Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

lunedì 12 dicembre 2016

Le biotecnologie


La tecnologia "al servizio"
dell' uomo.
Sintesi da Roberto Defez e altri


Le biotecnologie sono tecniche che sfruttano i viventi per produrre sostanze utili per noi, specialmente cibi. Il termine è ampio e comprende molte cose.

Le prime biotecnologie si svilupparono in tempi preistorici sfruttando i batteri fermentatori.

Secondo il mito greco in un secolo lontano e imprecisato Icario, istruito da Bacco, ottenne il vino dall’ uva. Offrì la sua bevanda ai vicini, che credettero di essere stati avvelenati e lo riempirono di botte. Oggi sappiamo che la fermentazione del mosto ad opera dei funghi saccaromiceti produce alcool, fino a una percentuale di 15 – 20% oltre la quale i funghi muoiono. L’arte della vinificazione, l’enologia, è una delle prime biotecnologie e comprende anche la produzione dell’aceto, che deriva dal vino ad opera dell’Acetobacter aceti.



La Mezzaluna fertile è la regione del Medio Oriente nella quale si ritiene che sia nata l'agricoltura. Oggi fa parte di diversi stati, come si vede qui accanto.


In tempi altrettanto remoti l’uomo scoprì che il latte opportunamente fermentato può dare il formaggio. Tutti i formaggi esclusi i latticini sono prodotti dalla fermentazione lattica provocata da flore fungine e batteri. L’arte casearia è dunque millenaria. A Gorgonzola, paese della Lombardia, un mio amico mi dice spesso che “il formaggio è maturo quando cammina da solo nel piatto” per dire che deve essere fermentato al massimo. Siccome i batteri fermentatori e i microscopici funghi ascomiceti gradiscono ambienti oscuri, umidicci e non molto freddi, una tecnica casearia ben nota sfrutta le grotte per far maturare il formaggio. Anche il burro è frutto di una fermentazione, detta butirrica, e lo yogurt è prodotto dai fermenti lattici e dal batterio Lactobacillus bulgaricus.


Però le biotecnologie che ci interessano ora e ci preoccupano sono quelle che modificano il patrimonio genetico di un organismo. Anche qui i casi sono tanti e occorre distinguere:



Le mutazioni avvengono in natura anche senza l’intervento dell’uomo, perché il DNA al momento della replicazione può subire degli errori. Se l’errore non è grande il DNA rimane funzionale e il nuovo organismo nasce con una caratteristica nuova, vantaggiosa, svantaggiosa o indifferente per la sua lotta per l’esistenza. Nelle piante avvengono mutazioni anche quando il polline di una pianta feconda un’altra simile. E’ una possibilità che nel regno animale non c’è perché la fecondazione avviene solo fra individui della stessa specie, salvo casi eccezionali che danno individui sterili.




Per esempio il grano che seminiamo oggi ha un patrimonio genetico esaploide, che indica una mescolanza genetica multipla. Forse un nostro antenato seminò in due campi vicini il frumento selvatico e l’erba per le capre, che sono piante geneticamente simili. Egli si accorse così che dal loro incrocio era nata una pianta nuova, il farro. Dall’incrocio del farro con un’altra erba si ottenne per via naturale il frumento detto grano tenero.


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Le aziende sementiere fino a una cinquantina di anni fa usavano continuamente questi metodi, cercando di impollinare specie simili per ottenere varianti utili. Si ottenne  in questo modo il grano detto Senatore Cappelli, che ha sfamato gli Italiani nella prima metà del Novecento.


Fin qui siamo ancora fra le cose che possono avvenire in natura. Adesso andiamo alle tecniche biogenetiche non naturali, indotte dall’ uomo artificialmente:


Si possono provocare modifiche genetiche irraggiando i semi con raggi X (quelli delle radiografie) o con gli ultravioletti, perché si sa che le radiazioni aumentano la frequenza delle mutazioni. Per sapere che cosa si è ottenuto occorre seminare e osservare se sono nate delle piante in qualche modo migliori di quelle non irraggiate. Fu così che negli anni Cinquanta gli agronomi Alessandro Bozzini e Carlo Mosconi ottennero il grano Creso dal grano Senatore Cappelli.



Gli agronomi degli anni Cinquanta erano orgogliosi delle nuove varietà di grano
irraggiato a paglia corta. Allora non si conoscevano tutti i pericoli
della radioattività.



