratesi che, con la sua abnegazione e con grave rischio personale, lo aveva curato sui monti salvandolo da morte certa.