Lanfranco Raparo, Marradi

Lanfranco Raparo, Marradi

sabato 25 luglio 2020

Il Galateo

Qualche regola di bon ton secondo Giovanni della Casa

ricerca di Claudio Mercatali

 


Villa La Casa, a Mucciano (Panicaglia) 

dove nacque il monsignore 


 


Certe parole entrano nel linguaggio comune con una forza incredibile e tutti le usano. La parola “galateo” è una di queste. Le famose “regole del galateo” sono entrate nell’ immaginario collettivo come le leggi della buona creanza, anche se pochi di noi hanno letto l’opera
Galateo ovvero de’ costumi di Giovanni della Casa, dove sono descritte. Però questo non è importante, perché ormai la parola galateo è un nome astratto per dire “di buona maniera”. 


Monsignor Giovanni della Casa


Giovanni della Casa quasi certamente nacque a Ronta, anche se Firenze ne rivendica i natali. Alto prelato e monsignore fu come si dice uomo di curia e d’apparato, impegnato nell’ Inquisizione e nei complicati intrecci politici del Papato nel Cinquecento.


Insomma era il contrario del bonario pievano mugellano. Per carattere era molto più deciso e di sostanza di quanto le sue leziose descrizioni lascerebbero intendere. Andiamo a curiosare nei suoi scritti per capire quali erano secondo lui i criteri della buona creanza. La sua opera si compone di trenta capitoli, qui di seguito c’è la sintesi di quattro.
Leggiamo:

 

Cap. III  Cose laide da non fare o nominare   


Percioché non solamente non sono da fare in presenza degli uomini le cose laide o fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice … 

E’ perciò sconcio costume quello di alcuni che in palese si pongono le mani in qual parte del corpo vien lor voglia. Similmente non si conviene a gentiluomo costumato apparecchiarsi alle necessità naturali nel conspetto degli uomini; né, quelle finite, rivestirsi nella loro presenza; né pure, si laverà egli per mio consiglio le mani dinanzi ad onesta brigata. E molto meno il porgere altrui a fiutare alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare con grandissima instanzia, pure accostandocela al naso e dicendo: – Deh, sentite di grazia come questo pute! –; anzi doverebbon dire: – Non lo fiutate, percioché pute –. E così il dirugginare i denti, il sufolare, lo stridere e lo stropicciar pietre aspre et il fregar ferro spiace agli orecchi, e deesene l’uomo astenere più che può. E non sol questo; ma deesi l’uomo guardare di cantare, specialmente solo, se egli ha la voce discordata e difforme.


Sono ancora di quelli che, tossendo e starnutendo, fanno sì fatto lo strepito che assordano altrui; e di quelli che, in simili atti, poco discretamente usandoli, spruzzano nel viso a’ circostanti …

 

Il continuo sbadigliare secondo il Monsignore è sintomo di scarsa educazione, e anche per noi oggi è così: “Dee l’uomo costumato astenersi dal molto sbadigliare, percioché pare che colui che spesso sbadiglia amerebbe di esser più tosto in altra parte che quivi, e che la brigata, ove egli è, et i ragionamenti et i modi loro gli rincrescano. Quando altri sbadiglia colà dove siano persone ociose e sanza pensiero, tutti gli altri, come tu puoi aver veduto far molte volte, risbadigliano incontinente, quasi colui abbia loro ridotto a memoria quello che eglino arebbono prima fatto, se essi se ne fossino ricordati. Et ho io sentito molte volte dire a’ savi litterati che tanto viene a dire in latino sbadigliante quanto neghittoso e trascurato…”

Il soffiarsi il naso, l’odorare o l’assaggiare sono mo­menti delicati: “Non si vuole anco, soffiato che tu ti sarai il naso, aprire il moccichino e guardarvi entro, come se perle o rubini ti dovessero esser discesi dal cièlabro, … Sconvenevol costume è anco, quando alcuno mette il naso in sul bicchier del vino che altri ha a bere, o su la vivanda che altri dee mangiare, per cagion dal naso possono cader di quelle cose che l’uomo ave a schifo. Né per mio consiglio porgerai tu a bere altrui quel bicchier di vino al quale tu arai posto bocca et assaggiatolo, salvo se egli non fosse teco più che domestico; e molto meno si dee porgere pera o altro frutto nel quale tu arai dato di morso.”.

Perché il libro del Monsignore si chiama Galateo? Ecco la spiegazione.  

