per le vie di Firenze nel ricordo
di Leonetta Cecchi Pieraccini
ricerca di Claudio Mercatali
Ora siamo nel gennaio 1918, nei giorni precedenti al ricovero
definitivo al manicomio di Castelpulci e Dino Campana è ormai allo sbando per
le vie di Firenze ... Leonetta Cecchi Pieraccini ci dice che …
Durante l'anno 1917 i nostri rapporti furono più saltuari e vaghi. Spesso il Campana spariva per mesi senza dare segno di sé. Nell'estate ci fece sapere di essersi ritirato a Marradi perché là possedeva una casa ... (anzi due). E nel foglio aveva disegnato un quadrato e una croce: che bellissima casa - Dove starò finalmente - Fra tutta gente per bene. Intanto anche il Cecchi aveva lasciato Firenze per il fronte. ...
Partito?, scrive il Campana in un giorno dell'Ottobre: Una delle mie ultime certezze che viene, speriamo per poco, a mancare ...
Quanto a
me, un po' malconcio come sono non mi resta che mettermi a rimorchio. Ora sono
con la mia famiglia. Vedremo, vedremo, senza troppa curiosità mi dico ormai.
i nostri rapporti
furono più saltuari e vaghi ...
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... e nel foglio aveva disegnato un quadrato e una croce ...
Finché una mattina di gennaio 1918 (il quattro precisamente) suonò alla
porta di casa che non eran neanche le nove. Una sua visita a quell'ora e dopo
tanta assenza, mi fece temere qualche grave motivo, e il mio timore divenne
persuasione quando scorsi il disgraziato amico che camminava su e giù per la
stanza. Era convulso e indomito come una belva in gabbia. Non mi pare che ci
scambiassimo neanche un saluto: restammo uno di fronte all' altro a scrutarci,
direi sospettosi; finché Campana, incoraggiato da un mio vago invito, proruppe
a dire che doveva liberarsi , con la confessione, di una grave, orribile colpa.
"Il responsabile della
guerra sono io. Il responsabile della guerra sono io" badava a ripetere,
smaniando e battendosi furiosamente i pugni sul petto. E mi si arrestava di
fronte come se volesse da me conferma: "Mi crede? Mi comprende?".
Io avevo assunto quel contegno di
attenzione rispettosa e consenziente che è prudenza usare con i dementi (ero
giunta naturalmente alla facile diagnosi); ma pur sforzandomi di non
dimostrarlo non nego che mi sentissi piuttosto impaurita e preoccupata. E le
ore passavano ed egli seguitava a parlare, parlare, sghignazzare, gridare, ridere,
quasi piangere quando, dopo lunghe divagazioni, tornava al punto focale di
quella sua immane colpa che così spiegava.
In lui, Dino Campana, in lui
solo, albergava lo spirito puro della poesia italiana; un' empia anima femminile
era riuscita, attraverso l'amore carnale, a carpirglielo e a farne scempio
prostituendo alle persone più indegne (e qui i nomi più assurdi); da questo
maleficio, a cui si erano allegate tutte le persone del suo mondo, dal padre al
padrone di casa, dagli amici ai nemici, ai conoscenti, era sorto il caos: dal
caos la guerra. Egli era una vittima, non un carnefice, ma egualmente colpevole
per non aver avuto la capacità di custodire e salvare il tesoro divino
affidatogli.
Non è il caso di insistere a
ricordare le aberrazioni di una mente ottenebrata. Dirò piuttosto che era
stupefacente, come in tanto farneticare, volta a volta pregno d'ambascia o di
scherno beffardo, i suoi vaneggiamenti si illuminassero di continuo di
espressioni bellissime, degne delle sua magica poesia o del suo mordente
spirito critico.
Era quasi mezzogiorno quando mi
riuscì di escogitare una concreta via d'uscita con la proposta, dal Campana
accettata, di recarsi assieme a rilevare una mia bambina da scuola. Avevo
riflettuto che potevo soltanto così procurarmi la possibilità di incontrare
qualche persona di conoscenza che mi assistesse nelle mia difficile situazione.
Ci avviammo. Era una giornataccia di tramontana, quella tramontana tempestosa che ho sperimentato soltanto a Firenze e a Volterra. Appena imboccata piazza Donatello una folata di vento portò via il cappelluccio di feltro del Campana, e un' infilata di mulinelli lo trascinò su per i viali come una ruzzola in corsa.
Campana si slanciò a corrergli dietro con un accanimento e un'energia di cui non l'avrei ritenuto capace in quelle condizioni di spirito. Dopo vari insuccessi e rinnovate galoppate lungo il viale Principe Eugenio egli riuscì a ghermire il conteso cappello, e quasi sorrideva, rasserenato, nell' arruffio dei capelli e della barba, mentre tornava verso di me riaggiustandone la forma sbertucciata e pulendolo con il gomito. Lo sfogo fisico della corsa lo aveva scaricato; ed egli era tornato di colpo la mite persona, cauta e riservata, dei periodi normali. Si scusò di avermi inutilmente infastidito, mi ringraziò di averlo ascoltato con benevolenza, si congedò cortese e compìto. Lo stravagante incontro si concluse nel più convenzionale e borghese commiato. Seppi che il poverino girò ancora per qualche giorno per Firenze, in preda a frequenti accessi di agitazione. Poi, che si era ritirato a Marradi, dalla famiglia. Di là scrisse poche righe per chieder notizie dell'amica Sibilla, una seconda per inviare le poche battute del dialogo di Faust e Mefisto, e sbagliò, sulla sopraccarta, il mio nome di battesimo. Poi più nulla.
Anche oggi è il 4 gennaio, cento anni dopo quello che è raccontato qui sopra. Sembra che sia passato tanto tempo, ma in fondo 100 anni non sono un gran che ...
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