La testimonianza
del partigiano
Giuseppe Tarchiani
ricerca di Luisa Calderoni
Il partigiano Giuseppe Tarchiani di 19 anni, dopo l'8 settembre, fuggì da Firenze e si aggregò ad un gruppo di partigiani che operavano sulle pendici del Monte Morello, verso il Mugello. Dopo varie peripezie e colpi di mano e di sabotaggio alla Todt, anche per procurarsi armi e materiale, il gruppo di Giuseppe giunse a Pian degli Arali, in attesa del trasferimento verso il Falterona. Ma i Tedeschi insieme ai fascisti, li attaccarono nottetempo.
Giuseppe rimase gravemente ferito al torace e al polmone da un colpo di arma da fuoco. I compagni rimasti con lui raggiunsero Marradi e portarono sui monti, per ben due volte, e dopo una camminata di 4 ore, il dottor Pratesi. Ma le condizioni di Giuseppe erano così gravi che i compagni decisero di trasportarlo a Marradi con varie tappe: prima ai Fanghi, poi a Campigno, poi al mulino della Trappola, al ponte di Camurano presso la famiglia Zacchini e infine al casello ferroviario di Biforco.
Il casello ferroviario di Biforco all' epoca dei fatti.
Qui fu visitato dal dottor Poloni, direttore dell'ospedale San Francesco di Marradi il quale dichiarò che solo all'ospedale avrebbe potuto curare Giuseppe perché, a causa delle spie, non sarebbe più potuto tornare al casello di Biforco. Così il 10 maggio, Giuseppe, nascosto fra i sacchi di un carro del mugnaio Montuschi di Biforco, fu portato all'ospedale di Marradi. Qui fu ricoverato ufficialmente come malato di pleurite e affidato alle cure del dottor Poloni e degli infermieri Emilia Cavina, Tonino e Pietro.
Iniziò la lenta guarigione...
L'Ospedale San Francesco di Marradi al tempo della guerra.
Iniziò la lenta guarigione...
L'Ospedale San Francesco di Marradi al tempo della guerra.
Da “La scelta di Beppe”, diario di un partigiano delle brigate Lanciotto e Ciani, pag 61-62.
“Durante le medicazioni alla ferita, nell' apposita stanzetta, il dottor Poloni approfittava per informarmi benevolmente dell' andamento della guerra, che in quel momento era in movimento per lo sbarco alleato in Normandia e la liberazione di Roma. (…). Tuttavia la mia condizione irregolare era sempre una minaccia incombente. Una mattina un giovane ben vestito venne al mio letto e, dicendosi inviato del CNL, volle sapere i particolari della mia storia. Io, ingenuamente fiducioso, gli raccontai in parte le mie peripezie, pur rendendomi conto, ad un certo punto, che qualcosa non quadrava. Quando il giovane fu uscito, l'infermiere Pietro mi venne a dire, allarmato, che quel tale era venuto con una macchina dei Carabinieri.
(…) Dopo un mese di ospedale non avevo ancora potuto cominciare ad alzarmi.
Dovetti forzatamente, e all'improvviso, rimettere i piedi in terra quel giorno di giugno in cui un cupo ronzio di aeroplani si fece ad un tratto più potente, in un crescendo pauroso, fino ad assumere l'intensità di cento sirene. Allora piovvero bombe a grappoli dalla parte del ponte della ferrovia, fino a sfiorare l'ospedale, dove, per lo spostamento d'aria, fui sbalzato sul pavimento, mentre le vetrate si infrangevano e un denso polverone si spandeva velocemente. Rialzatomi, mi risultò impossibile camminare, a causa dell'atrofizzazione delle articolazione dei piedi, e solo con grande dolore alle caviglie potei trascinarmi a braccia in cantina, seguendo gli altri, in una terribile confusione.
Cessato l'allarme, con sforzo uscii in giardino per vedere il disastro del bombardamento. C'era un ciliegio carico e non potei trattenermi dal mangiare quei frutti rossi e turgidi che potei raggiungere. Intanto il paese era sconvolto e straziato per le gravissime perdite e per le distruzioni. In poco tempo la stanza mortuaria dell'ospedale si riempì di cadaveri impolverati, mutilati, sanguinanti. Mi colpì la vista di bambini, che, bianchi di polvere, sembravano statue.
“Durante le medicazioni alla ferita, nell' apposita stanzetta, il dottor Poloni approfittava per informarmi benevolmente dell' andamento della guerra, che in quel momento era in movimento per lo sbarco alleato in Normandia e la liberazione di Roma. (…). Tuttavia la mia condizione irregolare era sempre una minaccia incombente. Una mattina un giovane ben vestito venne al mio letto e, dicendosi inviato del CNL, volle sapere i particolari della mia storia. Io, ingenuamente fiducioso, gli raccontai in parte le mie peripezie, pur rendendomi conto, ad un certo punto, che qualcosa non quadrava. Quando il giovane fu uscito, l'infermiere Pietro mi venne a dire, allarmato, che quel tale era venuto con una macchina dei Carabinieri.
(…) Dopo un mese di ospedale non avevo ancora potuto cominciare ad alzarmi.
Dovetti forzatamente, e all'improvviso, rimettere i piedi in terra quel giorno di giugno in cui un cupo ronzio di aeroplani si fece ad un tratto più potente, in un crescendo pauroso, fino ad assumere l'intensità di cento sirene. Allora piovvero bombe a grappoli dalla parte del ponte della ferrovia, fino a sfiorare l'ospedale, dove, per lo spostamento d'aria, fui sbalzato sul pavimento, mentre le vetrate si infrangevano e un denso polverone si spandeva velocemente. Rialzatomi, mi risultò impossibile camminare, a causa dell'atrofizzazione delle articolazione dei piedi, e solo con grande dolore alle caviglie potei trascinarmi a braccia in cantina, seguendo gli altri, in una terribile confusione.
Marradi, giugno 1944 i danni del bombardamento nei pressi dell' Ospedale.
Questa è Via Roma, oggi via Dino Campana. Sullo sfondo si vede il viadotto ferroviario di Villanceto colpito dalle bombe.
Cessato l'allarme, con sforzo uscii in giardino per vedere il disastro del bombardamento. C'era un ciliegio carico e non potei trattenermi dal mangiare quei frutti rossi e turgidi che potei raggiungere. Intanto il paese era sconvolto e straziato per le gravissime perdite e per le distruzioni. In poco tempo la stanza mortuaria dell'ospedale si riempì di cadaveri impolverati, mutilati, sanguinanti. Mi colpì la vista di bambini, che, bianchi di polvere, sembravano statue.
L' ospedale colpito dovette trasferirsi, con tutti i ricoverati ed i feriti dal bombardamento, al monastero di Quadalto, oltre Palazzuolo di Romagna.”
Anche Giuseppe fu trasferito a Quadalto e una volta ristabilitosi, raggiunse le formazioni partigiane che operavano sull'Appennino. Ma, a causa delle sue precarie condizioni di salute non poté fare altro che superare le linee alleate e rientrare a Firenze.
Qui, in tempo di pace, riprese la sua attività ed ebbe anche il piacere di incontrare di nuovo il dottor Pratesi che, con la sua abnegazione e con grave rischio personale, lo aveva curato sui monti salvandolo da morte certa.
Qui, in tempo di pace, riprese la sua attività ed ebbe anche il piacere di incontrare di nuovo il dottor Pratesi che, con la sua abnegazione e con grave rischio personale, lo aveva curato sui monti salvandolo da morte certa.
Interessante🤔🙄e bravi i nostri medici !!!!!😍
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