Creso era un mitico e ricchissimo re della Lidia (regione della attuale Turchia) e il nome voleva sottolineare che questo nuovo grano aveva un chicco più produttivo, una paglia più corta e più resistente al vento e una maggiore resa per ettaro. Oggi il Senatore Cappelli è un grano raro e al suo posto da quaranta anni e più si coltiva il Creso che è un OGM propriamente detto. Dunque  noi nella vita abbiamo mangiato quasi sempre sfarinati e pani prodotti con una pianta geneticamente modificata, e nessuno ce l’ha mai detto.

Dagli anni Cinquanta la genetica ha fatto passi da gigante 
e le tecniche sono migliorate (o peggiorate) parecchio:


 Werner Arber

Nel 1978 il biologo Americano Werner Arber ottenne il Nobel per la scoperta degli enzimi di restrizione, che spezzettano il DNA in corrispondenza di certe sequenze e consentono ottenere tanti pezzi di DNA batterici da iniettare in altri organismi. Una ventina di anni fa iniettando dei frammenti di Batterio Turingiensis nei fiori o nei semi del mais si ottenne il mais BT  che ha nel DNA una tossina mortale per gli insetti come la piralide ghiotta di chicchi di granoturco. 

La multinazionale californiana Monsanto aveva il brevetto per il mais BT, o Monsanto 810 e mantenne il segreto industriale (la legge americana tutela i brevetti solo per vent’anni). In questo tempo il Monsanto 810 fu venduto in mezzo mondo, e oggi ormai il granturco non OGM  è raro. Il fatto ci riguarda molto, anche se siamo dei consumatori occasionali di polenta o pop corn, perché dalle farine di granoturco si fanno i mangimi. Un’altra pianta modificata per via  genetica è la soia, importantissima per l’ottima qualità dell’ olio che se ne ricava e per i mangimi che si ottengono dalla lavorazione degli scarti. Oltre a questi si può ricavare il cosiddetto latte di soia e soprattutto la lecitina di soia, un emulsionante e aggregante presente nella maggior parte degli alimenti, anche nella cioccolata.
Il seme di soia di per in sé avrebbe un consumo limitato, anche se oggi è di moda, ma si calcola che quasi la metà dei nostri cibi contenga qualche derivato della soia.


Ci sono enormi estensioni coltivate a soia, soprattutto nell’America Meridionale. La piantina, alta mezzo metro, soffre la presenza delle erbacce infestanti e quindi il problema ora non è dovuto agli insetti come per il mais ma al proliferare di erbe inutili che limitano la produttività e aumentano la spesa per la mietitura. 


La richiesta di soia è così grande che in Brasile e in Argentina si seminano campi enormi. Se non c'è nemmeno un filo di erbaccia un motivo ci sarà ...


Prima degli anni Novanta i bellissimi campi di soia senza erbacce erano ottenuti con il diserbante Glifosate, usato diluito, sparso più volte, perché colpisce tutte le erbe e se è concentrato fa seccare anche la soia. Da qui viene un costo di produzione notevole. Il Glifosate, brevetto Monsanto, è tuttora l’erbicida più usato al mondo e ha diverse qualità: penetra poco nel terreno e quindi è poco inquinante e la sua molecola è instabile, cioè si disgrega in poco tempo. E poi soprattutto è aggredito dai batteri del terreno. Da qui l’idea dei genetisti: con il solito metodo degli enzimi di restrizione si ottennero dai batteri del terreno i frammenti di DNA che portavano il carattere “resistente al glifosate” e vennero iniettati nei fiori e nei semi della pianta. In che modo si può iniettare un materiale transgenico?


Ci sono diverse tecniche:
1) si può usare un batterio vettore, che entra nella pianta.
2) si può fare una micro iniezione.
3) si può usare una “gene gun”, una pistola genica ad aria compressa che spara nella pianta i frammenti di DNA sparsi in una polvere di titanio o d’oro, che forano le membrane del seme bersaglio. E’ un sogno o un incubo?

Non si potrebbero obbligare i produttori a dichiarare sulle confezioni
 se l’alimento è transgenico?

Si potrebbe ma siccome la modifica genetica riguarda solo una piccola porzione di DNA che non fa cambiare il fenotipo, la pianta è del tutto uguale a quella non modificata. Dunque la dichiarazione darebbe poche garanzie. Anche i cartelli “Territorio libero da OGM”  hanno un significato ambiguo, perché nessuno può garantire che i semi siano naturali.

Lo scenario è questo, ricco di prospettive ma anche inquietante, a seconda della sensibilità di ognuno.

Bibliografia per approfondire: Roberto Defez, Il caso OGM


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