raccontata
dalla Aleramo
ricerca di Claudio
Mercatali
Sibilla Aleramo lasciò per
testamento al Partito Comunista Italiano la raccolta delle sue lettere, che ora
sono custodite all'Istituto Gramsci di Roma. L'Archivio Aleramo comprende migliaia
di lettere, manoscritti, appunti, il testamento e una rassegna stampa di quanto
è stato scritto su di lei.
In uno di questi documenti essa
racconta la sua relazione con Dino Campana:
[...] A Firenze, settimane
prima, avevo sentito parlare, forse da Franchi, di uno strano volumetto: Canti
Orfici, pubblicato in veste meschina a spese dell'autore Dino Campana. L'avevo
portato con me in campagna. Lo lessi, ne rimasi abbacinata e incantata insieme,
tanto che scrissi al poeta alcune parole d'ammirazione. Egli mi rispose, una
bizzarra cartolina. Abitava anche lui in quel momento nel Mugello, nel suo
paese nativo, Rifredo (... Marradi). Vi fu uno scambio epistolare, dopo di che
ci incontrammo a Barco, un gruppetto di case ad un valico dell'Appennino
Toscano.
L'amore divampò, in un delirio selvaggio. Campana era già pazzo, già
stato rinchiuso due volte per qualche settimana in manicomio, ma io non volevo
crederlo tale, e nei primi tempi, per tutto il mese anzi che passai con lui
lassù, in una località detta Casetta di Chiara (... Tiara), egli fu, pur in
mezzo a mille stravaganze, molto tranquillo, dolcissimo innamorato come un
bimbo.
Diceva di non esser più
capace di scrivere, ma non pareva soffrirne. Progettava, per l'inverno, di
impiegarsi, di lavorare, di vivere con me e per me. Eravamo felici. Scrissi
"Fauno".
Ma appena sceso a Firenze, a
settembre, incominciarono a manifestarsi segni gravi di squilibrio. Tutto il
mio passato lo ingelosiva atrocemente. Volle che andassimo a nasconderci a
Marina di Pisa; presi a nolo tra la pineta e il mare una villetta ("ove si
disse vi che aveva abitato anche G. D'Annunzio"), ove si rimase solo pochi
giorni, egli cominciò a dare in escandescenze, a far scene violente, sino a battermi
e a sputarmi in viso. Spaventata, disperata, fuggii a Firenze, dalla
Castiglione, dove venne a trovarmi Emilio Cecchi, che mi vide con un occhio
pesto, e mi scongiurò di rompere ogni rapporto con Dino, se non volevo
perdermi. Ma io l'amavo troppo ancora. Tornai a Marina di Pisa, si andò assieme
ai Bagni di Casciana, dove io iniziai una cura di acque calde, ma anche là egli
ebbe manifestazioni paurose sin che lo persuasi a partire, ad aspettarmi presso
Firenze, da un'amica svedese che affittava stanze, presso Settignano. Là lo
raggiunsi, e si visse sino al dicembre, in una alternativa quotidiana e
notturna di violenze e disperazioni, che mi rendevano a mia volta folle. Tornai
in città, presi una stanza sopra al Ponte di Santa Trinità, chiesi aiuti di denaro
per lui a gente ricca. Egli giungeva, ripartiva, scriveva pentito, implorava
perdono e amore. Giunsi ad un tale stato d'esaurimento e di panico, pur col
cuore gonfio di pietà e di passione, che mi rifugiai, senza dargli l'indirizzo,
presso un'altra amica mia ch'egli non conosceva. Gli scrissi supplicandolo di
eseguire il progetto di recarsi in montagna, un luogo delle Alpi piemontesi
ov'era già stato, mi pare, e lá cercar di ritrovare salute e calma.
Così finalmente fece, e io
tornai alla stanza sull'Arno, ma ero disfatta da quei brevi eterni mesi di
martirio. Passai tutto l'inverno cosi, squallidamente, attendendo le rade
lettere di Dino, aggrappandomi alla speranza d'una guarigione che nel fondo di
me stessa sapevo impossibile ormai. Lavoravo alle traduzioni per l'Istituto
Francese meccanicamente, e a qualche strofa del Passaggio (v. il cap. Il
silenzio e qualche brano inserto nel II).
In aprile ebbi da mio padre
l'annunzio della morte di mia madre, avvenuta nel Manicomio di Macerata, dopo
oltre vent'anni di reclusione.
La guerra continuava. Franchi
era anche lui partito per il fronte. Franchi che aveva sopportato con infinita
abnegazione l'esser sacrificato all'amore per Campana, e portò la ferita in sé
per innumerevoli anni. Vedevo qualche volta la de Blasi, la Castiglione, Padre
Pistelli, i Luchaire. Tutto è avvolto in una nebbia dolente nel ricordo.
A giugno andai a Milano, per
qualche settimana. (Credo m'abbia raggiunta là la notizia della morte di Boine.
L'estate prima in Mugello avevo avuto quella della morte di Boccioni soldato).
Mi trovavo con i Tallone, non ricordo se Teresa si era già sposata con Somarè.
Cesare Tallone, pittore,
e alcuni suoi quadri.
Vidi i Gonzales. (Michele e
Rebora erano al fronte). Ebbi da essi l'indicazione d'un alberghetto alpino ove
passar l'estate: Ca' di Janzo, in Val Sesia. Arrivai là, sola, per San
Giovanni. Tutta questa fine di giugno fu soleggiata e dolce. L'alberghetto era vuoto,
io sola pensionante. Trovai finalmente un po' di distensione ebbi un po' di requie.
Cà
di Janzo
Scrissi la fine del capitolo
Le carovane, e tutto quello della Favola. Leggevo Sofocle e Pindaro. Campana
non mi scriveva più, doveva aver lasciato le Alpi ed esser ridisceso in
Toscana. Cominciavo a rinunciare alla speranza di rivederlo e riaverlo e agire
sul suo destino.
Verso la metà di luglio
l'alberghetto si popolò di gente tranquilla. Poi ad agosto giunse Luchaire, con
la sua seconda moglie, un'italiana, e il loro bimbetto di tre anni. Si fecero
gite assieme (una al Col d'Olen, dinanzi al Monte Rosa, dove pernottai e
scrissi la breve lirica Orgoglio). Poi essi ripartirono e io tornai a settembre
a Milano.
Là, all' Hotel Manin, ebbi un
telegramma di Campana, da Novara, che mi supplicava di andarlo a visitare alle
Carceri di quella città. Sgomenta, mi feci dare dall'avv. Gonzales una lettera
di presentazione per il Procuratore del Re di Novara e accorsi. Campana era
stato arrestato per vagabondaggio e insufficienza di documenti, ecc. Il suo
aspetto l'aveva fatto prendere per un tedesco.
Ottenni di rivederlo
attraverso le sbarre. Egli singhiozzava, mi chiamava Rina, Rina, mi baciava le
mani fra i ferri. Fuggii. Ebbi dal Procuratore la promessa che sarebbe stato
liberato. Qualche mese dopo seppi da Cecchi che era tornato in Toscana, e là
rinchiuso in manicomio, dove morì 14 anni dopo [...].
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