Cap. IV Aneddoto di Messer Galateo e del Conte Ricciardo (riassunto) 

Sappi che in Verona ebbe già un Ve­scovo il cui nome fu messer Giovanni Matteo Giberti … Avenne che, passando in quel tempo di là un nobile uomo, nomato Conte Ricciardo, egli si dimorò più giorni col Vescovo e con la famiglia di lui ... E percioché gentilissimo cavaliere parea loro e di bellissime maniere, molto lo apprezzarono; se non che un picciolo difetto avea ne’ suoi modi; e il Vescovo propose che fosse da farne aveduto il Conte. Al commiato il Vescovo, chiamato un suo famigliare, gli im­pose che, montato a cavallo col Conte, per accompagnarlo … per dolce modo gli venisse di­cendo quello che essi aveano proposto tra loro. Era il detto famigliare Messer Galateo. Costui, cavalcando col Conte … con lieto viso gli venne dolcemente così dicendo: – Signor mio, voi siete il più leggiadro et il più costumato gentiluomo che mai paresse al Vescovo di vedere; solamente un atto difforme voi fate con le labbra e la bocca, masticando con uno strepito molto spiacevole ad udire. Questo vi manda significando il Vescovo … Il Conte, che del suo difetto non si era mai aveduto, udendoselo rimproverare, arrossò così un poco … e disse: – Direte al Vescovo che, se tali fossero tutti i doni che gli uomini si fanno infra di loro, quale il suo è, eglino troppo più ricchi sarebbono che essi non sono. E di tanta sua cortesia e liberalità verso di me ringraziatelo sanza fine, assicurandolo che io del mio difetto sanza dubbio dili­gentemente mi guarderò; et andatevi con Dio.

Come ci si deve comportare a tavola? Sentiamo:

 Cap. V A tavola: modi dei commensali e dei servitori 



Annibale Carracci, il mangiatore di fagioli

… Dee adunque l’uomo costumato guardarsi di non ugnersi le dita sì che la tovagliuola ne rimanga imbrattata, percioché ella è stomachevole a vedere; et anco il fregarle al pane che egli dee mangiare, non pare polito costume. I nobili servidori, i quali si essercitano nel servigio della tavola, non si deono per alcuna condizione grattare il capo né altrove dinanzi al loro signore quando e’ mangia, né porsi le mani in alcuna di quelle parti del corpo che si cuoprono, né pure farne sembiante, sì come alcuni trascurati famigliari fanno, tenendosele in seno, o di dirieto nascoste sotto a’ panni; ma le deono tenere in palese e fuori d’ogni sospetto, et averle con ogni diligenza lavate e nette, sanza avervi sù pure un segnuzzo di bruttura in alcuna parte. E quelli che arrecano i piattelli o porgono la coppa, diligentemente si astenghino da sputare, da tossire e, più, da starnutire …


Annibale Carracci, il bevitore

E se talora averai posto a scaldare pera d’intorno al focolare, o arrostito pane in su la brage, tu non vi dèi soffiare entro, percioché si dice che mai vento non fu sanza acqua. Non offerirai il tuo moccichino comeché sia di bucato a persona: percioché quegli a cui tu lo proferi no ‘l sa, e potrebbelsi avere a schifo. Quando si favella con alcuno, non gli si dee l’uomo avicinare sì che se gli aliti nel viso, percioché molti troverai che non amano di sentire il fiato altrui, quantunque cattivo odore non ne venisse.


E con gli altri come ci si deve comportare? 

Cap.VI Comportamenti da tenere in compagnia 

Tu dèi sapere che gli uomini naturalmente appetiscono più cose e varie, e alcuni vogliono sodisfare all’ira, alla gola, altri alla libidine et altri alla avarizia et altro ma, comunicando infra di loro, non chiedono alcuna delle sopradette cose, come se elle non consistano nel favellar delle persone, ma in altro. Appetiscono quello che può conceder loro il comunicare insieme; e ciò pare che sia benevolenza, onore e sollazzo. E non si dee dire né fare cosa per la quale altri dia segno di poco amare o di poco apprezzar.

Addormentarsi quando si è in compagnia è segno di scarso apprezzamento: “… Poco gentil costume pare che sia quello che molti sogliono usare, di volentieri dormirsi colà dove onesta brigata si segga e ragioni, percioché, così facendo, dimostrano che poco gli apprezzino e poco lor caglia de’ loro ragionamenti …

Farsi i fatti propri è segno di noia: “… E per questa cagione il drizzarsi ove gli altri seggano e passeggiar per la camera pare noiosa usanza. Sono ancora di quelli che si dimenano e sbadigliano, rivolgendosi ora in su l’un lato et ora in su l’altro, e pare segno evidente che la brigata con cui sono rincresce loro. Male fa similmente chi, tratte fuori le forbicine, si dà a tagliarsi le unghie, quasi che egli abbia quella brigata per nulla e si procacci altro sollazzo per trapassare il tempo. Non si deono anco tener quei modi che alcuni usano: cioè cantarsi fra’ denti o sonare il tamburino con le dita o dimenar le gambe; percioché questi così fatti modi mostrano che la persona sia non curante d’altrui”.

Non sta bene voltarsi di spalle o far vede la biancheria: “… Oltre acciò, non si vuol che l’uomi mostri le spalle altrui, né tenere alto l’una gamba sì che quelle parti che i vestimenti ricuoprono si possano vedere: percioché cotali atti non si soglion fare, se non tra quelle persone che l’uom non riverisce”.

Appoggiarsi alla spalla e “dare di gomito” a chi ascolta non è educato: “… Dee l’uomo recarsi sopra di sé e non appoggiarsi né aggravarsi addosso altrui; e, quando favella, non dee punzecchiare altrui col gomito, come molti soglion fare ad ogni parola, dicendo: – Non dissi io vero? –  Eh, voi? – Eh, messer tale? – e tuttavia vi frugano col gomito”.

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